Omelia Venerdì Santo

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Cattedrale di Pennabilli, 3 aprile 2015

Is 52,13- 53,12
Sal 30
Eb 4,14-16; 5,7-9
Gv 18,1- 19,42

È la croce che stasera ci parla. Ascoltiamola. «Difficilmente un artigiano o un orafo antico riuscirebbe a dominare la repulsione di fronte al vostro uso di riprodurmi come ornamento da appendere al collo, da piantare in cima ai monti, da fissare alle pareti di casa… Ero uno strumento di supplizio orribile e raccapricciante. San Paolo non ha esagerato nel qualificare Cristo crocifisso scandalo per i Giudei, follia per i pagani (1Cor 1,23).
Un inciso, probabilmente utile… questa era la prassi della crocifissione. Giunto sul luogo del supplizio, vicino al palo già piantato in terra, il condannato veniva spogliato delle sue vesti e poi disteso a terra supinamente in modo che sotto di sé, lungo le spalle e le braccia aperte, avesse il palo orizzontale, da lui portato. In tale posizione le mani venivano inchiodate al palo. Per mezzo di una fune che lo recingeva al petto, il condannato veniva elevato sul palo verticale. Infine si inchiodavano i piedi. Ridotto in tale stato il crocifisso aspettava la morte. Questa la prassi ordinaria seguita per tutte le crocifissioni. E così fu crocifisso Gesù.
Ma il supplizio accettato da Gesù ha subìto una straordinaria trasfigurazione. A salvarvi non fu il dolore, né lo strazio delle membra. A salvarvi fu l’amore. E io – dice la croce – ne sono testimone. La fede pasquale ha saputo suggerire metafore tali da mutare il mio aspetto. Chiunque di voi è impegnato a trasformare il dolore con l’amore, comprenderà.
Sono diventata – continua la croce – un trofeo di vittoria e trono regale. Su di me si è consumato un duello all’ultimo sangue: l’autore della vita ha sfidato la morte. «Avvenne allora che la morte si avvicinasse a Gesù per divorarlo… Non si accorse però che nel frutto mortale che mangiava, era nascosta la vita. Fu questa che causò la fine dell’incauta divoratrice» (Sant’Efrem, Discorso sul Signore, 3-4.9). Sono trofeo di vittoria non perché destinata ai vessilli di guerra, ma perché su di me s’è celebrata la vittoria: “Chi dall’albero traeva vittoria, cioè l’antico tentatore e nemico dell’uomo, dall’albero veniva sconfitto (cfr. Messale Romano, Prefazio per la Festa dell’Esaltazione della croce). Il primo albero coi suoi frutti ingannevoli portò alla ribellione, io – secondo albero, la croce –  ti mostro l’umiltà di Dio che si fa samaritano dell’uomo. Prima veniste uccisi dal legno, ora attraverso le mie braccia recuperate la vita. Vi invito a salire su di me come i figli di Noè sull’Arca. Ho il potere di galleggiare e condurvi in salvo verso il porto sospirato. Al mio passaggio le acqua mare diventano dolci.
Sono trono. Su questo legno Gesù è salito come un re sul carro trionfale, come un valoroso combattente. Venne ferito in battaglia, alle mani, ai piedi e al costato, ma con quel sangue risana. L’onnipotenza divina si è data nella forma della debolezza. Regnavit a ligno Deus: canta un antico inno.
Avvicinatevi senza paura, sono altare. Su di me si immola la vittima, l’Agnello del vostro riscatto. Gesù inchiodato su di me muore per voi, cioè a causa di voi, al posto di voi, a vostro vantaggio. Il dramma che si consuma su di me è una liturgia. Ironia: gli attrezzi che servono alla crocifissione, alla cui vista si inorridisce, sono gli strumenti di una divina liturgia. Il sangue è l’acqua che escono dal corpo del Signore e mi bagnano, scorrono come il torrente che il profeta Ezechiele vide sgorgare dal lato destro del tempio per portare vita a tutti coloro che l’onda lambisce (cfr. Ez 47, 1; Ap 22, 1-2).
Inaudito. Sono letto nuziale sul quale il Signore, spogliato delle sue vesti, si distende per darsi alla sua sposa. Un antico inno mi descrive: “Morbido tronco che accoglie le membra del Cristo Signore” (cfr. Inno Vexilla regis). Trasmetto a voi – dice la croce – il sublime invito del Signore: «Vedete, vedete in me il vostro corpo, le vostre membra, il vostro cuore, le vostre ossa, il vostro sangue. E se temete ciò che è di Dio, perché non amate almeno ciò che è vostro? Ma forse vi copre di confusione la gravità ciò che mi avete inflitto. Non abbiate timore. Questa croce non è un pungiglione per me, ma per la morte. Questi chiodi non mi procurano tanto dolore, quanto imprimono più profondamente in me l’amore verso di voi. Queste ferite non mi fanno gemere, ma piuttosto introducono voi nel mio interno IL mio corpo disteso anziché accrescere la pena allarga gli spazi del cuore per accogliervi. Il mio sangue non è perduto per me, ma è donato in riscatto per voi. Venite dunque». (Dal Discorso 108 di San Pier Crisologo). “Ecco il legno della Croce, venite adoriamo”.

Omelia del Giovedì Santo

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Cattedrale di Pennabilli, 2 aprile 2015
 
Es 12,1-8.11-14
Sal 115
1Cor 11,23-26
Gv 13,1-15
I nostri sguardi questa sera sono puntati sull’altare. Cediamo la parola all’altare. Ascoltiamone le suggestioni. Parli lui. L’altare sta al centro dell’aula sacra, la Cattedrale, leggermente sopraelevato, ma non troppo per non apparire inaccessibile. Un sussurro. Sentite: Togliti i sandali dai piedi perché il luogo sul quale tu stai è terra santa! (Es 3,5).
Ti trovi all’imboccatura della cavità di una rupe dove lo splendore della gloria del Signore passa mentre tu sei protetto dalla sua mano perché non puoi vedere il suo volto e restare vivo. Ecco un luogo a me vicino… (Es 33,21). Passando – dice il Signore – proclamerò il mio nome: Signore, davanti a te. Farò grazia a chi vorrò fare grazia (Es 33,19).
L’altare è la fenditura della roccia dalla quale scaturiscono torrenti di acqua viva per noi popolo incamminato nel deserto di questo mondo (cfr. Es 17, 6), prefigurazione del cuore squarciato che effonde lo Spirito (cfr. Gv 19,34). La fenditura nella roccia, nella trasfigurazione innamorata del Cantico dei Cantici, è il luogo nel quale la colomba è invitata ad uscire per l’incontro con l’amante (cfr. Cant 2,14).
Quante luci, quante voci, quante suggestioni attorno a questo altare. Ma siamo anche avvertiti da Gesù: Se dunque porti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va prima a riconciliarti… (Mt 5, 23-24). Sarebbe mistica vana e ingannatrice quella che distogliesse dalle responsabilità.
Davanti all’altare timore e tremore… (cfr. Fil 2,12)

L’altare è il luogo della nostra fraterna riunione. Qui Gesù ci dà immancabilmente appuntamento: Venite, vedrete (Gv 1, 39). Chi ha sete venga a me e beva (Gv 7,37). O voi tutti assetati, venite all’acqua, chi non ha denaro venga ugualmente (Is 55,1), cioè senza il vanto dei meriti. In tante occasioni Gesù ha voluto significare con la convivialità il segno del Regno di Dio che viene. Convivialità da cui non esclude i peccatori per festeggiare il loro ritorno o per favorirlo. E’ il caso di Levi Matteo passato in un istante dal banco dei suoi traffici alla tavola con Gesù (cfr. Mc 2,13-15). Così Zaccheo e tanti altri.
Gesù si mise a tavola con i suoi…
C’è prossimità in questo flash, c’è intimità, c’è amicizia. Ci sono parole sussurrate, inaudite dichiarazioni d’amore: Prendete e mangiate… prendete e bevete. Attorno alla tavola quella sera ci fu trasalimento, si incrociarono sguardi stupefatti, poi pieni d’amore, come i nostri di questa sera. Il prediletto – è celato il nome: potrebbe essere ciascuno di noi venuto alla santa cena – adagia il suo capo sul petto di Gesù (cfr. Gv 13,25). Dall’altare di marmo all’altare incandescente d’amore, altare di carne, vivo e palpitante.
Attorno all’altare con audacia.

L’altare è dunque un’ara dove Gesù si dà, si fa pasto, agnello immolato. Nel marmo, incastonate, sono conservate le reliquie dei martiri: i cristiani che hanno corrisposto a tanto amore con il loro amore, hanno dato la vita per Gesù. Chi sta alla tavola di Gesù, impara a fare della sua vita un dono.
L’altare è una tavola. Verrà apparecchiata. C’è chi dispone fiori e luci, chi distende tovaglie, chi sparge profumi e incenso. Ci sono ministri e c’è il sacerdote che agisce “in persona Christi”. Ahimè ci sono anche da noi altari senza tovaglie, senza fiori, disadorni e coperti di polvere. Altari attorno ai quali non ci sono più chierichetti, né canti, né luci. Altari sui quali da anni non sale più il sacerdote. Senza Eucaristia non c’è Chiesa. Ma più della scarsità dei sacerdoti vorrei parlare della bellezza dell’essere sacerdote, di avere un chiamato al sacerdozio nella nostra famiglia.
Attorno alla tavola c’è il futuro: il nostro riunirci è prefigurazione dell’unità dei figli di Dio. In forma stilizzata è anticipato il nostro destino: diventare famiglia dei figli di Dio.
L’altare, uno squarcio sul futuro.

Siamo qui attorno all’altare come peccatori, ma in via di conversione. Con il fardello delle nostre fatiche e delle nostre relazioni non sempre facili, ma qui siamo da riconciliati. Ecco il segno commovente della lavanda dei piedi. Il Signore desidera che saliamo l’altare purificati. Non sentiamoci umiliati dall’invito alla confessione delle nostre colpe. Più umiliante sarebbe dichiararci irresponsabili del peccato.
Altare, luogo della gelosia del Signore: ci vuole fedeli ogni domenica all’appuntamento. Non per precetto, ma per amore. Ci vuole con l’animo aperto e disponibile al comandamento nuovo. Così sia.

Omelia S. Messa Crismale

Omelia S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di Pennabilli, 2 aprile 2015
 
Is 61,1-3.6.8-9
Sal 88
Ap 1,5-8
Lc 4,16-21

Fratelli carissimi, eccoci a celebrare la comunione del nostro sacerdozio, la comunione tra noi, la comunione con Cristo! È una liturgia speciale che ci vede tutti riuniti per la rinnovazione degli oli dei Sacramenti di salvezza – per la rinnovazione delle promesse sacerdotali – per la rinnovazione della nostra alleanza con Cristo.

Il Vangelo – quel brano di Luca che abbiamo tante volte meditato – ci vuole a confronto con Cristo.
Consideriamo un attimo la centralità del Vangelo (cfr. la mia Lettera pasquale).
Il tempio gli riserva una vera e propria mensa (l’ambone) accanto a quella eucaristica: la duplice mensa della Parola e del Pane! (cfr. SC 7)
La liturgia poi ci educa alla venerazione e adorazione del Vangelo: l’incensazione, il bacio, le acclamazioni del popolo che sembrano scavalcare gli inviti del ministro e lo salutano come Cristo stesso: «Gloria a te, o Signore… lode a te, o Cristo».
Lo sappiamo bene: il Vangelo è luogo, come tutta la Scrittura, di una presenza di Cristo.
Egli: «È presente nella sua parola, poiché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura» (cfr. DV 18).
Dunque, nel Vangelo cerchi e trovi Cristo.

Il Vangelo di oggi ci offre Cristo come modello del sacerdote, modello dell’opera sacerdotale, modello della vita sacerdotale.
Guardiamo a lui, confrontiamoci con lui, esaminiamo la nostra condotta se assomiglia alla sua e rinnoviamo con slancio – come la prima volta – le promesse sacerdotali, promessa di lasciarlo agire in noi liberamente e totalmente.
È il ministero stesso (responsabilità che abbiamo assunto davanti a Dio e al suo popolo) che esige consonanza perfetta della nostra mente, del nostro cuore, dei nostri sentimenti e dei nostri atti, della nostra persona con la sua.
È San Paolo che ha “inventato” e fatta sua la bella formula: «In persona Christi» (2Cor 2,10). Noi operiamo “in persona Christi”, immersi in lui, dotati della sua potestà, colmati dei doni della sua verità, del suo amore, della sua misericordia e noi viviamo – sarebbe bello esserne sempre consapevoli – “in persona Christi”.
Noi non finiremo di approfondire questa pagine, di imparare questo Cristo!

Sottolineo anzitutto l’importanza del brano di Luca che abbiamo sentito proclamare. L’importanza è data dalla sua posizione nella struttura del Vangelo. Dopo il Vangelo dell’infanzia e dopo il trittico (comune ai sinottici) della predicazione del Battista, del Battesimo di Gesù e delle tentazioni del Signore nel deserto, Luca ci presenta, all’inizio dell’attività di Gesù, l’episodio della sinagoga di Nazaret. Gesù entra in scena sotto l’azione dello Spirito Santo. Notare poi la conclusione che fa vedere tutto un susseguirsi di atteggiamenti entusiastici, provocatori, ostili, minacciosi nella folla, e in Gesù un temperamento e un carattere calmi, sicuri, vittoriosi. Forse Luca raccoglie qui insieme diversi episodi accaduti nella sinagoga di Nazaret. Ma l’importanza del brano è che è posto all’inizio dell’attività di Gesù come un fatto paradigmatico, esemplificativo a tutta la missione di Gesù.
Una missione che comincia con gli applausi, che poi si incrina con le contestazioni dei nazaretani e termina con il tentativo di omicidio. Ma Gesù se ne andrà libero, passando in mezzo a tutti (cfr. Lc 4,30).

Principali ricchezze del brano. Anzitutto scrive il testo: «Si recò a Nazaret dove era stato allevato» (Lc 4, 16). Gesù ritorna ai luoghi dell’infanzia, della giovinezza, della formazione ricevuta in famiglia, da Maria, da Giuseppe. Un invito per noi a tornare alle sorgenti della nostra formazione: famiglia, parrocchia, seminario. A tante e dolci immagini paterne; ai primi puri, gioiosi, segreti e comunitari incontri con il Signore, la sua dottrina, la sua bontà, la sua amicizia.

E poi: «Entrò secondo il suo solito, di sabato, nella sinagoga e si alzò a leggere… » (Lc 4,16). Un Gesù che entra decisamente nella comunità, che prende l’iniziativa, che mostra i risultati umani della sua formazione: umanamente maturo, completo, perfetto. Un invito per noi a considerarci uomini pubblici, a farci avanti, a muoverci, come più volte dicono degli apostoli gli Atti e le Lettere di San Paolo, con coraggio, parresia, senza paura… a proclamare il Vangelo.

Ed ancora: «Si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove era scritto… Poi arrotolò il volume, lo consegnò all’inserviente e sedette» (Lc 4, 16.17.20). Possiamo ammirare in tutto questo la ritualità, la signorilità, lo stile, il rispetto, la devozione di Gesù: «Si alzògli fu datoarrotolòconsegnòsedette». Cinque verbi! Tutto quello che fa di Gesù ciò che oggi si direbbe un maestro nella celebrazione, nell’arte del celebrare. Invito per noi al senso del sacro, all’osservanza delle norme, ad insegnare con le nostre celebrazioni.

Gesù legge la Scrittura, legge la pericope fissata per quel giorno: «Lo Spirito del Signore è su di me…». Sottolineo l’amore alla Sacra Scrittura, l’amore alla Parola di Dio. La prima predica di Gesù in Luca non è fatta con parole proprie, ma con la Parola di Dio. Gesù la proclama. La esalta. La premette ad ogni sua considerazione.
Invito, anche questo, per noi, a predicare la Parola, ad essere come i primi apostoli, servitori della Parola, a leggervi tutto, a trovarvi tutto. Ad amarla, a farla amare. Poi faremo sorgere in essa Gesù. Perché Gesù è la Parola, il Verbo.

E la pagina continua: «E gli occhi di tutti erano su di lui…». È un particolare stupendo. Può significare la trepidazione dei paesani, la loro ansia, il loro orgoglio, la curiosità forse… Ma dice certamente l’attesa. Quanta attesa e quante attese nei confronti di Gesù che già iniziava a fare miracoli. Pensiamo noi pure alla nostra prima Messa, alle primizie del nostro servizio ecclesiale. Quante attese anche per noi. Come per Giovanni Battista, tanti si saranno domandati: “Che sarà di questo ragazzo? Di questo nuovo sacerdote?”(cfr. Lc 1,66). Con la nostra vita abbiamo risposto? Abbiamo deluso?

E il Vangelo di oggi conclude: «Allora cominciò a dire: “Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udito con i vostri orecchi…”».
Ecco il tema, ecco il riassunto della spiegazione data da Gesù. Egli si mostra compimento delle Scritture e delle profezie. È il Messia, uomo dello Spirito e dei tempi ultimi, i tempi nuovi. E noi? Possiamo almeno balbettare qualcosa di simile? Siamo un Vangelo vivente? Rendiamo testimonianza con la nostra esistenza? Col nostro stile di vita? Chi ci guarda cosa legge nella nostra condotta?
Impariamo da Gesù: modello del sacerdote, modello dell’opera sacerdotale, modello della vita sacerdotale.

Omelia per l’Insediamento dei nuovi Capitani Reggenti

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Basilica del Santo Marino, 1 aprile 2015

Eccellenze,
Signore, Signori, fratelli e sorelle,
Gesù ha dichiarato il suo ardente desiderio di fare Pasqua. Nel parallelo di Luca il desiderio viene espresso con una forma particolare: «Desiderio desideravi» (Lc 22,15). E di rincalzo gli apostoli, amici intimi: «Dove vuoi che ti prepariamo?» (Mt 26,17). Quanta attenzione per il Maestro, quanta premura, quanta sollecitudine. Ad un desiderio, subito una disponibilità… Normalmente nei rapporti funziona così, quando le relazioni sono autentiche e nella verità. Ci si fida.
Ci può essere – e c’è – l’imprevisto, l’incidente. Nel caso di Gesù e del gruppo degli apostoli c’è Giuda! Egli tradisce la fiducia. Tra gli intimi è uno dei più intimi: attinge la mano nel piatto stesso di Gesù. Con lui siamo al primo atto della tragedia. «Colui che mangia il pane con me alza il suo calcagno contro di me» (Sal 41,10 – citato in Gv 13,18). Per spiegare meglio lo sconcerto provato da Gesù ricorro ad un fatto di cronaca che, in questi giorni, ci ha lasciato attoniti. La tragedia del volo Germawings ha prodotto qualcosa di simile all’incrinatura sul pavimento o nel terreno sul quale camminiamo e che siamo abituati a considerare solido e stabile. Fuori di metafora, quel terreno è la fiducia collettiva che, fin da bambini, siamo chiamati ad avere nel prossimo. E non solo in chi ci vuole bene. Ogni gesto, dal più elementare che compiamo ogni mattina, è possibile solo dentro questa fiducia nell’altro. Sì, la nostra vita è fondata su una profonda fiducia: che tutti, benché diversi o magari divisi e avversari, si tenda ad un bene comune.
Non possiamo smettere di fidarci.
È proprio del nostro DNA il mettere la vita nelle mani del prossimo e, a nostra volta, di essere custodi della loro. Smettere di fidarsi, è come smettere di respirare.
Abbiamo questa legge scritta dentro: è già nel riflesso spontaneo, naturale, con cui il neonato stringe forte il dito che gli offriamo. Eppure nessuno può garantirci che sia sempre così.
E allora c’è chi non ci pensa. C’è chi trova modo di distrarsi. C’è chi confida nella fortuna. C’è – persino – chi si affida all’oroscopo!
I cristiani sanno che occorre fidarsi nonostante tutto e – aggiungo – affidarsi. Affidarsi a chi?
Sanno bene che nemmeno la prossima mattina è garantita e che è stato scritto: «Nessuno conosce il giorno e l’ora». E tuttavia i cristiani non vivono nella paura: certi di non essere atomi smarriti nell’universo, certi di non essere cose da nulla. Sanno di essere figli. Questo è il fondamento dell’antropologia cristiana. Così Gesù sta sulla scena di quell’ultima cena, quando sopraggiunge la sera (cfr. Mt 26,20). Gli eventi precipitano, ma lui li signoreggia. Si affida al padre. È lui che ha insegnato la preghiera del Padre Nostro, preghiera dell’abbandono fiducioso: sia fatta la tua volontà. Certezza di un Dio buono che conosce tutti, per nome, uno ad uno.
Gesù, gli apostoli, Giuda…
Signore, dacci il coraggio di fidarci dell’altro, nonostante tutto; di correre il rischio di vivere in pienezza.
Signore, veglia su ciascuno di noi perché non tradiamo la fiducia riposta in noi.
Come ci ricorda con la sua testimonianza il santo fondatore di questa antica e nobile Repubblica: l’autorità è servizio e il buon esempio il suo primo corollario.
Santo Marino prega per noi!