Omelia XIX domenica del Tempo Ordinario

Pennabilli (Cappella del Vescovado), 12 agosto 2018

1Re 19,4-8
Sal 33
Ef 4,30-5,2
Gv 6,41-51

Stiamo leggendo un’altra pericope del lungo discorso sul pane della vita tenuto da Gesù nella sinagoga di Cafarnao. Egli afferma chiaramente di essere il pane adatto per la fame radicale dell’uomo. Il pane che ha saziato i cinquemila è solo un segno della risposta alla fame di senso, di futuro, di autenticità. Persino i vuoti di Dio (dubbi, inconsistenze, fragilità, peccati), se offerti umilmente come ceste di fame diventano vuoti per Dio che Gesù colma con sovrabbondanza (sono rimaste dodici ceste di pani avanzati!). Ma gli ascoltatori sono scettici. Vedono Gesù come uno di loro, profeta – senza dubbio – dotato di poteri particolari (hanno assistito alla moltiplicazione dei pani), ma pur sempre un uomo. Ne conoscono le umili origini, il padre e la madre. Come può dire: «Sono disceso dal cielo?» (cfr. Gv 6,41). Gesù tana il mormorio sommesso dei suoi ascoltatori: «Non mormorate» (Gv 6,43). La prima forma della mormorazione è il chiacchiericcio alle spalle di qualcuno (indisponibilità a fidarsi). Mormorazione fu quella degli Ebrei nell’Esodo, scontenti persino del dono quotidiano della manna. Mormorazione è l’incredulità dei contemporanei di Gesù di fronte alla sua pretesa di venire dall’alto. Ma Gesù parla a noi ed alla nostra scarsa fiducia nel credere che il Signore veda, venga e possa cambiare le cose… Gesù invita alla fede: «Credete in Dio e credete anche in me». Ancora una volta si colloca, al di là dell’immediatamente visibile, nell’ambito concreto della relazione e dell’amicizia, come facciamo anche noi quando, amando una persona, gli diciamo: io ti amo e so di amarti. Non ci sono prove “scientifiche”. Tutto si gioca sulla fiducia. La risposta di chi si fida è la gratitudine. Il salmo 32, che viene pregato nella liturgia di questa domenica, è un rendimento di grazie sulle labbra di chi non è stato deluso. È la preghiera di un cuore colmo di Dio: «Benedirò il Signore in ogni tempo, la sua lode per sempre sulle mie labbra… Gustate e vedete – continua il Salmo – come è buono il Signore». È un invito a sperimentare il sapore di Dio attraverso la dolce energia che ci comunica, la pace che ci infonde. Affamati siamo stati saziati. Saziati gustiamo. Il Signore è buono! Buono come un pane fresco. Buono come un sorso d’acqua pulita. Buono come un’amicizia intramontabile.

Omelia nella festa di San Lorenzo

Belforte, 10 agosto 2018

2Cor 9,6-10
Sal 111
Gv 12,24-26

(da registrazione)

Carissimi,
sono venuto volentieri ad unirmi alla vostra festa. Saluto tutti. Vedo che ci sono anche molti giovani e bambini. È un bene che le nuove generazioni sappiano apprezzare le tradizioni del paese. Saluto il signor Sindaco, non per un privilegio, ma perché rappresenta tutta la popolazione e noi, oggi, pregheremo per tutte le famiglie del paese, soprattutto per quelle provate dalla sofferenza.
Alla vostra destra ci sono i sacerdoti che sono parroci nelle chiese vicine e alla vostra sinistra una parte dei diaconi della nostra diocesi: sono nove e tra loro ce n’è uno che verrà ordinato il 29 settembre prossimo. Ha fatto gli studi di teologia, ma viene da un’esperienza di famiglia e dalla professione di camionista. Il Signore sceglie dove vuole, chi vuole, quando vuole.
Sant’Ambrogio di Milano (IV sec. d.C.) è uno dei principali testimoni della vicenda umana e spirituale di san Lorenzo. In particolare, ci tramanda tre episodi della sua vita che diventeranno lo scheletro di tutte le agiografie successive, soprattutto della Passio Laurentii (Passione di Lorenzo), un genere letterario specifico nella letteratura antica: il racconto del martirio dei santi. Naturalmente sono racconti che non vanno presi con il piglio dello storico, perché questi scritti hanno un andamento non solo elogiativo ma anche epico, in quanto il martire viene visto come un eroe e la sua vicenda viene descritta con una infinità di particolari che non sempre hanno un fondamento storico. Quello che è importante nella testimonianza di Ambrogio è che fin dall’inizio Lorenzo è una delle figure più amate e più pregate dalla comunità cristiana. Accenno ai tre episodi tramandatici da Sant’Ambrogio nel De officiis ministrorum.

1.
Lorenzo è il diacono di papa Sisto II. Egli incontra Sisto II, suo vescovo, quando è condotto al supplizio. Lorenzo piange nel vedere il suo vescovo condannato a morte, ma piange anche perché non lo può seguire, deve stare al suo posto – ha un incarico nella Chiesa di Roma – ma il vescovo, incrociatolo, gli promette che subirà la medesima sorte nei tre giorni successivi: al “terzo giorno”, evidente allusione alla Pasqua. «Anche a te, Lorenzo, accadrà di vivere la Pasqua, il passaggio, come il tuo vescovo».

2.
Dopo tre giorni, Lorenzo riceve l’ordine dall’imperatore di consegnare i tesori della Chiesa. Allora Lorenzo raduna i poveri, «il vero tesoro nel quale è presente Cristo, nel quale è presente la Chiesa», così scrive Ambrogio.

3.
Non essendosi in nulla sottomesso alla volontà dell’imperatore, Lorenzo è condannato a giacere su una graticola ardente e bruciato. Morendo, pronuncia queste parole: «Assum est, versa et manduca (sono ormai cotto, girami e mangiami)» (Ambr. De Off. 1, 41, 207). Ciò che a noi importa non è tanto la vera storia del diacono Lorenzo. È difficile ricostruire questo affresco appena tratteggiato da Ambrogio… E guai a chi fa dei restauri interpretativi, perché non sono autentici. Preferibile è sempre il restauro conservativo, in cui teniamo per vero quello che abbiamo. Però, la “leggenda” verrà sublimata nella Passio Laurentii successiva, del VI sec. Essa è importante, anche se arricchita di tanti particolari, probabilmente non storici, per tre motivi.
Il primo è che l’immagine di Lorenzo, martire di Roma, viene letta in corrispondenza con l’immagine di santo Stefano per dire che Roma è la nuova Gerusalemme. Gerusalemme ha avuto il protomartire Stefano, Roma il martire Lorenzo.
Il secondo insegnamento è che il diacono è fedele al suo vescovo fino alla morte. Infatti, i diaconi hanno un rapporto particolare con il vescovo.
Il terzo motivo è che Lorenzo è patrono di Roma insieme a Pietro e a Paolo. È una colonna portante della Chiesa come Pietro e come Paolo. A Roma oggi è grande festa.
Uno scrittore antico, Prudenzio, dice che Lorenzo è il consul perennis, è il console di Roma, perché è colui che non solo è caritatevole, ma accresce la gloria di Roma. Allora alla testimonianza di Ambrogio nel De officiis si sono aggiunte le ricostruzioni di tanti scrittori antichi; alla Passio Laurentii si sono aggiunte le annotazioni del Liber Pontificalis, ma la liturgia lascia da parte queste nostre curiosità storiografiche e ci offre una lettura spirituale di Lorenzo. Ci spiega il suo martirio attraverso due testi biblici nei quali c’è la figura del Regno di Dio classica: quella del seminatore e del seme. «Chi semina scarsamente, scarsamente raccoglierà; che semina con larghezza, con larghezza raccoglierà» (2Cor 9,6). Ma attenzione: «Ciascuno dia secondo quanto ha deciso nel suo cuore» (2Cor 9,7). Il dono dev’essere espressione di una decisione profonda del cuore, della volontà. Allora non si dona con tristezza e neppure per forza. Tanti sono stati educati – nella fede, ad esempio – con l’idea del precetto. In questi giorni, visitando i campeggi, molti giovani mi hanno confidato di avere la percezione che la Chiesa, e i sacerdoti, continuino a mostrargli precetti e divieti. Nell’educazione occorre anche dire dei “no”, è normale nella pedagogia. Eppure, si semina non con tristezza, non per forza, ma secondo quanto deciso nel cuore. Allora nell’educazione è bene aiutare – naturalmente in base all’età – a prendere delle decisioni per una scelta del cuore, a fare non per imposizione, non per esser visti, non per altro motivo che non sia un’adesione profonda alla volontà di Dio, perché «Dio ama chi dona con gioia» (2Cor 9,7).
La seconda immagine che ci mostra la liturgia è quella del chicco di grano che cade per terra, muore e dà la vita (cfr. Gv 12,24). Il centro della frase non è il morire. Quando Gesù dice che il chicco deve cadere per terra per dare la vita, mette in evidenza il dare la vita, il portare molto frutto. Lo sguardo del Signore è sulla fecondità più che sul sacrificio. E tuttavia bisogna passare di lì. Questo vale per la nostra vita cristiana. Questa frase è venuta a Gesù in un contesto del tutto particolare: ci sono dei greci che vogliono conoscerlo (cfr. Gv 12,21). La sua fama, in quel momento della sua vita, sta raggiungendo persone oltre i confini di Israele. Gli apostoli che vanno a segnalare a Gesù questo interesse dei greci (i greci nel mondo antico rappresentano la cultura) vorrebbero dirgli di presentarsi per quello che è, di rivelarsi a loro e di parlare della sua gloria. Del resto, è il momento in cui Israele sta architettando la sua uccisione. Sarebbe opportuno che parlasse ai greci della sua grandezza, del suo progetto. È una tentazione per Gesù. Gesù, invece, dice la verità: «Io sono come un chicco di frumento che cade per terra». Ciascuno di noi è un chicco di frumento, ancora meno, eppure quando accogliamo la nostra vocazione, il posto che il Signore ci ha dato, non per forza, non contro voglia – ripeto – non per altro motivo che non sia l’adesione alla sua volontà, allora siamo certi di portare frutto. È la vocazione di ciascuno di voi, piccolo seme della famiglia, piccolo seme nel lavoro, piccolo seme nel paese, nella società. San Lorenzo ci aiuti ad accettare questo programma di Gesù.

Omelia nella XVIII domenica del Tempo Ordinario

Scavolino, 4 agosto 2018

Festa della Comunità di Scavolino

Es 16,2-4.12-15
Sal 77
Ef 4,17.20-24
Gv 6,24-35

(da registrazione)

In situazioni come questa, dove c’è una parte religiosa e una parte civica, cerco sempre di mettermi nei panni dei miei ascoltatori, perché non tutti sono credenti e non tutti – ancorché credenti – sono praticanti.
Racconto una mia disavventura. Ero in Visita Pastorale, in un luogo pubblico che ha a che fare con la sanità, e dovevo parlare di Gesù che risana. Volevo sottolineare l’importanza di prendersi cura dei malati. Gesù ha compiuto cinquantadue miracoli di guarigione. Non ha curato tutti i malati, poiché quella non era la sua missione in quel momento. Ho cominciato a parlare tenendo presente che avevo di fronte a me persone di cultura diversa dalla mia e ho presentato di me un aspetto che un vescovo non tratta di consueto, e cioè la fatica che anch’io faccio, talvolta, a credere. Anche per me il credere – e forse è così per qualcuno di voi – è una grande scommessa.
La settimana scorsa tanti di noi, durante l’eclissi di luna, hanno rivolto gli occhi al cielo… Le stelle nel cielo sono stupende, però stanno a guardare: non succede niente, la mia vita rimane quella che è, con i suoi problemi e le sue difficoltà.
In quell’occasione, durante la Visita Pastorale, si alzò una dottoressa e disse: «Eccellenza, ma scherza a dire queste cose? Lei deve dare la certezza della fede, non deve dire che condivide con noi i dubbi!». Mi dispiacque molto di avere scandalizzato quella persona. Invece, pensavo che avrei aiutato mettendomi nei panni degli altri e io mi sento francamente un cercatore.
Mi pare che il Vangelo di questa domenica risponda alla mia condizione di cercatore, forse anche alla vostra. Il racconto si apre con la descrizione della gente che va alla ricerca di Gesù. Si tratta di una vera e propria spedizione organizzata; addirittura una piccola flotta di barche affronta la traversata del lago per andare ad incontrare colui che aveva moltiplicato i pani e i pesci: c’era stato, infatti, questo grande prodigio. Vorrei poter dire a quella signora che è rimasta male per la mia confessione che la ricerca è l’atteggiamento tipico, principale del discepolo di Gesù. Così fu per i primi discepoli. Ricordate quando Gesù incontra i primi due: «Chi cercate?», disse loro. Erano cercatori. Gesù non si è scandalizzato per questo, non ha esibito le sue credenziali. Imbarazzati gli hanno risposto: «Maestro, dove abiti?» (Gv 1,38). Volevano andare con lui a vedere.
Così anche Maria di Magdala, il mattino di Pasqua, davanti alla tomba vuota si sente dire da colui che ha scambiato per il custode del giardino: «Maria, chi cerchi?» (Gv 20,15). È bello, sfogliando la Bibbia, vedere come al desiderio profondo che abita in ogni cuore trovano riscontro le struggenti invocazioni dei Salmi: «O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco…» (Sal 63,2). Signore, so che ci sei, ma sono come sospeso, vorrei vederti e non ti vedo, vorrei risposte ma tu non parli (almeno così sembra). Allora io ti invoco. «Ho sete di te… con tutto il cuore io ti cerco… Cercate il Signore, cercate sempre il suo volto» (cfr. Sal 42,3; Sal 119,10; Sal 105,4). Spero che voi non mi abbiate frainteso come quella dottoressa: mettersi sulle tracce di Dio è una risposta al suo amore, che ci precede perché, a ben vedere, è lui che per primo si è messo alla ricerca di noi: «Dove sei?» (Gn 3,9), chiede ad ogni Adamo nascosto nel giardino. E per qual motivo Gesù è venuto sulla terra, se non per cercare noi, pecore smarrite? In questo momento mi viene da dire: «Signore, donaci di saperti cercare come tu hai cercato noi». Ma non bisogna sorvolare su un dettaglio: per trovare Gesù bisogna fare come i discepoli che hanno preso le barche, hanno attraversato il lago, hanno dovuto remare; chissà se c’era bel tempo o c’era tempesta. Hanno dovuto faticare perché tra noi e lui c’è di mezzo il lago.
Gesù ha svelato la presenza di Dio, ma anche la sua diversità da noi. La folla ha compiuto la traversata, ma avrà fatto il vero passaggio, il passaggio della fede? Gesù dirà: «Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani – quelli della moltiplicazione – e vi siete saziati» (Gv 6,26), ma «il vero pane – conclude Gesù – non è quello della moltiplicazione e neppure la manna, il vero pane che è in grado di sfamarvi sono io» (Gv 6,32-35). Allora dico a me: «Tu cerchi Dio; hai fatto studi di filosofia, di teologia e ancora sei alla ricerca?». Sì, non me ne vergogno. Ma ho trovato il volto di Dio: Gesù. Gesù è il volto di Dio. Se vi vengono dei dubbi, se siete in ricerca – questo vi onorerebbe moltissimo – studiate Gesù, leggete il Vangelo, in lui c’è la pienezza della divinità.

Omelia nella S. Messa di Investitura dei nuovi Canonici della Cattedrale

Pennabilli (Cattedrale), 1 agosto 2018

Gn 12, 1-4
Sal 15
Fil 4, 4-9
Mt 7, 21-27

(da registrazione)

La prima caratteristica di san Leone, messa in luce dalla liturgia, è la provenienza lontana: Leone è un esule, un migrante a causa del Vangelo. Il Signore l’ha fatto uscire dalla sua patria (Arbe in Dalmazia, l’attuale Croazia) e dalla casa di suo padre. Il Vescovo di Rimini, Gaudenzio, lo invia sui monti dell’entroterra per portarvi l’annuncio di Gesù Risorto. Non facciamo fatica a vedere nella sua vicenda l’avventura spirituale di Abramo: «“Vattene dal tuo paese, dalla tua patria, e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione”. Allora Abramo partì, come gli aveva ordinato il Signore» (Gn 12,1-4).
Così Leone. E noi, raggiunti dalla sua predicazione, siamo innestati nel popolo della benedizione, la Chiesa, che ha ricevuto da messaggeri del Vangelo la raccomandazione dell’affabilità verso tutti, della letizia che proviene dalla confidenza nel Signore, della preghiera di supplica e di ringraziamento, della ricerca di ciò che è vero, nobile, puro, amabile, onorato (cfr. Fil 4,4-9).
Chiediamo a San Leo di ottenerci tanti ministri, annunciatori miti e forti del Vangelo per un nuovo programma di evangelizzazione della nostra terra.
Il Vangelo. Il Vangelo tratteggia la figura del saggio architetto che costruisce la casa sulla roccia. Chi ha scelto questa pagina evangelica e l’ha messa nel Proprio della nostra Diocesi ha pensato certamente all’opera di San Leone che fonda la comunità sulla roccia dell’amore di Dio, oltre che sul roccione del monte Feretro. «Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti, si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia» (Mt 7,25).
Permettete che dica una parola sulla “casa”, la famiglia, che noi sacerdoti abitiamo e vogliamo continuare ad abitare con gioia: il nostro presbiterio. Il Signore, che abbiamo scelto come il tutto della nostra vita, è il fondamento roccioso della nostra casa, ma ci aiuta pure quel sentimento bello e prezioso, conosciuto e coltivato da Gesù, l’amicizia. L’amicizia è una simpatia reciproca, un’intesa profonda tra persone, a volte molto diverse. Non è basata sull’attrazione come è l’amore coniugale. È unione di cuori, di intelligenze, di anime, non di corpi. In questo senso gli antichi dicevano che l’amicizia è un’anima sola che vive in due corpi.
È proprio sull’amicizia, su una speciale coltivazione dell’amicizia presbiterale, che vorrei collocare la realtà del Capitolo della Cattedrale. Di per sé, nel Diritto ecclesiastico, troviamo che il Capitolo della Cattedrale è tra gli organismi di partecipazione alla funzione pastorale del Vescovo. Questi sono gli organismi: sinodo, curia, consigli diocesani, consiglio degli affari economici, capitolo dei canonici. Il Capitolo dei Canonici viene descritto così: «È un collegio di sacerdoti al quale spetta celebrare le funzioni liturgiche più solenni della Chiesa cattedrale; compete, inoltre, al Capitolo adempiere quegli uffici che il Diritto o il Vescovo diocesano gli affidano. I Canonici pregano col Vescovo, pregano per il Vescovo e per tutta la Diocesi. Considerano la Cattedrale come casa loro.
L’amicizia può costituire un vincolo più forte della stessa parentela. È essenziale per l’amicizia che essa sia fondata su una comune ricerca del bene, dell’onesto. L’amicizia è diversa anche dall’amore del prossimo; questo deve abbracciare tutti, anche chi non riama, anche il nemico, mentre l’amicizia esige la reciprocità, la corrispondenza. «Ogni amico dice: “Anch’io ti sono amico”» (Sir 37,1), «conta su di me come su te stesso» (2Cr 18,3); tra amici veri «se vengono a cadere, l’uno rialza l’altro; guai invece a chi è solo: se cade non ha nessuno che lo rialzi» (Qo 4,10). La Bibbia è piena di elogi dell’amicizia. «Un amico fedele è sostegno potente, chi lo trova, trova un tesoro» (Sir 6,14).
Ma anche la storia della santità cristiana conosce esempi di amicizie esemplari. Certo, con Gesù la realtà dell’amicizia compie un salto di qualità. Gesù ha potuto dire: «Non vi chiamo più servi, ma amici; non c’è amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (cfr. Gv 15,13-15). E in altri passi del Vangelo, quando introduce confidenze agli apostoli dice: «A voi miei amici dico…» (Lc 12,4). Allora, fondata su questo, la nostra amicizia è solida e non teme il soffiare dei venti, ossia le inevitabili cadute, il cadere delle piogge che minacciano di sgretolare gli ideali che tutti abbiamo scelto, lo straripare dei fiumi che sono le prove della vita e del ministero. I Canonici, allora, li penso così: amici inseparabili per l’amicizia dell’Amico comune, Gesù. Ecco il vostro primo compito. Fare amicizia, portare amicizia, favorire l’amicizia nel nostro presbiterio; vedere che cosa la può accrescere, infiammare, vedere che cosa la minaccia, la intiepidisce o la spegne.
Tra i Canonici voglio nominare mons. Elio Ciacci, quiescente, che non ha potuto essere presente questa mattina con noi. E vorrei ricordare i Canonici onorari della nostra cattedrale, tra tutti mons. Arcivescovo Adriano Bernardini, qui presente.
Siamo qui per la “casa” del nostro presbiterio, un’unica casa, e siamo qui per la “casa” più grande che è la Chiesa, fatta di pietre vive, basata sulla pietra angolare che è Cristo; la Chiesa che ha per legge la legge della carità, che ha per fine il Regno di Dio. Anche alla Chiesa non saranno e non sono risparmiati soffio di venti, cadere di piogge, esondazione di fiumi, ma sulla Parola di Gesù confidiamo: «le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa» (Mt 16,18), anzi, la Chiesa sarà veduta «scendere dal Cielo, pronta come una sposa adorna per il suo sposo» (Ap 21,2). «Non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna: la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello. Le nazioni cammineranno alla sua luce e i re della terra a lei porteranno il loro splendore» (Ap 21,23-24). Questa è la nostra fede, questa è la nostra speranza, da qui la nostra amicizia. Così sia.