Omelia nella Solennità del Corpus Domini

Pennabilli (RN), Cattedrale, 14 giugno 2020

Dt 8,2-3.14-16
Sal 147
1Cor 10,16-17
Gv 6,51-58

Cari Pennesi,
mi dispiace che ci vediamo poco!
Questa chiesa, senza nulla togliere al vostro parroco, è la chiesa del Vescovo. Ma il Vescovo deve provvedere alla Diocesi, una Diocesi vasta e con strade impervie. Questo esordio è per dirvi che vi voglio bene e che avete una grande responsabilità, perché essendo Pennabilli città vescovile, siete il paradigma di ogni altra comunità. Ad esempio, i cristiani di Monte Cerignone, così come quelli di Borgo Maggiore, dovrebbero dire: «Copiamo da quelli di Pennabilli, nel fervore, nell’impegno, nell’apostolato».

Vengo alla festa del Corpus Domini: mediteremo, più che le singole letture, il mistero eucaristico nel suo insieme. Vi invito a concentrarvi su due aspetti: l’Eucaristia come forma dell’essere ecclesiale e l’Eucaristia come forma dell’agire ecclesiale.
Preciso il significato delle parole. La parola “forma” significa che ciascuno di noi, tutta la comunità, deve maturare, crescere, assomigliare sempre più a Gesù: prendere la sua forma. È un’opera che fa lo Spirito Santo. Lo Spirito Santo ci fa prendere la forma di Gesù, una forma che abbiamo già, anche se da sviluppare. Siamo stati creati per essere altri Gesù. È un’opera dello Spirito Santo, ma esige la nostra collaborazione.
Specifico le parole essere e agire. Essere e agire sono ambedue dimensioni necessarie, coessenziali, non disgiungibili. Essere senza agire non porta a niente; agire senza essere fa diventare ipocriti. Attenzione, poi, all’aggettivo ecclesiale; si tratta di una forma, quindi di un essere e di un agire, che non è individualistica, intimistica, ma che è la forma di un corpo, di una comunità, della Chiesa.

1.

L’Eucaristia forma dell’essere ecclesiale. Il termine “sacramento” fa pensare a qualcosa di sacro e insieme di misterioso, qualcosa che vela e svela nello stesso tempo. Vela e svela “qualcuno”, che però è presente. Non si vede perché è velato, ma appunto perché velato, attraverso quel velo, è avvolto nella sua presenza. Il discorso della sacramentalità ha le radici in tutta la storia della salvezza, nelle Sacre Scritture. Dio, invisibile, è un mistero, il primo mistero. Il profeta dell’Antico Testamento lo chiamava il «Dio nascosto» (Is 45,15). Il Dio dell’Antico Testamento si è svelato (o rivelato) in Gesù di Nazaret, il Cristo. Ma il Verbo di Dio, che ha assunto la nostra umanità e si è fatto uomo come noi, è nascosto nell’umanità; è un uomo vero ed è un uomo velo, che ricopre la sua divinità. Dio si fa vicino in Cristo, e Cristo è avvolto da un altro segno, da un ulteriore sacramento. È dovuto al grande desiderio di Gesù di manifestarsi maggiormente a noi, alla sua volontà di unirsi singolarmente e personalmente a ciascuno di noi. L’intenzione del nostro Dio – un Dio che ci ama alla follia, che dall’eternità è accanto all’uomo e che si è fatto vicinissimo con l’Incarnazione – è quella di donarsi nell’Eucaristia ad ogni uomo. Dio, mistero, sacramento, si fa presente nel Figlio umanizzandosi e si fa presente nel Sacramento dei sacramenti, l’Eucaristia, per farsi più intimo nel rapporto con noi.
La fede ci avverte: nell’Eucaristia c’è Qualcuno, c’è Cristo, la sua persona, con la sua umanità, con la sua divinità, con l’immensa ricchezza della sua vita. Sì, nell’Eucaristia c’è una vita tutta per noi. Che disponibilità! Se fossi giansenista direi “quanto spreco” (cfr. Gv 12,5)! Invece è amore. Ecco la prima e grande forma alla quale deve ispirarsi e improntarsi tutta la nostra piccola vita. La vita della Chiesa, comunità povera e ricca insieme, umano-divina (cfr. LG 8), è il sacramento di Cristo e del Cristo Eucaristico. Comunità di uomini, ma comunità nei cui membri – creature così deboli, così peccatrici (più ci si avvicina all’altare e più si sente d’essere peccatori) – c’è Cristo con tutta la sua grazia e il suo vigore. San Paolo: «Vivo, sì, ma non sono io che vivo! È Cristo che vive in me» (Gal 2,20). San Paolo era diventato tutto forma di Cristo. Tutti i cristiani, uomini come gli altri, fratelli tra fratelli, sono sacramenti di Cristo e devono vivere la vita di Cristo. «Voi, infatti – continua san Paolo –, siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio» (Col 3,3). Siamo uomini che devono camminare al passo con Cristo, a contatto ininterrotto con lui, in conversazione con lui, soffrendo con Lui la sua Passione, ma godendo anche nella sua gioia (cfr. Col 1,24).

2.

L’Eucaristia forma dell’agire ecclesiale. L’Eucaristia – perché vita – non è soltanto presenza, ma anche attività, azione, movimento, che sprigionano dal “di dentro” dell’Eucaristia. E poiché è vita, l’Eucaristia è amore, che genera vita. Un’azione dal ritmo centripeto, cioè che attira per vie misteriose, avvolge, attrae, eleva, trasforma, santifica, divinizza. «Assumendomi – scrive sant’Agostino mettendo parole in bocca a Cristo – non sarai tu a trasformarmi in te, ma tu sarai assimilato a me!». Così faceva, del resto, Dio nell’Antico Testamento: «Ti ho amato di un amore eterno, per questo ti ho conservato la mia benevolenza e ti attiro a me…» (Ger 31,3).
Sant’Alfonso Maria de’ Liguori descrive l’attività centripeta di Gesù con questi verbi: «Chiama, aspetta, accoglie».
L’Eucaristia è anche un’azione dal ritmo centrifugo, perché dona, mobilita, coinvolge. Nei Vangeli, nelle parabole, Gesù si fa rappresentare da figure inquiete. Ad esempio, la donna che ha perso la moneta, tutta indaffarata a cercare, inquieta finché non la trova (cfr. Lc 15,8-9); il pastore che è inquieto finché non trova la sua pecora (cfr. Lc 15,4-6); il padre che va sul terrazzo della casa per vedere se torna il figlio che se n’era andato (cfr. Lc 15,11-24). Un Dio inquieto. Gesù vorrebbe da noi che avessimo parte alla sua inquietudine, che è il suo amore. «Siete sale – ci ha detto – per preservare la terra dalla corruzione» (cfr. Mt 5,13). «Siete lievito – ci ha detto – per elevare la massa in fragranza di vita» (cfr. Mt 13,33).
Oggi nel Vangelo dice: «Voi siete… per la vita del mondo» (Gv 6,51).
La Chiesa deve essere presente nel mondo perché sacramento di salvezza per il mondo: necessità di questa presenza, fuggendo dall’indifferenza e dal quietismo, ma anche necessità di non cedere all’attivismo.
Forse il Signore ha permesso che si arrivasse a questa situazione, pastorale e civile, che oggi viviamo, perché avvertissimo l’urgenza di tornare a metodi di evangelizzazione più poveri, più silenziosi, non presuntuosi, con l’uso di chissà quali mezzi, con l’imponenza di chissà quali strutture, ma con la convinzione di avere in mano la carta vincente. Più umiltà, più abbandono alla bontà del Signore e degli uomini (c’è tanta bontà attorno a noi), più compostezza, più semplicità. Se un’aggressività ha da esserci, che sia l’aggressività dell’amore. Mi piacerebbe fare mia questa “comunione d’anima” di san Paolo: «Per conto mio – scrive ai Corinti – mi prodigherò volentieri, anzi consumerò me stesso per le vostre anime, amando più intensamente…» (2Cor 12,15).
Adorando e mangiando l’Eucaristia possiamo apprendere e attingere forza per avere la forma di Gesù nel nostro essere e la forma della sua inquietudine nel nostro impegno per la nuova evangelizzazione.

Omelia nella S. Messa per sant’Antonio da Padova

Pennabilli (RN), Monastero Agostiniane, 13 giugno 2020

Is 61,1-3
Sal 88
Col 3,12-17
Lc 10,1-9

Il mio rapporto con la missione

La festa di sant’Antonio, straordinario messaggero del Vangelo, mi porta a condividere una riflessione sul mio rapporto con la missione e le missioni. Confidenzialmente!

Prima fase: ero un ragazzino che sognava le avventure. E quali se non quelle dei missionari col cappello da esploratore, la veste bianca, la croce alla cintura e la barba? Immaginavo le foreste dell’Africa e della Cina con leoni, elefanti, tigri… Poi, la visita e i racconti dei missionari reduci dai paesi di missione, che narravano di avventure, incontri, vittorie della croce: nuovi eroi come quelli dei primi tempi del cristianesimo. Insomma: tutto quanto poteva far sognare i ragazzi! Una prima fase, “fase puerile”, ma non priva di slanci e di immaginazione.

Seconda fase: ero un adolescente, studente di Liceo, che aveva incontrato Gesù e che avrebbe voluto che tutti potessero conoscerlo, amarlo e seguirlo. Erano gli anni del Concilio Vaticano II. Talvolta veniva in Diocesi qualche padre conciliare che invitava a coltivare desideri di generosità. Ricordo un vescovo del Camerun che invitava noi ragazzi ad andare, durante l’estate, ad insegnare il latino ai suoi seminaristi. Poi, ho incontrato la più missionaria tra i contemplativi: Teresa di Lisieux. Ho cominciato a pensare che anch’io potevo essere, come lei, missionario nel quotidiano: preghiera, sacrifici e… abbonamento alla rivista missionaria. Il sogno romantico delle terre lontane era ancora emozionante: slanci, cultura, esempi, l’esempio di mio fratello Silvio, che era riuscito a vincere il braccio di ferro col Vescovo per partire in missione come padre saveriano.

Terza fase: è il momento dell’adesione definitiva alla chiamata al sacerdozio; con due passaggi. Il primo. Non capivo se avessi “l’onore” di avere la vocazione: «Possibile che chiami proprio me?». Ero diventato amico del profeta Isaia; mi ritrovavo nel passo in cui Dio si chiede «chi manderò?». Isaia dice: «Se vuoi manda me» (cfr. Is 6,8). Secondo passaggio. L’incertezza viene superata da quel: «Non voi avete scelto me, io ho scelto voi» (Gv 15,16). Confidavo al padre spirituale che non avevo una particolare attrattiva particolare per quello che “fa” un prete, sentivo attrattiva per Gesù. Questa fu la fase più adulta della comprensione della missione. «Signore, se sono utile al tuo popolo, mi metto a disposizione (non recuso laborem!)». Anche questa terza fase, più adulta, era caratterizzata dalla soggettività. Mi rendevo conto, comunque, che la missione passava attraverso la mia terra, le strade della mia città sempre più secolarizzata…

Quarta fase: la scoperta della missione come evento pasquale, dinamismo dello Spirito. La missione ora mi appare tutta racchiusa in quel “come”, che ritorna tante volte nel Vangelo di Giovanni; ad esempio: «Come il Padre che ha la vita ha mandato me, e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me» (Gv 6,57). Intendo il «per me» nei tre significati: «Grazie a me», «dedicato totalmente a me», «al posto mio». «Tu sarai membra della redenzione: donami le tue mani, la tua intelligenza, il tuo cuore», pareva dirmi Gesù. «Come il Padre ha mandato me, così io mando voi» (Gv 20,21). Non si tratta di un semplice invio, un’operazione di marketing del Vangelo o di propaganda. Qui si allude esplicitamente alla vita trinitaria e al suo dinamismo intrinseco, con l’effusione dello Spirito Creatore.
Seguitemi: andiamo insieme nel cenacolo la sera di Pasqua. Gesù entra e dice: «Pace a voi». Detto questo, mostra le mani e il costato, non per lamentarsi dei guai che gli abbiamo causato, ma per dire il suo amore: «Ecco i segni del mio amore che non si cancellano». Alita sui discepoli e dice: «Ricevete lo Spirito Santo, a chi rimetterete i peccati saranno rimessi» (cfr. Gv 20,19-23).
Tutte le apparizioni pasquali riferite dai Vangeli contengono l’invio missionario: Gesù Risorto manda, sempre. È così con Maria di Magdala, con le donne, con i discepoli sul monte, con Pietro sulle rive del lago, ecc. La missione è parte integrante del Vangelo. È Gesù continuato nella storia. La comunità del Risorto, ancorché piccolo gregge, turbato e perplesso come sul monte dell’Ascensione, è una comunità su cui si è posato l’alito creatore del Messia. Da subito è una comunità cattolica. La missione così intesa, in questa fase, è profondamente mistica ed altrettanto concreta. Comprende l’ascolto: ricordate il roveto ardente dell’esodo che comunica a Mosè: «Ho udito il grido del mio povero, ho visto la sua afflizione…» (cfr. Es 3,1-12). E comprende l’ardimento che Gesù chiede ai missionari (cfr. Lc 10,1-9). Così penso la visione di Paolo che sente un macedone che dice: «Vieni da noi!» (cfr. At 16,9-15), oppure quando fonderà la comunità di Corinto sulle parole di Gesù che dice: «Non scappare, non pensare che Corinto sia un luogo poco adatto per la missione, refrattario al Vangelo, perché lì mi sono preparato un popolo» (cfr. At 18,9-11).

Anche se li ho espressi in forma narrativa, sono i pensieri che mi sono venuti dopo aver letto i testi della liturgia di oggi e aver considerato la narrazione dell’esperienza cristiana di sant’Antonio. Da una parte l’invio missionario di Gesù («vi mando come agnelli in mezzo ai lupi» Mt 10,16) e dall’altra Antonio (si chiamava Fernando) con l’ardente desiderio di andare in Oriente ad evangelizzare. La promessa contenuta nell’oracolo di Isaia: «Lo Spirito del Signore è sopra di me e mi ha mandato ad annunciare…» (Is 61,1) e l’incontro di Antonio col carisma francescano della minorità (piccolezza), della fraternità e del servizio.
Poi, la Lettera ai Colossesi con l’invito di Paolo a vestirsi dei sentimenti di Cristo (cfr. Col 3,12), ad ospitare la sua parola e a far tutto nel suo nome, e l’attività apostolica di Antonio, consapevole e ferrato nelle Scritture, maestro di teologia per incarico di Francesco (un’eccezione!). In mezzo al popolo…

Quinta fase: la intravvedo guardando il missionario Antonio che, ancor giovane, ma consumato dalle fatiche per il Vangelo, a causa della sua prossimità con il popolo, si ritira vicino a Padova, all’eremo di Camposampiero, e si fa costruire una celletta su un robusto albero di noce per vivere immerso in Dio e nella natura. La missione totale: «Cupio dissolvi et esse cum Cristo» (Fil 1,23)!

Omelia nella Solennità del Corpus Domini

San Marino Città (RSM), Basilica del Santo, 11 giugno 2020

Dt 8,2-3.14-16
Sal 147
1Cor 10,16-17
Gv 6,51-58

«Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

Cari fratelli,
torniamo a chiederci con franchezza: Che ci fa oggi un pane al centro della nostra città? Gesù risponde: «È un pane per la vita, necessario per la vita di ciascuno e di tutti». Questo pane unisce, educa, evangelizza.

1.

Unisce: unisce sguardi e cuori. Fa convergere propositi di condivisione. «Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti, infatti, partecipiamo all’unico pane» (1Cor 10,17). Sappiamo bene quanto sia indispensabile l’unità in un mondo tanto diviso. Veniamo – anzi vi siamo ancora pienamente coinvolti – da un’esperienza forte di interdipendenza, che ha toccato ciascuna delle nostre persone e le nostre società: contagio e responsabilità di ciascuno per il bene di tutti. Il mondo è proprio un villaggio globale, la cui salute ora dipende paradossalmente anche dalla distanza che riusciamo a tenere con i vicini. Ci è imposto di purificare le relazioni prossime per guadagnare il senso profondo delle relazioni universali. «In una cultura sempre più individualista questo pane costituisce una sorta di antidoto, che opera nelle menti e nei cuori e continuamente semina in essi la logica della comunione, del servizio, della condivisione» (Benedetto XVI, Angelus, 26.6.2011).

2.

Questo pane posto al centro della nostra città educa. Ripropone un altro pane di cui la città ha assolutamente bisogno, un pane che sfama la dimensione vitale che è la spiritualità. Siamo in allarme per la ricaduta economica della pandemia. Ne soffriamo. Eppure «l’uomo – lo dobbiamo dire in questo momento – non vive soltanto di pane, ma di quanto esce dalla bocca del Signore» (Deut 8,14). Sentiamo di dover andare più in profondità. La chioma di un albero cresce, si espande, produce fiori e frutti in proporzione a quanto le radici si diramano, si affondano e si allargano. Fino a che punto siamo convinti, noi che siamo qui, del primato della spiritualità? Fino a che punto ne sono consapevoli le famiglie, le istituzioni, i responsabili delle istituzioni? A pagare le conseguenze di una impostazione basata soltanto su una dimensione sono i piccoli e i giovani. «I bambini domandavano pane, ma non c’era chi lo spezzasse loro», così il Libro delle Lamentazioni (Lam 4,4). Questo pane, così fragile e all’apparenza di poco conto, disarma la litigiosità, lo spirito di vendetta, l’avidità del denaro. Educando ci mette in ginocchio. L’uomo che si inginocchia, e si inginocchia solo davanti a Dio, è grande. Egli dichiara la sua libertà in faccia al mondo. È la lezione dei testimoni della coscienza e della verità: una lezione pertinente e urgente per questo tempo. Siamo assetati di spiritualità, una sete ancor più acuta in questi giorni difficili. Siamo stati messi con le spalle al muro, convinti – finalmente – della nostra fragilità. Che questa lezione non sia dissipata.

3.

Infine, questo pane evangelizza. Dice il lieto annuncio di un “Dio di pane”: «Io sono il pane vivo, quello disceso dal cielo». I giudei si misero a discutere aspramente: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». La risposta di Gesù è semplice e sconcertante: «Io vi faccio vivere». Dandoci se stesso inverte il corso della vita orientandola non più alla morte ma all’eternità. Gesù non ci è concorrente, nel senso che ci tolga qualcosa, semmai è concorrente perché corre con noi, perché offre un incremento, un accrescimento, una intensificazione di vita. Un di più!
Questo è il Vangelo che ci ha sorretto e ci ha dato speranza: una luce nel tunnel. Per molti di noi è stato così. Una settimana fa in cattedrale si è tenuta l’assemblea di fine anno e abbiamo sentito esperienze bellissime condivise da giovani e adulti che hanno testimoniato come hanno saputo attraversare quei momenti bui. Avremmo voluto – parlo per me e per i miei fratelli sacerdoti – esser più vicini a chi era malato; ci è stato possibile solo attraverso quella “telefonia” straordinaria che è la preghiera. Abbiamo pregato tanto e abbiamo fatto pregare piccoli e grandi, famiglie. Il Papa, in un’omelia si è rivolto ai vescovi in modo severo chiedendo: «Pregate per il vostro popolo?». Avrei voluto rispondere: «Sì, con molta passione!». Abbiamo espresso la vicinanza alle famiglie, ai giovani, agli insegnanti con i mezzi moderni della comunicazione.
La sposa del Cantico dei Cantici, celebre libro della Bibbia, cerca il suo diletto e, non trovandolo, implora: «Avete visto l’amante del mio cuore?» (Ct 3,3). Allora non vi era Gesù sulla terra; ora, invece, chi ama Gesù e lo va cercando lo trova nel sacramento dell’Eucaristia. «Amore infinito di Dio, degno di infinito amore! Ti sei abbassato per trattenerti con noi e unirti a noi. Verbo incarnato. Grande nell’umiliazione perché grande nell’amore. Come possiamo non amarti?». Al termine della Messa non potremmo percorrere le vie di San Marino con la processione, come di consuetudine; invito tutti a sostare in adorazione. Anche questo è un frutto di questo tempo: veniamo ricondotti all’adorazione e al silenzio contemplativo davanti al “Dio di pane”!

Omelia nella solennità della SS. Trinità

San Marino Città (RSM), chiesa di San Francesco, 7 giugno 2020

Es 34,4-6.8-9
Dn 3,52-56
2Cor 13,11-13
Gv 3,16-18

Forse per curiosità, forse per spiare o forse, più probabilmente, per timore dei Giudei, Nicodemo va di notte ad incontrare Gesù. E Gesù incomincia subito la conversazione parlando di noi e del nostro destino. Parla di una vita nuova per noi, di una possibilità ulteriore. Nicodemo fraintende e dice: «Com’è possibile nascere di nuovo quando uno è già grande?». Gesù riprende la parola ed è come se scostasse il velo che copre il mistero santo di Dio. Nel colloquio con Nicodemo, infatti, rivela qualche cosa della vita infinita di Dio. Dice che in Dio c’è della paternità, che in Dio c’è dell’amore, che in Dio c’è del dono, e rivela Dio Trinità. Noi usiamo parole analogiche per balbettare qualcosa di questo mistero. Parliamo di una Prima Persona, e lo chiamiamo Padre, parliamo di una Seconda Divina Persona, il Verbo, e di una Terza Divina Persona, lo Spirito Santo. Questa successione numerica non sta a dire che una è più grande e una è minore dell’altra. Sono tre Divine Persone che vivono l’una per l’altra, l’una nell’altra. Starei quasi per dire che in Dio c’è – consentitemi questo ardire – un abisso di povertà assoluta. Non sono tre Dei, tre sostanze. Immaginiamo di interpellare la Prima Divina Persona – possiamo farlo nella preghiera –: «Chi sei tu?». Ci risponderebbe che “non è”, perché è tutta “fuori di sé”, persa nel “tu” che gli sta di fronte. Allo stesso modo risponderebbero la Seconda e la Terza Divina Persona. «Chi sei tu?». «Io non sono, perché trovo la mia vera sostanza, la mia identità nell’altro».
Dio non è soltanto un abisso di povertà, è anche una voragine di ricchezza, di vita. È stato Gesù a rivelarci che Dio non è fatto di un sol blocco, ma è Trinità d’amore: lo anticipa a Nicodemo e lo svela a tutti noi. Noi siamo fatti per quella vita.
Contempliamo le tre Divine Persone. Che utilità ne ricaviamo? Quando Gesù parla di vita nuova non parla di un restauro della nostra natura, ma dice la nostra destinazione: essere nella Trinità. Non è solo utile e necessario saperlo, è soprattutto bello!
Trovarono negli indumenti di Blaise Pascal, il grande filosofo e matematico, un cartiglio con scritto: «Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei sapienti. Certezza, certezza. Sentimento. Gioia. Pace. Dio di Gesù Cristo (dal Memoriale)». Siamo chiamati a partecipare alla vita di “quei tre”. E possiamo avere con le tre Divine Persone un rapporto differenziato. Siamo rigorosamente monoteisti, ma è così grande l’amore nella Trinità che i tre sono uno. Possiamo considerarli così come si sono manifestati nella storia della salvezza. Gesù con Nicodemo non dice che Dio ha intenzione di amare il mondo, ma usa il passato remoto: «Dio ha tanto amato il mondo». Lo fa per dire che è un fatto compiuto, che si compie e che si compirà. La parola “mondo” c’è quattro volte in poche righe.
Mettiamoci di fronte alla Prima Divina Persona, il Padre, rivolgiamoci a lui. Le Sacre Scritture ci raccontano di lui, quello che ha fatto, quello che fa e quello che sarà per noi in un abbraccio di amore infinito, che è il paradiso. Se non sappiamo trovare parole nostre, sfogliamo il libro dei Salmi, sono uno più bello dell’altro. Ne cito qualcuno: «L’anima mia ha sete di Dio…» (Sal 63), «l’anima mia è come un cervo assetato che viene all’acqua» (cfr. Sal 42,2), «come un bambino in braccio a sua madre, così sei tu per me» (cfr. Sal 131), «Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu sai quando siedo e quando mi alzo, ti cerco nel cielo, là tu sei, scendo negli inferi, dove la mia vita tante volte giace, eccoti» (cfr. Sal 139). Quante cose potremo vivere in compagnia con il Padre… La preghiera è compagnia, non è un proferir parole: ad un certo punto è il cuore che si dà…
La Seconda Divina Persona la conosciamo: è il Verbo incarnato: «Ciò che era fin dal principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta…» (1Gv 1,1-2). Lui in noi e noi chiamati ad essere in Lui. In Lui entriamo nella relazione con il Padre. Se volessimo qualche slide del Padre, come ce lo insegna Gesù, basterebbe prendere la parabola del “figliuol prodigo”. Gesù lo descrive come un padre che ci aspetta, che ci lascia anche la libertà di sbagliare, ma ci viene incontro, ci abbraccia, organizza una festa per noi, le sue viscere si commuovono…
La Terza Divina Persona è lo Spirito Santo, l’amore del Padre e del Figlio, consostanziale con il Padre e il Figlio, effuso su di noi, perché noi possiamo essere con il Padre e con il Figlio, per mezzo di Lui, attraverso Lui. Senza di Lui non avremmo l’audacia di entrare nel seno del Padre.
Non si finirebbe mai di parlare della Trinità… Farei la sintesi di quanto ho cercato di condividere con voi con tre preposizioni semplicissime. La preposizione “a”, che dice come siamo rivolti, aperti, spalancati, perduti e ritrovati, verso il Padre. La preposizione “in”, in Gesù, fatti una cosa sola con lui, come limatura di ferro attratta da un magnete. Gesù ci introduce nella stessa relazione che lui ha con il Padre.
La preposizione “per”: tutto questo per l’amore dello Spirito Santo che, come dice una canzone, ci mette «le ali per abitare gli spazi abitati da Dio». Tutto questo è ben espresso nella grande preghiera della Chiesa che è il canone della Messa, preghiera tutta rivolta verso il Padre, in Cristo: è lui che si offre al Padre e noi ci offriamo con il Figlio Gesù al Padre. Lo Spirito Santo ci dà l’ardire. Come il carro di fuoco che ha rapito Elia nell’alto, così lo Spirito Santo ci innalza e ci mette dentro a questa danza: così i padri antichi descrivevano la Santa Trinità (pericoresi).
Ci sarebbero molte cose da precisare… Questa contemplazione discende a noi – non inutilmente – perché tutta la vita possa diventare a mo’ della Trinità. Pensiamo a quanto sono importanti le relazioni e i rapporti, il parlare e il tacere, il dare e il ricevere. Forse la parabola più bella, più efficace, della Trinità è la famiglia, dove nessuno è superiore all’altro, dove ognuno vive per l’altro, dove ci si dona continuamente e ci si riceve. Questo è vero anche di ogni comunità. La comunione è un dono della Trinità. Certo, noi siamo nella storia, in divenire, e dobbiamo fare la fatica di trasformare la comunione in comunità. La Trinità è anche profezia, perché i cristiani, amandosi, diventano Chiesa, «sacramento o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (LG 1). La Trinità è anche epifania, cioè manifestazione del nostro destino, della nostra vocazione. Così sia.

31 maggio – Profumo

Anche a noi succede come ad un gruppo di fedeli di Efeso ai quali Paolo domandò se avessero ricevuto lo Spirito Santo. Gli risposero che nemmeno sapevano che esistesse uno Spirito! Conoscevano bene il Battesimo di conversione, sapevano di Gesù, ma non avevano mai sentito parlare dello Spirito Santo. Allora Paolo li ammaestrò, impose loro le mani sul capo e fu Pentecoste! Erano un gruppo di uomini. Cominciarono subito a parlare in lingue e a profetare, disponibili a prestare la loro persona per l’annuncio del Vangelo.
Anche noi, a dire il vero, sappiamo poco della persona e della potenza dello Spirito Santo. Un piccolo passo è stato fatto con questi brevi incontri.
Ci sono due metafore che alludono alla presenza, ma soprattutto all’azione dello Spirito Santo dentro di noi.
La prima è quella del profumo. Provate a fare l’esperienza con i più piccoli di prendere una fialetta di profumo e nasconderla in un vaso o in un altro recipiente. Senza farvi notare, rompetela e apritela. Tutt’intorno si spande il profumo con la sua fragranza. Nessuno ha visto la fialetta che è stata spezzata, nessuno vede il profumo, ma tutti si accorgono di quella presenza inebriante. Così è lo Spirito che vive in noi, lo stesso Spirito che respira tutto l’universo.
Un’altra metafora è l’olio. Lasciate cadere alcune gocce di olio su una pergamena (o anche su un foglio di carta: ma qui il risultato è meno appariscente); si forma immediatamente una macchia che, pian piano, si allarga e rende la superficie della pergamena da opaca a traslucida. Così è l’azione dello Spirito: prende amabilmente possesso di noi, ci rende trasparenza del Signore, ci inzuppa di divino.
Profumo e olio sono segni sacramentali, materia del sacramento del Battesimo e della Cresima.
Profumo ed olio sono metafore che, interpretate, possono insegnarci molte cose della vita spirituale.
L’evangelista Giovanni scriveva così: «Ora avete l’unzione dello Spirito Santo e tutti avete la scienza… L’unzione che avete ricevuta da Lui rimane in voi e non avete bisogno che alcuno vi ammaestri: con la sua unzione vi insegna ogni cosa. Essa è veritiera e non mentisce». San Paolo, ricordando la poesia del Cantico dei Cantici, ricordava ai Corinti: «Noi siamo davanti a Dio il profumo di Cristo».

——

Un augurio: il profumo dello Spirito che abita in noi renda riconoscibile Gesù di cui ci siamo rivestiti nel Battesimo. Avvenga a noi come ad Isacco che, quand’era ormai cieco, riconobbe il profumo di Esaù su Giacobbe e lo scambiò per Esaù. Mentre abbracciava Giacobbe disse: «Ecco l’odore di mio figlio come l’odore di un campo di grano che il Signore ha benedetto». Che davvero il Padre senta in noi il profumo inebriante di Cristo. Così sia la nostra testimonianza!

A conclusione del mese di maggio, mentre ringrazio le famiglie che si sono rese disponibili per animarlo, propongo di fare un atto di consacrazione alla Madonna. Consacrarsi vuol dire affidarsi a lei, vuol dire «siamo tutti tuoi», come ci ricorda la colonna sonora che apre il Rosario.

29 maggio – La Trasfigurazione

Finalmente è Maria che parla. È al centro della Pala, attorniata dagli apostoli. Anche lei ha ricevuto l’effusione dello Spirito Santo. Ascoltiamola!
«Ho conosciuto l’azione dello Spirito Santo fin dal momento del mio concepimento: mi ha santificata e resa immacolata. In me l’Ospite divino, lo Spirito Santo, ha effuso i suoi doni e il suo profumo. Mi ha preparata, bambina e adolescente, ad essere la madre del Messia Redentore. Mi ha reso bellissima. Non parlo della bellezza dell’aspetto: fui una comunissima ragazza ebrea. Dico che ha resa bellissima la mia vita. Mi ha realizzata. Quando la vita è bella, la bellezza tracima, contagia il corpo, il sorriso e lo sguardo. Davvero l’anima mia magnifica il Signore!».
Nel canto del Magnificat Maria ci racconta la sua esperienza e lascia intuire la profondità della sua vita interiore: «Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente, santo è il suo nome».
Non sappiamo il grado di consapevolezza che effettivamente Maria ha avuto riguardo alla sua missione. Il Concilio Vaticano II scrive di un suo progressivo cammino nella fede, una peregrinazione nella fede. Anche noi vorremmo saperne di più della bellezza che rende bella la vita, simpatico il sorriso, luminosi gli occhi, che spiana persino le rughe e rende affrontabili le situazioni più ardue.
Raccontaci, Maria. Maria ci parla attraverso la sua storia, che abbiamo ripercorso in queste sere di maggio, e attraverso le parole della Chiesa, che l’ha proclamata Immacolata, Assunta in Cielo, ecc.
Maria, della tua Immacolata Concezione abbiamo nelle Scritture una precisa indicazione, quando l’angelo ti proclamò piena di grazia. Tu fosti colma del favore divino. Il favore divino è l’amore trasfigurante dello Spirito Santo. Neppure la morte può deturpare la tua persona, anima e corpo assunti in Cielo: un privilegio accordato a te soltanto, per i meriti di Gesù e per la pienezza della tua corrispondenza. Col Battesimo anche noi veniamo santificati, trasfigurati, resi partecipi della natura divina mediante la grazia, dono inerente all’anima che ci fa figli di Dio, fratelli di Gesù Cristo, tempio dello Spirito Santo. Del Padre si dice che genera. Del Figlio si dice che redime. Dello Spirito Santo che abita. Ed è proprio su questo punto che vogliamo prestare attenzione. Dobbiamo avere più consapevolezza del mistero della inabitazione. Tutto cambia per questa presenza dello Spirito Santo in noi. Teresa d’Avila racconta nella sua autobiografia che un giorno ebbe il dono di vedere com’era la sua anima, com’è ogni anima trasfigurata dallo Spirito Santo. La descrisse così: «Mentre recitavo le orazioni con la comunità, l’anima mia si sentì improvvisamente raccolta e parve trasformarsi in uno specchio tersissimo, luminoso in ogni parte, al rovescio, ai lati, in alto e in basso. Nel suo centro mi apparve nostro Signore nel modo che sono solita vederlo, parendomi di vederlo in ogni parte della mia anima per riflesso. E intanto lo specchio si rifletteva tutto nel Signore per una comunicazione amorosissima che non so dire. Quella comunicazione amorosissima è l’opera dello Spirito Santo».
Tempo fa, partecipando ad un incontro tra giovani sul tema “La nostra vita oggi”, annotai qualche appunto. Leggo di seguito le frasi più significative.
Andrea: «La vita? Solita routine. Sveglia, corriera, scuola. A scuola più che altro ho dormito. Di nuovo chiacchiere in corriera. Solito studio. Noia. Non ci sono punte. Niente di speciale».
Alessandra: «Ore 6 alzata. Scuola. Niente di nuovo».
Francesca: «Ho fatto tutto quello che ha fatto Alessandra. Niente di originale». Un quadro piuttosto desolante fin qui. Nell’appunto che ho annotato ci sono due eccezioni.
Paolo: «In questi giorni ho capito che anche le cose negative possono insegnare qualcosa».
Cristian: «Voglio imparare a vedere Cristo nelle piccole cose e ricavarne gioia».
Ho fatto parlare dei ragazzi, ma vale anche per noi adulti: il nostro quotidiano può essere trasfigurato dalla presenza dello Spirito in noi. La noia può esser sconfitta dall’amore. Allora potremo provare stupore per le cose che impariamo nella fatica, per le “solite cose”, come dicevano quei ragazzi. Se guarderemo con “occhi nuovi” la giornata, proveremo gratitudine per la “solita corriera” che ci porta a scuola, per il lavoro di chi prepara la “solita minestra” e la “solita pietanza”; aspetteremo “la solita preghiera” che ci intrattiene con il Signore con maggiore stupore.

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Proponiamoci di ricordare spesso, nella giornata di domani e in futuro, che siamo abitati dallo Spirito Santo. Allora ogni gesto, azione, pensiero e parola potrà diventare nuovo. Continuiamo il gioco del “prediletto” della Madonna nella nostra famiglia.

28 maggio – La piaga da cui è scaturito lo Spirito

Giovanni è l’apostolo che ha dato la più alta definizione di Dio: Dio è amore. Fu amato da Gesù con particolare predilezione (è detto cinque volte nei Vangeli: «Il discepolo che Gesù amava»): a lui svelò segreti che non disse a nessun altro. Lo ha chiamato dall’azienda ittica di Zebedeo insieme al fratello Giacomo e all’altra coppia di fratelli, Simone e Andrea, facendone un «pescatore di uomini». Anche Giovanni amava Gesù e lo ha seguito fin sotto la croce, accanto a Maria. Giovanni – lo dice la tradizione – non fu sposato, vivendo in quella condizione che, quando viene scelta per amore, anticipa quella futura della risurrezione, la verginità. Forse per questo Gesù l’ha voluto sempre accanto a sé nei momenti salienti e, nell’Ultima Cena, ha lasciato che posasse dolcemente il capo sul suo petto.
«Sono nel cenacolo – dice Giovanni –, insieme alla madre di Gesù ed agli altri apostoli, pieno di gioia per la discesa dello Spirito Santo. Tutti abbiamo riconosciuto che lo Spirito Santo è quello Spirito di cui parlano le Scritture dall’inizio alla fine: lo Spirito che aleggiò sulle acque primordiali e trasse dal nulla l’universo; lo Spirito donato all’uomo, che l’ha reso un essere vivente; lo Spirito che ha fatto rivivere le ossa aride, nella profezia di Ezechiele; che, nella colomba di ritorno nell’arca, proclama la vittoria della vita sulla morte. Realtà stupende!
C’è un’altra esperienza che ho compreso pienamente soltanto nel momento della Pentecoste. Mi sono rivisto ai piedi della croce insieme a Maria. Su quell’orribile supplizio Gesù era inchiodato da più ore. Conoscevo bene l’amore di Gesù, la sua dedizione senza calcoli, la sua tenerezza soprattutto verso i piccoli e verso i peccatori. Sapevo che il segreto di tutto era lo Spirito a cui era unito. Lo disse apertamente nell’ultimo giorno della grande festa dei Tabernacoli, quando gridò: “Chi ha sete venga a me e beva, chi crede in me. Come dice la Scrittura, “fiumi di acqua viva scaturiranno dal suo seno”. E fu proprio così, ho visto sangue e acqua uscire dal suo costato trafitto. Ne sono testimone, ero presente. Fu l’adempimento di una promessa ripetuta tante volte: “Non vi lascerò orfani, manderò a voi il Consolatore, il Paraclito”. Ma perché fosse elargito lo Spirito bisognava che lui se ne andasse, separandosi da noi. Francamente, a noi questo apparve incomprensibile». «Me ne rendo conto ora – continua Giovanni –, Gesù ci consegnò lo Spirito Santo versando il suo sangue. Per noi ebrei – si sa – il sangue è la linfa vitale, la realtà che voi occidentali chiamate anima. Lo consegnò insieme al suo ultimo respiro, assicurandoci che “tutto era compiuto”. Non c’è amore più grande che dare la propria vita».
Dice Giovanni: «Vi ho condotti sull’orlo di un mistero profondo: il dono dell’Amore divino che passa attraverso la voragine di un dolore infinito, l’abbandono sperimentato da Gesù sulla croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Su quella voragine è venuto lo Spirito, l’Amore che procede dal Padre e dal Figlio. Gesù ha vissuto un vuoto infinito per colmarci di una pienezza infinita. Ricordo che un giorno Gesù disse questa frase: “La donna, quando partorisce è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo”». Aggiunge Giovanni: «Anche a noi è concesso di liberare la forza dello Spirito, che portiamo dentro di noi dal giorno del nostro Battesimo e della nostra Confermazione, ogni volta che sappiamo soffrire per amore o che amiamo fino a soffrire. È la divina alchimia dello Spirito Santo, capace di trasformare il dolore in amore. È la nostra Pentecoste nella Pentecoste di Gesù.

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Domani ci ripromettiamo di mettere con maggiore consapevolezza amore nelle azioni che compiamo, soprattutto in quelle che ci costano di più. Continuiamo il gioco del “prediletto” della Madonna nella nostra famiglia.

Omelia nella S.Messa per la Festa del Crocifisso

Talamello (RN), 1° giugno 2020

Num 21,4-9
Sal 77
Gv 3,13-17

1.

«Bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo» (Gv 3,14). L’evangelista Giovanni allude alla Passione mentre Gesù, in questa conversazione con Nicodemo, gioca piuttosto sulle parole “salire” e “scendere” (cfr. Gv 3,13), senza mai ricordare la realtà della croce. «Il Figlio sarà innalzato», conferma più avanti, ma qui non è precisato se nella gloria o sulla croce (cfr. Gv 12,32). Tuttavia, lo strumento di supplizio diventa, attraverso il cambio di prospettiva che nasce nella fede e nell’amore del Padre, una scala verso la glorificazione, cioè l’effusione di questo amore sul mondo, lo Spirito Santo. Proprio per questo i nostri padri hanno voluto collocare la festa del Crocifisso di Talamello subito dopo la Pentecoste.

2.

In Occidente abbiamo insistito molto sulle raffigurazioni del “Christus patiens”, sottolineando che la sofferenza era necessaria per controbilanciare il peccato. Ricordo di quel bambino che, sfogliando un libro d’arte e guardando i Crocifissi e i particolari della crocifissione, sospira: «Gesù è morto così, che disgrazia!». Quel bambino, come tanti di noi, è stato educato ad esaltare il dolore, mentre è l’amore che salva!

3.

Chi si sa amato è in grado di uscire dal dualismo e sa percepire la presenza del bene anche nelle situazioni più tragiche, come quella di Gesù sulla croce. La sua morte, infatti, si rivela a chi guarda oltre come la guarigione dall’ingiustizia attraverso il perdono, in un atto d’amore supremo verso «chi non sa quello che fa» (cfr. Gv 23,34).
Come gli Ebrei nel deserto erano guariti dal veleno se guardavano il serpente di bronzo, così Gesù suggerisce di considerare la sofferenza e la morte, simbolo di ogni male, come il passaggio per scoprire l’amore del Padre. Si tratta di guardare a Lui (Sommo Bene), anziché guardare al proprio male!
Succede, talvolta, d’essere così ripiegati su noi stessi da ritenere necessario autoriscattare e pagare con la sofferenza il nostro “debito”, ma basta guardare il Bene oltre il male con una fiducia totale in Dio che non giudica ma salva… Preferiamo costruire la nostra salvezza con i nostri sforzi, i nostri mezzi e i meriti, anziché fidarci di un’altra salvezza.

4.

La croce è indicata da Gesù come il mezzo per guarire col potere trasformante dell’amore. Il virus più devastante è la sfiducia.
La croce di Cristo è gloriosa, come proclama la liturgia, perché segna il trionfo della salvezza attraverso la fiducia nell’amore del Padre. Non c’è in tutto il Vangelo e neppure nel resto delle Sacre Scritture una sola parola che consideri la croce gloriosa in se stessa. Ciò che è glorioso è unicamente il Crocifisso e lo è proprio perché è andato oltre i legni della croce mediante la risurrezione.
Due intuizioni del quarto Vangelo devono chiarire la nostra devozione alla Santa Croce:

  1. Quando guardiamo la croce non consideriamo tanto i due pezzi di legno perpendicolari (anche se d’oro… o artisticamente dipinti), guardiamo il “luogo” dell’azione salvatrice di Dio, dove si rende visibile.
  2. Mentre Gesù viene innalzato sulla croce passa per una tappa fondamentale della sua via verso il Cielo. Da qui il nostro atteggiamento di fede verso le croci che ci indicano la strada da percorrere e il nostro destino di risurrezione.