Omelia nelle Esequie del Sindaco di Sant’Agata Feltria, Guglielmino Cerbara

Sant’Agata Feltria (RN), 4 agosto 2021

Gb 19,1.23-27
Sal 26
Gv 6,41-51

Giobbe è un uomo sottoposto alla sofferenza, un uomo che riceve la solidarietà dei tanti che lo vanno a trovare, che si pongono come difensori di Dio, ma lasciano anche intendere che la sofferenza può essere un castigo per i peccati. Abbiamo letto un tratto bellissimo del libro biblico a lui dedicato. Permettetemi di dire alcune parole di commento. Dice Giobbe: «Io so che il mio Redentore è vivo… Dopo che questa mia pelle sarà distrutta, senza la mia carne vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, e i miei occhi lo contempleranno non da straniero» (Gb 19,25-27). Sono tra le più significative parole pronunciate da Giobbe. Giobbe ha perso ogni sostegno umano nella sua vicenda. Questa solitudine sembra quasi un segno dell’abbandono di Dio. In questa totale solitudine risuona la professione di fede di Giobbe che abbiamo letto adesso. Al di là delle vicende, al di là degli uomini, al di là della morte, questo atto di fede raggiunge il Redentore, che proclamerà poi l’innocenza di Giobbe e lo riscatterà. Il Redentore non è altro che il Dio vivente. In lui, Giobbe vede se stesso vivo, dimentico del suo dolore e persino della morte fisica. Giobbe intravvede una vita in Dio, al di là della vita fisica e del dominio della morte. Con la stessa speranza anche noi abbiamo pregato: «Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi» (Sal 26,13).
Il brano evangelico ci ha riferito un breve tratto del Vangelo di Giovanni, detto “discorso del pane di vita”, che fa immediatamente seguito alla narrazione della moltiplicazione dei pani. I pani della moltiplicazione sono un segno posto da Gesù come risposta alla nostra fame: fame di pane (Gesù si scandalizza che ci sia chi non ha il necessario, attiva i discepoli per la condivisione e poi interviene); fame di cura e di amore (Gesù conosce bene questa esigenza del cuore; lui stesso ha chiesto gratitudine e compagnia: quando accoglie il ringraziamento del lebbroso sanato e domanda dove sono gli altri nove, rivendicando riconoscenza; oppure quando nel Getsemani si aspetterebbe almeno un’ora di solidale compagnia…); fame di infinito (Gesù sa che il nostro cuore è inquieto e – in fondo – nessuna cosa può colmare del tutto il suo desiderio; solo qualcosa o qualcuno di infinito lo potrebbe).
Ecco, davanti a Gesù Cristo, le nostre ceste vuote, le nostre fami!
Persino i nostri vuoti di Dio (dubbi, fragilità, peccati, inconsistenze), se offerti come ceste di fame, diventano vuoti per Dio, che Gesù colma e sazia con sovrabbondanza.
Nella tessitura del discorso si intrecciano due temi: la mormorazione degli ascoltatori e la rivincita di Gesù. La mormorazione è quella dei giudei presenti all’avvenimento, ma siamo “giudei” tutti noi alle prese con la nostra poca fede in lui, con le nostre perplessità; che altro è la mormorazione di cui parla l’evangelista, se non la riserva mentale, il sussurro alle spalle di Gesù, al quale tante volte crediamo di credere. La mormorazione è lo stesso atteggiamento degli Ebrei durante l’esodo, ciechi e sordi davanti al Dio che guida il loro cammino verso la terra promessa.
La rivincita è la risposta di Gesù, una risposta d’amore, che si propone come “pane di vita”: «Questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia… Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Sazia di pane, sazia di amicizia, sazia di infinito “per sempre”.
Qui Gesù sta per introdurre un discorso eucaristico, ma prima ancora è la proposta di alleanza, di accoglienza della sua persona, di fede. È una rivincita per la nostra scarsa fiducia che Lui, il Signore, veda davvero, che venga, che possa cambiare le cose. Gesù replica: «Credete in Dio e credete anche in me». Ecco la rivincita. Ci colloca nell’ambito della relazione e dell’amicizia con lui. Del resto, è quello che facciamo anche noi quando, volendo bene ad una persona, le diciamo: io ti voglio bene e so di volerti bene. Non ci sono prove scientifiche all’amore. Tutto si gioca sulla fiducia. Ecco quello che ci sta dicendo la Parola di Dio qui, in questo momento, davanti a questa bara. È una parola di speranza. È una parola di vita. Una parola certa, pronunciata dal Signore Gesù: «Io lo risusciterò nell’ultimo giorno».
Mino, il sindaco di Sant’Agata Feltria, ci testimonia un messaggio che tutti dobbiamo accogliere. Ci richiama la necessità, per la vita della comunità, della buona politica, non di quella asservita alle ambizioni individuali o alla prepotenza di fazioni o centri di interesse. Una politica che non sia né serva né padrona, ma amica e collaboratrice; non paurosa o avventata, ma responsabile e quindi coraggiosa e prudente nello stesso tempo; che faccia crescere il coinvolgimento delle persone, la loro progressiva inclusione e partecipazione. Una politica che sappia armonizzare le legittime aspirazioni dei singoli e dei gruppi, tenendo il timone ben saldo sull’interesse dell’intera cittadinanza. Questo è il volto autentico della politica e la sua ragion d’essere: un servizio inestimabile al bene dell’intera comunità. Questo è il motivo per cui la Dottrina Sociale della Chiesa la considera una nobile forma di carità, forse la più alta forma della carità. Un secondo messaggio è l’invito, soprattutto ai giovani, a prepararsi adeguatamente e ad impegnarsi personalmente per il bene comune, respingendo ogni, anche minima, forma di disinteresse. Un’ultima parola: il buon politico ha anche la propria croce da portare, se vuole essere un buon amministratore, perché deve lasciare tante volte le sue idee personali per assumere le iniziative degli altri e armonizzarle, accomunarle, perché sia proprio il bene comune ad essere portato avanti.
Grazie signor Sindaco. Preghiamo il Signore perché susciti buoni politici, che abbiano davvero a cuore la comunità, il popolo e l’ascolto di quanti sono più in difficoltà. Così sia.

Omelia nella Festa di San Leone

San Leo (RN), Cattedrale, 1° agosto 2021

Gn 12,1-4
Sal 15
Fil 4,4-9
Mt 7,21-27

«Il Signore disse ad Abrám: “Esci dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò…”».
Il testo biblico prosegue con una raffica di verbi al futuro, cosa molto significativa… E conclude con un’obbedienza: «Allora Abramo partì, come gli aveva ordinato il Signore». Chi è Abramo? Le scoperte archeologiche mettono in luce sempre più chiaramente che il genere di vita di Abramo e del suo ambiente sociale coincide con quello dei pastori nomadi dell’inizio del 2° Millennio prima di Cristo. Questi pastori si muovono nei territori della cosiddetta “Mezzaluna fertile” in cerca di pascoli per il loro bestiame.
Ma per la Bibbia la storia di Abramo è una storia religiosa. In essa Abrám non figura come un nomade in cerca di pascoli, ma come un pellegrino che cammina verso la “terra promessa”. Dio lo chiama. Abrám risponde. La sua fede inaugura un modo nuovo di interpretare la vita dell’uomo e la storia. Questo è il grande contributo di Abramo al cammino dell’umanità. Milioni di uomini, appartenenti alle tre principali religioni dell’Occidente (Ebraismo, Cristianesimo, Islamismo), lo invocano come “padre dei credenti”: Abraham, il nome che gli viene dato da Dio in luogo del suo nome Abrám, significa precisamente “padre di una moltitudine”.
Abramo è uomo di fede coraggiosa: si ritrova a tu per tu con Dio. Questa è la chiave della sua profonda personalità religiosa: la sua obbedienza sincera. Dio sta al di sopra, davanti e prima di tutto. Dio solo basta. «Sperando contro ogni speranza» (Rm 4,18), Abramo lascia tutto per il Tutto! (cfr. Eb 11,8-10). Scopre che Dio non viene mai meno e che trovare Dio significa anche trovare la parte migliore dell’uomo.
Nell’oggi della liturgia questa pagina della Scrittura interpreta la vicenda umana e spirituale di san Leone, primo e più grande evangelizzatore del Montefeltro, che ha dato origine alla nostra Chiesa locale. Ma questa pagina svela anche le nostre personali storie di vocazione, da rinnovare ogni giorno, nella fede, con coraggio, da pellegrini.
Saluto don Carlo Giuseppe Adesso che intraprenderà, fra qualche settimana, un nuovo itinerario spirituale e di servizio in Terra Santa. Benedico e saluto don Giuliano Boschetti come nuovo parroco di San Leo.
In un giorno come questo, nel quale il vescovo incontra la città in festa per il Patrono, è attesa anche una meditazione attualizzante la Parola di Dio sulle vicende del presente. Farò quattro sottolineature.

1.

Prima di tutto dico una parola di speranza, perché tempo di crisi per noi cristiani significa tempo di speranza. Viviamo un’epoca di smarrimento sul piano etico e, prima ancora, sul piano del pensiero. Cito Thomas Harvey, un romanziere americano del ‘900, che conclude così un suo scritto: «Ahimè, mi manca il coraggio e il cuore mi si spezza! Signore, abbiate pietà del cristiano che dubita, dell’incredulo che vorrebbe credere, del forzato della vita che si imbarca solo nella notte sotto un firmamento che non è più rischiarato dai consolanti fari dell’antica speranza».
È un’epoca che siamo comunque chiamati ad abitare. Possiamo e dobbiamo affrontarla con la risolutezza di Abramo, con la sua fede, col suo coraggio. Abbiamo un orizzonte, abbiamo un firmamento altro, abbiamo risorse spirituali. Lo ribadisco con umiltà, ma anche con fierezza. Però c’è chi, spaventato, si àncora alle consuetudini e non arrischia nuovi cammini. C’è chi vorrebbe affrettare la nascita del “nuovo”, forzando tempi e modi. C’è chi, non volendo scomodarsi, preferisce lasciare ad altri la fatica del cambiamento.
L’uomo di fede vede in ogni trasformazione e in ogni cambiamento a cui va incontro un’occasione per avvicinarsi a Dio, per incontrarlo più da vicino, per dare alla sua vita il respiro rinnovante del futuro.
Dobbiamo porci davanti all’inquieta ricerca con forti risoluzioni spirituali; oltre le mode, oltre i paradigmi culturali, che sono mutevoli, abbiamo valori perenni, da non confondere con i nostri schemi e le rassicuranti consuetudini: sono valori basati sulla Parola di Dio e che hanno un nome preciso: Gesù e il suo Vangelo. Occorre tenere ben fermo il timone nella traversata. Voglio dire: con lo sguardo fisso su Gesù morto e risorto non ci perdiamo d’animo. Gesù sulla croce ha perso tutto: il posto in sinagoga, gli amici, persino la percezione della prossimità del Padre e ha gridato il suo abbandono: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Nella sua esperienza possiamo vedere e vivere i nostri smarrimenti. Nella sua esperienza di oscurità possiamo vedere e superare la nostra. Nel suo abbandono possiamo affrontare le delusioni e le amarezze. La nostra piccolezza, la nostra pochezza, la nostra povertà nel mistero pasquale sono redente: seme caduto per terra che porta il suo frutto, perché sa stare nella zolla. Questa è la speranza virtù teologale.

2.

Affido a San Leone un desiderio. Dobbiamo riprendere con rinnovato entusiasmo le attività pastorali dopo le chiusure e le restrizioni. Le nostre chiese, pur con le necessarie precauzioni, ora sono spalancate. Altrettanto le sale di comunità per gli incontri e la catechesi. Invito tutti, ragazzi, giovani e adulti, a riaccostarsi alla vita pastorale ordinaria. Ora è il tempo di riprendere la vita consueta. Senza buttare via quello che c’è stato di bello, nonostante tutto, come i collegamenti online, le liturgie domestiche in famiglia e tra famiglie… L’incontro e la relazione sono sostanza dell’esperienza cristiana. Vedo l’esitazione di alcuni e la dispersione di tanti. Metto in conto anche la pigrizia e il disamore. Qualcuno si aspettava uno slancio di fede e un accrescimento di fervore in tempo di pandemia. Ingenuità? La pandemia, invece, ha evidenziato i segni profondi della secolarizzazione, ha smascherato l’abitudine e l’andazzo. Ebbene, ritorniamo. Dalla dispersione all’unità. Chi ha la fede più solida aiuti i più deboli, i genitori accompagnino i figli al rientro, le associazioni mostrino la vitalità e l’audacia del loro carisma. Questo momento storico assomiglia al ritorno del popolo di Israele dall’esilio. L’invito al ritorno fu descritto con accenti lirici dal secondo Isaia (cfr. Is 40). Ma i profeti post-esilici, molto realisticamente, non hanno risparmiato parole severe a chi si è attardato, o peggio, situato nel contesto dell’esilio. Il profeta Aggeo se la prende per quanti, pur rientrati, pensano ai loro affari o trascurano la casa di Dio (cf. Ag 1,2-7). Ripartiamo. Riprendiamo. Ricominciamo. Non è questione di numeri, ma di qualità, di fervore!
Esprimo la mia gratitudine all’UNITALSI-USTAL che ha avuto il coraggio di riattivare il pellegrinaggio con i malati a Loreto. Ringrazio l’Azione Cattolica per la ripresa dei campi scuola (settore adulti e settore giovani). Vi sono tante altre esperienze, ad esempio il soggiorno delle famiglie di Comunione e Liberazione e le attività nelle comunità parrocchiali.
Ci attendono, poi, eventi ecclesiali importanti: la festa di San Marino, la Veglia diocesana dei giovani, la chiusura dell’Anno giubilare a Monte Cerignone per il centenario del nostro beato Domenico Spadafora, il conferimento del ministero dell’Accolitato ad uno dei nostri seminaristi, Larry, il Convegno diocesano delle famiglie, la Giornata del Mandato col lancio del Programma pastorale diocesano e l’avvio del cammino sinodale voluto dal Santo Padre.

3.

Non sottovaluto i pericoli. Non siamo usciti completamente dal dramma della pandemia, col suo carico di paure, incertezze e sofferenze. Come ci dicono gli esperti, la vaccinazione della popolazione è l’unica efficace misura contro il diffondersi del virus. Rilancio quanto per bocca del Santo Padre la Chiesa ha affermato: «Tutti, soprattutto le persone più fragili, hanno bisogno di assistenza e hanno diritto di avere accesso alle cure necessarie… e i vaccini costituiscono uno strumento essenziale per questa lotta» (Tweet di Papa Francesco, 7 aprile 2021). La campagna vaccinale non deve trovare ostacoli; dopo essere stata affrontata seriamente, risolta la questione della moralità con il chiaro e autorevole pronunciamento della Congregazione per la Dottrina della Fede e con l’approvazione del Santo Padre possiamo ribadire che è per amore dei nostri fratelli e per il bene della comunità tutta che affrontiamo questa campagna vaccinale!

4.

Un’ultima parola è sulla dignità della persona, della famiglia e la libertà di parola e di educazione. Mi riferisco al disegno di legge sulla omotransfobia in materia di violenza e discriminazione per motivi di orientamento sessuale o identità di genere, in discussione in questi mesi al Senato della Repubblica italiana e nel Paese. Un giornalista cattolico autorevole si pronuncia così: «Qui, ogni parola che dici, sbagli».
Il decreto non tratta solo dell’opporsi alla violenza nei confronti delle persone in ragione del loro orientamento sessuale: questo è già previsto dalla Costituzione Italiana. Il testo va oltre e induce a ritenere che il solo pensare ed esprimersi diversamente rispetto alle definizioni contenute nel disegno di legge, potrebbe apparire come istigazione e discriminazione, pertanto penalmente perseguibile. Non è la sede per approfondire, ma a parere di tanti – non solo dei cattolici – c’è il fondato timore che si crei un disorientamento antropologico che confonde il principio di reciprocità uomo-donna, su cui si fondano la famiglia e l’educazione. Noi ci richiamiamo all’insegnamento della Chiesa. Sento sempre più la necessità di rituffarmi nei documenti conciliari. Il Papa all’Ufficio Catechistico Nazionale nell’incontro del 25 gennaio scorso ha detto parole importanti sulla fedeltà al Concilio Vaticano II. Ricorderete papa Benedetto XVI che, nel suo ultimo incontro col Clero romano, raccontò il Concilio partecipato dall’interno. Il Concilio afferma: «Ogni genere di discriminazione circa i diritti fondamentali della persona, sia in campo sociale che culturale, in ragione del sesso, della razza, del colore, della condizione sociale, della lingua o della religione, deve essere superato ed eliminato come contrario al disegno di Dio» (GS 29). La persona è superiore ad ogni altra considerazione.
«Spetta a ciascuno, uomo o donna, riconoscere e accettare la propria identità sessuale. La differenza e la complementarità fisiche, morali e spirituali sono orientate ai beni del matrimonio e allo sviluppo della vita famigliare. L’armonia della coppia e della società dipendono in parte dal modo in cui si vivono tra i sessi la complementarità, il bisogno vicendevole e il reciproco aiuto» (CCC 2333). L’identità sessuale maschile/femminile è vissuta in pienezza anche da coloro che per il Regno dei cieli consacrano, con cuore indiviso, la loro vita alla lode di Dio, al servizio dei fratelli e alla testimonianza del mondo futuro nel quale «non c’è né giudeo né greco, né maschio né femmina, perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28).
Il Vangelo ci ha proposto l’immagine della casa costruita sulla roccia. Soffiano i venti, ma la casa non crolla. Che questa immagine ci accompagni nel nostro pensare, nel nostro pregare e nel nostro testimoniare. Così sia.