Omelia nella XX domenica del Tempo Ordinario

Eremo di Carpegna (PU), Santuario della Madonna del Faggio, 20 agosto 2023

Camminata del Risveglio

Is 56,1.6-7
Sal 66
Rm 11,13-15.29-32
Mt 15,21-28

La pagina del Vangelo che abbiamo sentito proclamare dal diacono è sorprendente. Gesù ci appare piuttosto severo: non un Gesù “da santino”! Da questo episodio scaturiscono due temi di riflessione e di preghiera.

  1. L’annuncio del Vangelo non ha frontiere. Anche se non appare immediatamente dal racconto dell’evangelista Matteo, Gesù dà una spallata al muro che avrebbe potuto rinchiuderlo nei confini della Palestina.
  2. Gesù presenta una donna straniera, cananea, pagana come maestra di preghiera: una preghiera audace, quasi un braccio di ferro con Gesù (sembra che “converta” Gesù!).

Matteo scrive per tutti e il suo Vangelo risuona in tutto il mondo. Tuttavia, si rivolge ad una comunità concreta: la comunità siro-fenicia (le città di Tiro, Sidone, Antiochia…). Ecco perché, fra i ricordi che ha custodito nel cuore, va a recuperare proprio questo avvenimento, che ha pertinenza ed è contestuale alle problematiche dei cristiani che abitano quel territorio e sono destinatari diretti del suo Vangelo.
Nella comunità serpeggia una tensione: ci sono cristiani che vengono dall’ebraismo, che hanno alle loro spalle la storia di Israele, le Sacre Scritture, le leggi, gli insegnamenti dei rabbi, la circoncisione… Tutto un mondo che ha preparato la venuta di Gesù, pronto ad accoglierlo. Però, in quella comunità ci sono anche cristiani che non hanno questo retroterra religioso, etnico e culturale, ma ugualmente affascinati dal Vangelo, desiderosi di viverlo.
Gesù esce dalla terra di Israele e incontra una donna straniera, cananea, pagana che va davanti a lui con il suo tesoro: la sua bambina.
La prima forma della preghiera è andare al Signore con quello che abbiamo e sentiamo nel cuore. Gesù sembra ignorarla. La donna lo chiama con titoli cristologici raffinati: «Figlio di Davide…». E per due volte il Vangelo annota che si prostra davanti a Lui. Segue una sorta di “braccio di ferro” con Gesù. «Non è cosa buona dare il pane dei figli ai cagnolini», le dice Gesù. La donna replica con umiltà e con coraggio: «Hai ragione, non sono ebrea; sono cananea, pagana, straniera, però anche i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola». Allora Gesù esclama: «Non ho mai visto una fede così grande!».
Si capisce l’importanza dell’episodio per i destinatari di Matteo che ritenevano che il Vangelo fosse appannaggio di chi aveva fatto il percorso di iniziazione completo. La legittimazione e le condizioni per essere di Gesù sono… la fede! «Donna, è grande la tua fede. Il tuo desiderio sarà esaudito». E la sua bambina viene liberata dal male.
Invito tutti a rinnovare l’atto di fede, personalmente e insieme: «Gesù crediamo in te!». Non era intenzione di Gesù fare il guaritore “a gettoni”; si scansava da questa aspettativa; sapeva che aveva una missione, quella che il Padre gli aveva indicato: raccogliere anzitutto le pecore smarrite di Israele. Dopo la Pasqua, gli apostoli ricordano l’uscita di Gesù al di là dei confini della Palestina, “nelle periferie”: ed è proprio là (ad Antiochia), che, per la prima volta, i discepoli sono stati chiamati “cristiani” (cfr. At 11,26).
Sul monte della risurrezione Gesù proclamerà: «Andate in tutto il mondo, annunciate il Vangelo ad ogni creatura». Nello Spirito di Gesù e col Salmo proclamiamo: «Popoli tutti, lodate il Signore. Ti lodino i popoli, o Dio, ti lodino i popoli tutti. Ci benedica Dio, lo temano tutti i confini della terra».

Omelia nella Solennità dell’Assunzione di Maria

Soanne (RN), Lago di Andreuccio, 15 agosto 2023

Ap 11,19; 12,1-6.10
Sal 44
1Cor 15,20-26
Lc 1,39-56

Nella speranza di non scandalizzarvi vi confido un pensiero di ieri. Guardando l’agenda, ho visto che avevo tre momenti molto belli in questa giornata di ferragosto: stamattina qui al lago, insieme con voi, nel meraviglioso tempio del Creato; alle 11.15 la Messa solenne nel Santuario della Madonna delle Grazie di Pennabilli; nel pomeriggio a Pieve Corena (vicino a Chiesanuova – RSM). Tre appuntamenti desideratissimi, ma con una preoccupazione: della Madonna non si dice mai abbastanza («de Maria numquam satis», diceva san Bernardo) e non si esaurisce mai quello che si deve dire di lei. Ma, per onorare la Madonna, mi piacerebbe poter dire qualcosa di originale. Sono andato un po’ in crisi: sono 9 anni che vengo con voi qui al Lago e ogni volta ho cercato di dire una parola nuova… Cosa dire questa volta?
Mi sono aiutato in questo modo. Innanzitutto, quello che conta non è dire “cose nuove” (anche se ce ne sono: basta navigare su Google o sfogliare enciclopedie, o lasciarsi ispirare da arte, musica, letteratura), ma dire con novità del cuore le cose di sempre, con la partecipazione profonda di noi stessi.
Mi fermerò su due punti.
Nessuno di noi dubita dell’amore di Dio. Ma ci sono momenti di disgrazia o di prova nei quali discutiamo col Signore e ci viene da assumere un atteggiamento polemico con lui. Poi, pian piano, si rientra nell’accoglienza della sua volontà che, a volte, ci appare misteriosa. Qualche altra persona – è capitato anche a me – non avendo il riscontro di qualcuno che voglia bene, davvero si domanda: «Dio è proprio vicino?». La percezione della prossimità di Dio passa anche attraverso l’amicizia, l’amore delle persone che abbiamo attorno. Una persona che non ha avuto un’infanzia bella, che non ha gustato l’amore di una mamma o di un papà si chiede: «Da dove vedo che Dio mi ama?». In realtà Dio ci ama immensamente e nel suo disegno ha previsto, per ciascuno di noi, un amore materno, una carezza femminile: ha scelto Maria, una donna, per farci sentire la sua tenerezza. Ripeto: noi sappiamo che Dio ci ama immensamente, che è tenero verso ciascuno di noi, ma ha voluto donarci una presenza così umana e tangibile: la prossimità di Maria.
Questa mattina un caro amico, un collega, mi ha confidato che, durante la lettura di un libro che documenta le apparizioni di Maria (la Chiesa è molto prudente nell’approvazione dei fenomeni soprannaturali, ma poi li riconosce se sono autentici), ha sentito fortemente che Dio ha voluto che accanto a noi ci fosse questa presenza e questa tenerezza. Dio ha affidato questo ministero di maternità alla Madonna. Quando è avvenuto? Il Venerdì Santo, ai piedi della croce, Gesù dice alla Madonna: «Madre, ecco tuo figlio», indicando Giovanni. E a Giovanni dice: «Ecco tua madre». «E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa» (Gv 19,26-27). Prendiamo anche noi Maria a casa nostra, perché Dio gli ha affidato questa missione, questo ministero. Grandezza di Maria!
Un’altra suggestione che incoraggia la nostra preghiera ce la offre san Bernardo di Chiaravalle. San Bernardo, commentando l’Annunciazione, crea una sorte di sospensione del tempo fra le parole dell’Angelo e la risposta di Maria. In quella sospensione implora il “sì” di Maria. Possiamo fare così anche noi, immaginando entrino in scena il lebbroso, che incoraggia Maria a dire il suo “sì” perché, se non lo dice, lui non sarà guarito; poi Maria di Magdala che dice: «So di essere peccatrice, ma se tu, Maria, dirai il tuo “sì”, sarò redenta… Possiamo immaginare, nella preghiera, che entrino via via tutti i personaggi del Vangelo e con loro anche noi: «Maria, di’ il tuo “sì”, non indugiare, non farti condizionare dalla tua umiltà; abbiamo bisogno della tua audacia». La preghiera ha di questi ardimenti. Possiamo confidare a Maria il nostro essere peccatori, il peso dei limiti, l’ansia per le preoccupazioni, il nostro grido del cuore… «Maria, se dici “sì”, Gesù viene a salvarci».
Gesù è venuto, diciamo grazie alla fanciulla di Nazaret, Maria.

Omelia nella XIX domenica del Tempo Ordinario

Pennabilli (RN), Cattedrale, 13 agosto 2023

Festa per i 100 anni di mons. Mansueto Fabbri

1Re 19,9.11-13
Sal 84
Rm 9,1-5
Mt 14,22-33

Cent’anni di solitudine (cfr. G.G. Marquez, Cent’anni di solitudine, 1967). Macché solitudine! Don Mansueto celebra cent’anni di compagnia, di incontri, di volti, di amici.
Parafrasando il brano evangelico, vedo nella vicenda umana e spirituale di don Mansueto un’analogia con il cammino dell’apostolo Pietro. La colgo nelle preghiere che sgorgano dal cuore e dalle labbra dell’apostolo. Sono due. Pietro le ha pronunciate a qualche minuto l’una dall’altra, ma fra la prima preghiera e la seconda, c’è un abisso: non tanto le profondità del lago di Galilea, ma le profondità dell’esperienza spirituale. Pietro chiede a Gesù di camminare sull’acqua come fa lui. Allo stesso modo don Mansueto si è lanciato al seguito di Gesù, con entusiasmo e fiducia. Erano anni difficili: la povertà, la guerra, i disagi, le distanze, le strade… Un vero camminare sull’acqua. «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te camminando sull’acqua». Don Mansueto, come Pietro, ha guardato Gesù e ha chiesto, in fondo, una cosa spettacolare… E spettacolare – davvero! – è stato il cammino di don Mansueto nella nostra Chiesa, sotto gli occhi di tutti, sotto gli occhi di noi pennesi, per quasi cinquant’anni: prima da seminarista, poi da segretario del Vescovo e ancora da parroco.
E viene il tempo della seconda preghiera, la preghiera nella fragilità. È un semplice grido di un uomo che riconosce di non bastare più a se stesso. È la preghiera più bella, più vera, più necessaria. «Signore, salvami!». La mano di Gesù afferra la mano di Pietro: fate attenzione a questo particolare. Negli anni dell’attività pastorale, nell’Azione Cattolica, nel Cammino neocatecumenale, nelle esperienze forensi, don Mansueto ha offerto mani e piedi, cuore e intelligenza al Signore per essere sua presenza. Ora è Gesù che tende la sua mano all’amico e lo stringe forte perché le onde dell’ignoto, dell’oscurità, non lo turbino. Gesù, in fondo, stende la sua mano per una “questione di cuore”. Nella pagina di Vangelo che precede immediatamente quella proclamata dal diacono in questa liturgia l’evangelista ci fa assistere ad un miracolo strepitoso: sulle rive del lago Gesù sfama cinquemila uomini, senza contare donne e bambini (cfr. Mt 14,21); qui, nella barca e nell’oscurità, avviene un prodigio per “questioni di cuore”. Il primo, la moltiplicazione dei pani e dei pesci, miracolo indispensabile e utilissimo, il secondo, la mano tesa all’amico, sembra un miracolo inutile, fine a se stesso. Dichiaro tutta la mia simpatia per questo miracolo “inutile”, perché c’è tutta la dinamica della vita di fede e don Mansueto la testimonia.
Vale anche per noi: dalla paura alla fiducia, dal dubbio alla fede, dalla perplessità alla dossologia (lode). E Gesù dice: «Vieni!». Lo dice a me, lo dice a don Mansueto, lo dice a tutti. E le tempeste e le onde della vita? Tutte occasioni per crescere nella fede e nell’intimità con il Signore Gesù.

Omelia nella Trasfigurazione del Signore

6 agosto 2023

Dn 7,9-10.13-14
Sal 96
2Pt 1,16-19
Mt 17,1-9

Festa della Trasfigurazione del Signore: cuore dell’estate. La liturgia ci suggerisce di abbandonare per un attimo la lettura continuata del Vangelo di Matteo, andando a cercare, al capitolo 17, l’avvenimento sorprendente che ha riempito di stupore e di gioia gli apostoli, fino a dichiarare la loro disponibilità a restare lì sul monte per sempre.
È festa della bellezza. La bellezza è proporzione, misurazione, equilibrio, armonia, dove le parti si integrano con il tutto. Ma soprattutto la bellezza è ciò che stupisce, meraviglia e piace. Ed è gratuità.
Il Vangelo ci porta a considerare la bellezza di Gesù, ma anche quella dei cristiani. Paolo li descrive così: «Voi siete luce» (Mt 5,14) o li invita a “rivestirsi di luce” (cfr. Rm 13,14), proprio come appare Gesù nella Trasfigurazione, «splendente come il sole» e con le vesti «candide come la luce».
Entriamo nella comprensione più profonda di questa pagina in cui si intrecciano i temi della Pasqua: da una parte la luce della risurrezione, lo splendore della vittoria di Gesù, e dall’altra l’amara croce, la Passione. Troviamo effettivamente tanti elementi che ci portano a collegare la Trasfigurazione con l’esperienza della Pasqua, dove si rivela la messianicità di Gesù: Gesù, il Messia, l’atteso, che finalmente si manifesta nel suo splendore.
Il motivo per cui Gesù è su quel monte, il monte Tabor secondo la tradizione, in realtà è una ritirata strategica. In quei giorni si sta celebrando la festa delle capanne, che in Israele, a Gerusalemme soprattutto, segna l’apogeo dell’esaltazione collettiva. Si tratta di giorni di manifestazioni e talvolta di autoproclamazioni di messianicità da parte di qualcuno. Gesù si defila: non vuole che venga fraintesa la sua messianicità. Il collegamento tra Trasfigurazione e Pasqua appare chiaro attraverso tanti particolari, ad esempio, la voce del Padre, che Matteo raccoglie e trasmette nel Vangelo: «Questi è il Figlio mio, l’amato». E poi concluderà dicendo: «Ascoltatelo!». È, in fondo, l’incipit del primo carme messianico, quello del Servo sofferente, che indica di quale messianicità si tratta. Poi, il fatto che Gesù chiama con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e di lì a poco li chiamerà nel Getsemani, nella sua ora di agonia. Inoltre, il monte della Trasfigurazione fa pensare al monte delle Tentazioni, dove il diavolo cerca di stornare Gesù dal progetto che il Padre gli ha assegnato. Ma il monte è anche quello della risurrezione e dell’invio missionario, alla fine del Vangelo di Matteo, quando Gesù dirà: «Ogni potere mi è stato dato…». E poi, benché dubbiosi, li invia a portare l’annuncio della risurrezione e della Pasqua a tutte le genti.
Gesù si è trasfigurato. C’è una metamorfosi improvvisa di bellezza che genera stupore ed estasi. Tuttavia, Pietro fa una gaffe quando dice: «Signore, facciamo qui tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia» (Mosè ed Elia erano, infatti, comparsi con Gesù). Pietro confonde quella che è la Trasfigurazione con la Festa delle Capanne, ma soprattutto, chiedendo di fare tre tende, accomuna Gesù a Mosè e ad Elia, mentre invece, alla fine del brano, Matteo sottolineerà la solitudine di Gesù. Gesù è solo dal punto di vista storico-salvifico: solo lui è il Signore, lui solo il Salvatore. Ma c’è anche la solitudine umana e dolorosa di Gesù. La Trasfigurazione sta inclusa fra due momenti in cui Gesù preannuncia agli apostoli la Passione. La Trasfigurazione, inoltre, è attigua alla confessione di Pietro. Gesù chiede che cosa pensi la gente di lui e gli apostoli risponderanno: «Ti pensano come Mosè, come Elia redivivo, come un grande profeta…». E Gesù dirà: «Ma voi chi dite che io sia? Chi sono io per voi?». Pietro risponderà per tutti con quella confessione che non può venire da lui: «Tu sei il Messia, il Figlio del Dio benedetto». Pietro, che ha fatto questa confessione, è scioccato al pensiero che Gesù scende dal monte con loro, lui solo, incamminato verso la Passione. Pietro e gli altri fanno fatica a comprendere il messianismo di Gesù.

Concludo con un pensiero particolare per le persone che, durante questa estate, stanno soffrendo molto, a causa degli incendi e del maltempo. Penso a tutti coloro che non hanno l’opportunità di fare qualche giorno di vacanza, a quelli che consentono a noi di fare qualche esperienza di riposo e di svago… Chi riesce a fermarsi dagli impegni quotidiani, dedichi un po’ di tempo a lasciarsi educare dalla bellezza, salendo sui monti del nostro territorio, lasciandosi sorprendere da un’alba sulle rive del mare, ma anche tuffandosi nell’arte… La bellezza più bella è Gesù. Proponiamoci di entrare in confidenza con lui, di stare con lui, di trovare nell’angolo della preghiera il raccoglimento per gustare, come Pietro, Giacomo e Giovanni, la sua bellezza.

Omelia nella XVII domenica del Tempo Ordinario

Avila (Spagna), 30 luglio 2023

1Re 3,5.7-12
Sal 118
Rm 8,28-30
Mt 13,44-52

Provo una grande emozione ad essere qui, nella chiesa dove santa Teresa è stata battezzata. È un’emozione anche perché ho dedicato molte lezioni agli studenti su questa grande maestra spirituale.

Seguendo la lettura del Vangelo mi viene desiderio, insieme con voi, di rinnovare il “sì” a Gesù. Mi piacerebbe coinvolgervi in questo “sì”, ognuno secondo la propria vocazione.
Siamo nella terza parte del discorso in parabole di Gesù. La liturgia ci propone la meditazione di tre mini-parabole con alcune caratteristiche che le distinguono dalle altre, non solo per il genere di racconto, ma perché non hanno la spiegazione: è lasciata all’intuito, alla sapienza dell’ascoltatore. Il brano si concluderà con la ribellione dei concittadini di Gesù e il loro rifiuto nei confronti del Maestro.

La prima parabola paragona il Regno dei Cieli alla fortuna di un agricoltore – probabilmente si tratta di un affittuario o comunque di un contadino che non è proprietario – che, zappando un terreno brullo, pieno di ortiche e di erbacce, inciampa in un tesoro. La parola “tesoro” evoca romanzi, canzoni d’amore, sogni. Quest’uomo è fortunato: arriva a scoprire un tesoro dove meno se lo aspetta. E che fa? Copre tutto, va a casa, racimola tutto quello che ha, lo vende e acquista quel campo. Possiamo immaginare il sarcasmo dei suoi concittadini… Eppure, lui sa che tra quelle ortiche e quei sassi c’è un tesoro. La sottolineatura è sull’astuzia: il Regno dei cieli viene trovato da persone che hanno astuzia e intraprendenza.

Nella seconda parabola si parla di un collezionista che va in cerca di perle preziose. Ne ha molte, ma gli manca quella più originale e, quando va ai mercatini dell’usato, sa vederla tra le cianfrusaglie. Non è solo una perla, ma “la perla”. Allora vende tutto per averla. Qui la sottolineatura è sulla fatica del cercare. Il collezionista compie un esodo, un cammino. Non lascia nulla di intentato.

Nella terza parabola Gesù paragona il Regno dei cieli ad una rete piena di grossi pesci (l’evangelista Matteo preferisce questa espressione anziché “Regno di Dio”, perché scrive agli ebrei che non usano mai il nome di Dio). I discepoli faranno effettivamente l’esperienza di una pesca miracolosa, non tanto come miracolo per mandare avanti l’azienda di Pietro e Andrea, di Giacomo e Giovanni, ma come segno della sovrabbondanza del Regno di Dio.
Tutt’e tre le parabole stanno a dire la grandezza assoluta del Regno di Dio, di fronte al quale tutto il resto viene relativizzato.
La parabola della rete piena di pesci allude anche al momento finale, quando verranno separati i pesci buoni dai pesci cattivi. C’è la ripresa dell’insegnamento della parabola della zizzania, in cui Gesù esortava a lasciare che la zizzania crescesse con il buon grano: Gesù dà un colpo alla botte degli impazienti e una botta al cerchio degli intransigenti. Verrà il tempo del discernimento: è nelle mani del Padrone della messe.
Gesù si rivolge ai discepoli che ha attorno; amo pensare che ci siano anche i Dodici apostoli, con il loro sguardo innamorato, che hanno già fatto l’esperienza della scoperta del tesoro, della perla preziosa, della rete piena di pesci. Allora Gesù li promuove sul campo. «Avete capito tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». Li paragona al bravo scriba che sa cavar fuori le cose antiche, perché sa vedere il Regno promesso nelle antiche scritture, e le cose nuove, perché ne vede il compimento in Gesù.
Nelle tre mini-parabole l’incontro con il Regno di Dio sembra qualcosa di fortuito: questo è detto per sottolineare che si tratta di un dono. D’altra parte, emerge l’invito alla ricerca, alla fatica, all’esodo per sottolineare che occorre una corrispondenza: dono e responsabilità, chiamata e risposta.
Un altro particolare: i personaggi della parabola fanno la ricerca, il cammino, la fatica, ma in vista di un “affare”, per la gioia!
Il contadino è un popolano, mentre il cercatore di perle appare come un borghese: i cammini sono diversi, i punti di partenza sono i più svariati, ma il Regno di Dio è per tutti. Un tema ben richiamato anche nella parabola della rete: i pesci rappresentano la totalità delle persone e la distinzione sarà alla fine. Un invito che Gesù fa a non giudicare: ognuno faccia il suo cammino. Tutti sono candidati al Regno di Dio.

Concludo questa meditazione invitando a conoscere di più la vita dei santi, a vedere come hanno realizzato nella loro vita la ricerca del Regno e come sono stati pieni di gioia: san Francesco d’Assisi, santa Chiara, sant’Ignazio di Loyola… fino ad arrivare ai santi contemporanei, il beato Carlo Acutis, il beato Alberto Marvelli… Persone che hanno fatto “l’affare”, scoprendo il “tesoro” nella vita comune, come il protagonista della prima parabola, che mai avrebbe immaginato che il tesoro fosse in mezzo alle sterpaglie. Ognuno di noi ha le sue “sterpaglie”, ha la sua vita piena di contraddizioni, il suo carattere… Pensiamo alle cadute di Pietro, il principe degli apostoli, così lanciato al seguito di Gesù: sono tramandate nei Vangeli per essere un insegnamento per noi.
L’astuzia, la ricerca, la fatica sono per la gioia di avere un tesoro, una perla preziosa, una grande quantità di pesci. Gesù invita ad osare.
Teresa d’Avila ce lo ricorda continuamente nei suoi scritti.
Faccio notare che il tesoro è nel proprio campo, nel fazzoletto di terra dove vivo, dove ci sono le ortiche, le erbacce, i sassi… Non bisogna pensare che non valga la pena coltivarlo, perché c’è un tesoro nascosto. Dicendo “sì” abbraccio tutta la realtà: il mio tempo, la mia città, il mio carattere… anche le parti di me che non mi piacciono sono il campo dove c’è il tesoro, sono il mercatino delle cianfrusaglie in cui si trova la perla preziosa.
Il viaggio che abbiamo intrapreso verso Lisbona è il “campo dei miracoli”; dobbiamo viverlo in tutti i suoi momenti belli e faticosi, in tutte le situazioni favorevoli e sfavorevoli: qui la promessa di una grande affare.

Omelia nella XVI domenica del Tempo Ordinario

San Marino Città (RSM), chiesa dei Santi Pietro, Marino e Leone, 23 luglio 2023

Sap 12,13.16-19
Sal 85
Rm 8,26-27
Mt 13,24-43

In mezzo al grano cresce e matura la zizzania… chi l’ha seminata? Dietro un semplice racconto che parla di campi e di sementi è nascosto il segreto del nostro mondo e del Regno di Dio.
Quella del grano e della zizzania è la parabola che più di tutte apre il cuore alla prospettiva futura, alla vittoria finale del bene sul male, anche se il male è tanto avvolgente. Nessun campo è al riparo dalla zizzania. È ingenuo voler tracciare una linea di demarcazione: fuori i cattivi/dentro i buoni, oppure immaginare che saremo liberi, dentro di noi, dalla cattiveria, che non avremo fallimenti, che non incontreremo motivi di dolerci… Ci sono bellezza e sporcizia, amore e odio…
Può darsi che Gesù abbia tratto ispirazione per comporre questa parabola da un banale episodio di gelosia fra contadini o forse, più verosimilmente, dalla insoddisfazione di qualcuno dei suoi discepoli. Chi di noi è esente da amarezze? E forse c’è anche il tocco dell’evangelista Matteo, che vuole prevenire i delusi che, non vedendo sfolgoranti trionfi del Regno di Dio, ma solo i suoi umili inizi, le sue modeste performance, la sua scarsa incidenza, sono tentati di gridare al fallimento.
Punto focale della parabola è il contrasto tra il modo di reagire dei servi e quello del buon coltivatore. I servi propongono una soluzione radicale: cavar via subito la zizzania. Il padrone lascia, invece, che il bene e il male crescano insieme. Solo alla fine trionferà il bene, ma dovrà farsi strada nella libertà. L’impazienza messianica dei giusti pretende che subito, già ora, il Regno di Dio nella sua fase terrena coincida con una comunità di perfetti, separata dai peccatori, ben arroccata nella “cittadella dei buoni”.
Succede anche a noi con noi stessi di essere impazienti, intolleranti. Gesù, ai servi che vogliono estirpare la zizzania, risponde: «No, perché non succeda che, cogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano». Ci deve essere, dunque, rassegnazione al dilagare del male? No, il male è male, il bene è bene. Ma non ci devono essere intolleranze. Con questo non si tratta di negare la zizzania, ma ricordare che Dio vuole debellare la malattia e salvare il malato. Il Signore sradicherà la zizzania, ma solo alla fine – dice la parabola –, dopo averle provate tutte per redimerla. Il Padre vuole salvare tutti i suoi figli e ognuno, se si lascia toccare dalla sua Parola, può entrare fra quei giusti che «splenderanno come il sole nel Regno». Dunque, con una buona coltivazione la zizzania può diventare buon grano. È stato così per Zaccheo, per la Maddalena, per la Samaritana, per san Paolo, perfino per il ladrone crocifisso accanto a Gesù… Perché non potrebbe essere così anche per la nostra comunità e per ciascuno di noi?
Se la parabola evangelica insiste tanto sulla pazienza, noi possiamo applicare questo atteggiamento all’incontro fra le generazioni, un suggerimento fondamentale per questa Giornata dei nonni e degli anziani. Per i giovani in partenza per la GMG e per i nonni identico il messaggio: «Per meglio accogliere lo stile dell’agire di Dio ricordiamo che il tempo va abitato nella sua pienezza, perché le realtà più grandi e i sogni più belli non si realizzano in un attimo – c’è la logica del buon grano e della zizzania – ma attraverso una crescita e una maturazione. Il progetto di Dio attraverso il passato, il presente e il futuro, abbraccia, mette in collegamento, le generazioni» (Messaggio di Papa Francesco per la III Giornata Mondiale dei nonni e degli anziani). Il tema che il Papa ha assegnato a questa Giornata è un versetto del Magnificat (il canto di Maria nel momento dell’incontro fra lei, la giovane fanciulla di Nazaret, ed Elisabetta, la cugina ormai anziana, in gravidanza ai tempi supplementari): “Di generazione in generazione la sua misericordia”. E’ la stessa icona che papa Francesco mette davanti ai giovani.

Ripercorro un testo del cardinale Martini, arcivescovo di Milano e grande studioso della Bibbia, che riferisce e commenta un proverbio indiano che parla di quattro stadi nella vita dell’uomo. Il primo stadio è quello nel quale si impara; nel secondo si insegna e ci si mette a servizio degli altri, mettendo a disposizione ciò che si è imparato; nel terzo si va nel bosco: è lo stadio del silenzio, della riflessione, del ripensamento. «Credo che quando si aprirà per me il terzo stadio – scrive il Cardinale – ritirandomi nel bosco potrò ripensare e riordinare con gratitudine tutte le cose che ho ricevuto, le persone che ho incontrato, gli stimoli che mi sono stati dati e che non hanno avuto l’opportunità di essere elaborati». Il quarto stadio è molto significativo per la mistica e per l’ascesi indù, ma anche per noi: in esso si impara a mendicare. È il tempo in cui si impara la mendicità: è lo stadio del dipendere dagli altri. Saper essere mendicanti, accettare di aver bisogno degli altri è la povertà radicale ed è il sommo della vita ascetica. «È lo stadio del dipendere da altri, quello che non vorremmo mai, ma che viene, al quale dobbiamo prepararci» (C.M. Martini, Discorso alla Fondazione Ambrosianum, 17 maggio 2002).
Concludo invitando tutti a pregare per noi anziani, per tutti i nonni, mentre assicuriamo la preghiera per i ragazzi e per i giovani: ci incontreremo in questo abbraccio ideale tra Maria ed Elisabetta, un abbraccio che può diventare concreto in questi giorni, incontrandoci e donando ognuno il meglio, da una generazione all’altra.

Discorso nel conferimento della cura pastorale delle parrocchie di Mercatino Conca e di Monte Cerignone a don Sante Celli

Mercatino Conca (PU), 22 luglio 2023

XVI domenica del Tempo Ordinario

Sap 12,13.16-19
Sal 85
Rm 8,26-27
Mt 13,24-43

La parabola racconta di un uomo che ha seminato del grano buono nel suo campo. Il Seminatore sei tu, Signore. Il campo è il mondo. Tuo campo sono gli uomini. Tuo campo è il nostro cuore. Tu non sei soltanto il Seminatore, ti sei fatto coltivatore. Questo è per noi motivo di fiducia. Tu sei il Signore di questo mondo e dei nostri cuori.
Diventando uomo in mezzo a noi, sei venuto come coltivatore del tuo campo per portarlo a produrre frutti buoni. E tu, Signore, ci vuoi associare al tuo lavoro, vuoi fare di noi tuoi collaboratori. Allora, l’importante per compiere bene l’opera che ci affidi è avere fiducia in te, totalmente. Tu conosci meglio di noi il campo, conosci l’opera da compiere e conosci noi, tuoi collaboratori.
C’è zizzania nel campo, Signore. Tu sei un coltivatore realista, concreto, tu sai che nella creazione non c’è un terreno perfetto. Solo Dio è perfetto. Tu, Signore, non ti stupisci di scoprire che c’è zizzania. Ci inviti a condividere la tua pazienza, ad accettare la zizzania che vediamo negli altri, che forse è la più sopportabile, ma anche la zizzania che è in noi e che ci è insopportabile: sono i nostri limiti, i nostri sbagli, le nostre miserie. Ci fai entrare nell’amore di un Padre che è paziente e vuole che tutti arrivino alla conversione. Con una buona “agricoltura” la zizzania può diventare buon grano. È stato così per Zaccheo, per Maria di Magdala, che oggi festeggiamo, per la Samaritana, che aveva cinque mariti ed è diventata apostola del Vangelo, per il buon ladrone, per san Paolo… perché non potrebbe essere così anche per noi?
Ti preghiamo, Signore, per don Sante, che inizia oggi il suo ministero in Val Conca, a Mercatino Conca e a Monte Cerignone. Tu che lo hai scelto e voluto come tuo collaboratore e sacerdote nel campo della Chiesa e nella “squadra presbiterale” di questa cara Diocesi, dagli forza, coraggio, fiducia.
Ti preghiamo per don Marino e don Erminio; con il loro passaggio ci hanno fatto capire che solo tu sei il Buon Pastore; noi sacerdoti ti abbiamo dato il nostro cuore, la nostra intelligenza, le nostre mani e i nostri piedi per essere al tuo servizio, ma sei tu il Buon Pastore.
Benedici le comunità da cui don Sante proviene, comunità alle quali il Signore ha già provveduto ad inviare un nuovo pastore e alle quali tu, Signore, farai sentire la tua tenerezza.
Ti preghiamo, Signore, per le comunità cristiane della Val Conca, che si avviano – sono pioniere in questo – a costituire una vera unità pastorale.
Rendici docili, fa comprendere a tutti noi sacerdoti, religiosi, laici, le nuove sfide davanti alle quali tu, Signore, poni la tua Chiesa.
Il campo è il tuo campo, tu vegli su di lui. Il seme è il tuo seme e questo per noi è motivo di fiducia. E noi? Noi siamo tuoi e questo ci basta. Così sia.

Omelia nella XV domenica del Tempo Ordinario

Basilica di Santa Maria di Piè di Chienti (MC), 16 luglio 2023

Is 55,10-11
Sal 64
Rm 8,18-23
Mt 13,1-9

Il diacono ha letto la forma breve della lettura liturgica del Vangelo di oggi: non per brevità, ma per concentrarci nella prima parte del testo, dove il protagonista è il Seminatore, Gesù (nella seconda parte – spiegazione della parabola – è il seme).
Permettetemi due premesse. Se fossimo dei contemporanei di Gesù rimarremo colpiti dal verbo “uscire”. Per gli ebrei il verbo “uscire” aggregava tanti riferimenti e pensieri: principalmente il pensiero dell’esodo, l’uscita dalla schiavitù verso la libertà, verso la terra promessa. Se sfogliamo il libro della Sapienza, troviamo l’allusione all’uscita del Verbo di Dio che diventa creazione. Gesù – ci fa capire l’evangelista Matteo – è tutt’altro che un “casalingo” (anche se è stato trent’anni a Nazaret per vivere le nostre giornate). Ci viene “raccontato” come colui che “esce” e “incontra”. Prima ancora sappiamo che Gesù è uscito dal seno del Padre e si è incarnato: questa è la sua “grande giornata”. Gesù –racconta l’evangelista – “quel giorno” esce di casa, si dirige verso il lago e comincia a seminare: è il ritratto di Gesù, il Seminatore.
Seconda premessa: Gesù è andato sulla barca. La barca dà l’idea dell’insicurezza; sulla barca si traballa, ci si affida, in fondo, ad un guscio di noce che galleggia. Gesù sale sulla barca, accetta la sfida di questo tipo di “uscita”. La gente, invece, sta sulla terraferma, con i piedi ben piantati, alla ricerca di sicurezza. Gesù questa mattina dice: «Fidati di me». Ognuno di noi ha nel cuore qualche decisione da prendere, qualche discorso avviato con se stesso e da concludere. Il Vangelo ci sta dicendo: «Non avere paura, non restare a tutti i costi sulla terraferma, fidati di Gesù, non ti lascerà andare a picco. Ascoltalo e seguilo».

Quella mattina, sulle rive del lago di Galilea, c’è tanta gente attorno a Gesù. Molti sono lì per curiosità, alcuni lo ascoltano distrattamente, qualcuno non si lascia toccare dal suo insegnamento; c’è anche chi pensa: voglio vedere se dice cose giuste oppure se c’è un appiglio per contestarlo. C’è anche il volto raggiante dei Dodici apostoli che hanno lasciato tutto per lui, hanno lasciato la terraferma e le sue sicurezze, per stare con il Maestro.
La parabola che Gesù racconterà tiene conto della varietà dei suoi ascoltatori. Gesù parla di molte cose in parabole; gli apostoli ne sono stupiti e chiedono spiegazione. Gesù risponde che, quando ha parlato senza veli, tante persone sono rimaste sulla difensiva: «Pur udendo non odono e non comprendono…». Allora prova con le parabole: chissà che non comincino a riflettere, ad interrogarsi, attirati dal racconto. Le parabole sono una forma di comunicazione volta a scalfire i cuori, a creare stupore e domande in chi ascolta. Quelle che racconta Gesù sono parabole a volte paradossali. Mio padre, ad esempio, quando tornava dalla Messa domenicale, dopo aver ascoltato il commento del parroco, talvolta non era d’accordo con Gesù, soprattutto con la parabola degli operai dell’ultima ora pagati come quelli della prima, oppure con quella del figliuol prodigo… Era bello che mio papà uscisse di chiesa con delle domande, con del disappunto: la parabola aveva funzionato, perché aveva creato – come si dice in linguaggio calcistico – un tackle, un contrasto. La parabola deve interrogare, smuovere, far prendere posizione: è performativa.
Gesù, nel tentativo di aprire i cuori ai misteri del Regno, usa appunto il metodo parabolico. La prima parabola che racconta – ne leggeremo sette nel mese di luglio – viene detta “la parabola del seminatore”. È un autoritratto: è Lui che semina la Parola con generosità, senza risparmio né calcolo, pur vedendo che gran parte del seme va perso sulla strada, sul terreno sassoso, sui rovi, ma anche sulla terra buona. Io, ciascuno di noi, siamo contemporaneamente strada, terreno sassoso, ciglio del campo su cui crescono i rovi e terra buona… Anche la Chiesa di oggi è terra buona, terreno sassoso, campo con le spine, strada, ma Gesù le affida il seme della sua Parola. Così è questo nostro tempo… Ma il Seminatore c’è ancora. Consideriamo i fiumi di Eucaristia che scorrono ad irrorare questo nostro tempo. Così ci fa pregare un Salmo: «Un fiume e i suoi ruscelli rallegrano la città di Dio» (Sal 46,5). L’Eucaristia è la grande risorsa della Chiesa. Attraverso l’Eucaristia – tema per il nostro cammino – il Signore continua a seminare del “buon grano”, con abbondanza e prodigalità. Anche se il mondo non se ne accorge… Se la Chiesa si propone di mettere l’Eucaristia al centro e sta in adorazione del suo Signore, offre la testimonianza più necessaria, più utile e più bella. Si potrebbe pensare anche a quanta seminagione vada perduta… La seminagione piena di frutti deve passare anche attraverso il mistero del rifiuto, il mistero che è dentro di me, nella Chiesa e nel nostro tempo. «Signore, rendi solidi la nostra fede e l’amore dei nostri cuori così instabili e fragili. Trasforma in cuori di carne i nostri cuori di pietra» (Ez 11,19). «Signore, aiutaci a cogliere i semi del Verbo – come dicevano gli antichi Padri – che sono sparsi dappertutto. Rendici consapevoli di quanto il mondo sia gravido della tua seminagione». Le filosofie e le religioni contengono i semi del Verbo. Ci fu una stagione meravigliosa nella storia della Chiesa in cui la comunità cristiana sentiva la missione di far sbocciare questi semi, cioè l’urgenza ad inculturare il Vangelo.
Grazie Gesù! Entriamo nella settimana con la certezza che tu sei Seminatore infallibile. Anche noi dobbiamo seminare: guai avvilirsi! Così devono sentire i genitori, gli insegnanti, le forze dell’ordine: continuare a seminare per il meglio di tutti noi. Così sia.

Omelia nella XIV domenica del Tempo Ordinario

Pennabilli (RN), Cappella del Vescovado, 9 luglio 2023

Zc 9,9-10
Sal 144
Rm 8,9.11-13
Mt 11,25-30

Questa pagina evangelica è chiamata “la perla del Vangelo di Matteo”. È un inno di gioia ed una grande preghiera di Gesù. Per comprenderla bene occorre collocarla nel contesto. Gesù si trova in un momento critico: le città del lago dove ha svolto la sua attività apostolica cominciano a prendere le distanze; i sapienti, l’intellighenzia, coloro che presumono di avere la conoscenza di Dio e delle Scritture sono in difficoltà con Gesù e Lui è in difficoltà con loro. Gli scribi e i farisei hanno la pretesa della conoscenza, ma non entrano in sintonia con Gesù; invece, con meraviglia, si trovano in sintonia con Gesù i piccoli, i semplici, gli umili. Cosa significa essere piccoli, semplici, umili? Gesù ha presente – anche se l’evangelista Matteo non lo dice esplicitamente (Matteo legge e racconta la vicenda di Gesù avendo l’Antico Testamento come background) – i testi dell’apocalittica e i testi sapienziali. Per quanto riguarda l’apocalittica, Gesù ha presente il libro di Daniele; Daniele è un piccolo che, insieme ai suoi compagni di cattività al tempo di Nabucodonosor, custodisce l’Alleanza. Nabucodonosor fa un sogno misterioso; convoca a corte i sapienti, ma non riescono ad interpretare e a decifrare il sogno. Sarà il piccolo Daniele a svelare a Nabucodonosor il suo significato. Ed è in quel momento che il profeta esplode in un inno di giubilo: non è la sua scienza personale che gli ha consentito l’interpretazione, ma quel sogno è stato rivelato in lui dalla sapienza di Dio (cfr. Dn 2,1-23): «Sia benedetto il nome di Dio di secolo in secolo, perché a lui appartengono la sapienza e la potenza».
Una cosa analoga accade a Ben Sira, autore del libro del Siracide, un libro sapienziale importante nella Bibbia, che parimenti si conclude con un inno di giubilo: «Il Signore mi ha dato in ricompensa una lingua con cui lo loderò. Avvicinatevi voi che siete senza istruzione, prendete dimora nella mia scuola. Ho aperto la bocca e ho parlato: “Acquistate la sapienza senza danaro. Sottoponete il collo al suo giogo, accoglietene l’istruzione. Essa è vicina e si può trovare. Si diletti l’anima vostra della misericordia del Signore; non vogliate vergognarvi di lodarlo» (Sir 51,22-30). Parole analoghe a quelle pronunciate dal profeta Daniele e riecheggianti nell’inno di giubilo pregato da Gesù.
Gesù entra in questa dimensione; allora comprendiamo il suo prorompere nella gioia: Gesù è felice perché il Padre gli ha rivelato i segreti del Regno; vede che attorno a lui ci sono tanti posti vuoti; gli han girato le spalle i presuntuosi, i sapientoni, quelli che pensano di sapere tutto. Quei posti vuoti adesso sono occupati dai piccoli che accorrono a lui.
Chi sono i piccoli? Che cos’è il giogo di cui stiamo parlando?
I piccoli non sono di per sé le persone semplici e popolane e non sono neppure i poveri in senso sociologico, ma sono coloro che davanti al Signore Dio hanno un cuore umile, aperto e disponibile. Sono i piccoli di cui Gesù ha parlato nelle beatitudini: «Beati i poveri in spirito, beati i miti, beati i puri di cuore…» (Mt 5,3). Il prototipo dei piccoli è Gesù, il piccolo per antonomasia, piccolo perché ha un cuore aperto, spalancato, alla conoscenza del Padre. Al tempo di Gesù c’era una corrente spirituale che veniva chiamata degli “anawim”, i “poveri di Jahvè”. A questo gruppo appartengono Zaccaria, Elisabetta, Anna, Giuseppe… e soprattutto Maria di Nazaret. Sono coloro che si aspettano tutto dal Signore e confidano in Lui.
Il giogo è uno strumento che viene usato anche nelle nostre campagne, dove i buoi si inerpicano sulle colline con l’aratro (ormai è raro vederli perché sono sostituiti dai trattori).
Quella del giogo è una metafora ambivalente. Per giogo si intende qualcosa di opprimente, che imprigiona le spalle e il collo e costringe alla fatica. Gesù l’adopera in questo senso negativo per riferirsi al legalismo dei sapienti del suo tempo, che imponevano leggi e precetti, che percorrevano la terra per fare proseliti e mettevano addosso ai fedeli pesi che loro non erano capaci di portare (cfr. Mt 23,15). Ma c’è anche un altro significato: il giogo come ciò che stanca. Stanca vivere con l’ansia di produrre performance spirituali; ti stanchi quando ti senti in gara, quando davanti a Dio rincorri la sua riconoscenza, quando ti confronti con gli altri e vuoi essere migliore, quando vorresti che la tua vita fosse più significativa della vita di un altro e, se vedi qualcuno realizzato, ti spunta nel cuore l’erba amara dell’invidia e della gelosia. Comprendiamo allora quando Gesù dice: «Prendete il mio giogo, il mio giogo è leggero… Mettetevi come me in relazione col Padre, diventate piccoli, non preoccupatevi delle vostre prestazioni, preoccupatevi invece che il vostro cuore sia aperto, umile, semplice, perché Dio non fa il computo ragionieristico degli atti obbedienti, vuole un cuore obbediente». Questo è riposante, questo è entrare nella mentalità di Gesù.

Riassumo il significato di questa pagina evangelica attorno a tre parole: gioia, rivelazione, riposo.
Gioia. Nei Vangeli non troviamo un Gesù che ride… però Gesù è gioioso. Oltre all’esplosione di gioia testimoniata in questa pagina di Vangelo: «Ti lodo, Padre, perché hai nascosto queste cose ai presuntuosi e le hai rivelate ai piccoli», incontriamo la gioia di Gesù quando partecipa al banchetto degli sposi di Cana, quando abbraccia i bambini, quando, nella casa di Simone il lebbroso, si fa profumare i piedi dalla donna peccatrice… È una gioia che viene da dentro e che viene dallo Spirito. In questo l’evangelista Luca è molto esplicito: è proprio nello Spirito che Gesù esulta ed è pieno di gioia. Come la preghiera di Gesù, la nostra preghiera dovrebbe aprirsi sempre con un inno di giubilo, perché ci è stato rivelato chi è Dio e chi siamo noi in relazione con lui. Lui è Padre e noi siamo figli. Si è detto più volte che la vocazione più grande – non si può pensarne un’altra maggiore – è la vocazione ad essere figli: ecco il motivo della gioia. Sapere che nulla accade – anche le cose che non ci piacciono, che ci fanno soffrire, che non sono giuste – senza il Padre: non sei solo, non sei abbandonato.
Rivelazione. Se io sono figlio e lui è il mio papà siamo nella luce; a volte il Signore permette anche il buio, per ingaggiare un gioco d’amore nel quale si nasconde per farsi cercare e darci di lui qualcosa di nuovo e di ancora più bello.
Riposo. Quando vivi la fede ed esprimi la religiosità in questo modo, non c’è niente di tetro, di chiuso, di inibente; il cuore si allarga e può riposare: «Solo in Dio riposa l’anima mia» (cfr. Sal 62,2).
Auguro a tutti, in questo periodo estivo, di vivere il riposo nel Signore.

Omelia nella XIII domenica del Tempo Ordinario

Pennabilli (RN), Monastero della Rupe, 2 luglio 2023

Celebrazione conclusiva della Summer school “Lab.Ora. Lavorare e Lavorarsi”

2Re 4,8-11.14-16
Sal 88
Rm 6,3-4.8-11
Mt 10,37-42

«Un giorno Eliseo passava per Sunem, ove c’era un’illustre donna che lo trattenne a mangiare». Anche noi siamo degli “intrattenuti”. Non solo perché le sorelle agostiniane ci hanno invitato a vivere questi giorni con loro, ma perché Gesù «ha preparato per noi una mensa di fronte ai nostri nemici» (cfr. Sal 22). È talmente grande il suo dono che dobbiamo rallegrarci e soprattutto ringraziare. Siamo degli “intrattenuti” a mangiare con il Signore! Rendiamo grazie per tutto quello che lui opera in noi. Circa tre settimane fa – lo dico per chi non appartiene a questa Diocesi – abbiamo fatto un grande convegno diocesano dove era bandito il “parlare di noi”: si poteva parlare di noi, delle nostre comunità, soltanto per raccontare quello che il Signore era andato facendo in ciascuno di noi e nelle comunità. Il Signore è un grande “operaio” e fa con la “materia” che ha, che siamo noi. Tuttavia, può fare dei capolavori: vedo della santità attorno a me!
Sono andato in una parrocchia in un pomeriggio molto caldo: in chiesa ho trovato un parroco giovane, che ha studiato a Roma, mentre pregava il Rosario con sei-sette persone. Mi ha commosso. Quel sacerdote giovane, che lavora molto, ha saputo sostare in preghiera con quelle persone. Aveva “scelto la parte migliore”, che non lo sottraeva, successivamente, agli altri impegni. Lavoro sì, ma senza esserne fagocitati. Lavoro e libertà.
Il brano evangelico proclamato oggi è durissimo. La redazione di Luca è ancora più forte. Ricordo che, a Ferrara, era venuto Rinaldo Fabris, un grande biblista morto alcuni anni fa. Era un sacerdote piccolo di statura, ma incantava quando faceva qualche lezione. Una volta aveva approfondito una pagina analoga, ma nella redazione dell’evangelista Luca. Ad un certo punto si alzò un professore universitario e disse: «Don Rinaldo, che genere letterario è questo?». Rinaldo Fabris si alzò in piedi – si fece un grande silenzio – e disse semplicemente: «Gesù ha parlato proprio così». Perché queste espressioni così dure? Penso a tanti fratelli sacerdoti che, questa mattina, nelle chiese cercheranno di dimostrare che Gesù non è contro gli affetti familiari, contro le relazioni, contro le esperienze che catturano la nostra vita, come il lavoro. Il lavoro ti prende, soprattutto se è un lavoro che ti piace, nel quale esprimi la tua creatività e se ti stanno a cuore le persone per cui lavori, che rendono bello e atteso il lavoro stesso. Il rapporto con Gesù si colloca all’interno di relazioni di questo tipo: Gesù parla volentieri del rapporto tra padre, madre, figlio, figlia, sposo, sposa, fratello, sorella… per dire che la relazione con lui non è una teoria o una cerimonia, ma una relazione vera. È chiaro che è un modo iperbolico di esprimersi: Gesù non chiede di amare “di meno”, ma “di più”. Ad esempio, nell’architettura della vita succede che una ragazza, che ama alla follia la propria famiglia, incontra un ragazzo che gli rapisce il cuore. Non è che non ama più la sua mamma o il suo papà, ma accade, in quella ragazza, qualcosa di diverso. Gesù approva l’amore per il fratello, la sorella, la mamma, i figli, un amore che induce a dare la vita: non chiede una sottrazione… Faccio un altro esempio: quando mio fratello Silvio, paraplegico, partiva per la missione in Congo era un momento straziante per la nostra famiglia. Noi eravamo “pieni” della relazione con Silvio; persino il postino era coinvolto: quando arrivava la lettera di Silvio dall’Africa, il postino veniva immediatamente a casa nostra. Ebbene, nell’architettura del Regno di Dio Gesù ha questa pretesa: vuole una relazione d’amore che comprende e allarga l’orizzonte all’infinito. Rinaldo Fabris direbbe: «Ha detto proprio così».

Poi Gesù aggiunge: «Chi non prende la propria croce…». Qual è la mia croce? Si possono dare un’infinità di interpretazioni… Alcuni esegeti pensano sia un detto che Gesù non possa aver usato (Erode il Grande aveva abolito la crocifissione; Gesù è stato crocifisso proprio nel momento storico in cui è stata reintrodotta questa forma di condanna). Forse è un detto della comunità primitiva per dire l’eventualità reale della persecuzione. Può essere che Gesù pensasse ad Isacco caricato della croce, cioè della legna sulla quale sarebbe stato immolato (cfr. Gn 22,6). Altri esegeti ritengono che Gesù pensasse al testo di Ezechiele (cfr. Ez 9,4) in cui si dice che, nel momento del grande giudizio, a Gerusalemme ci sarebbe stato uno scriba vestito di bianco che sarebbe passato con uno stilo per tracciare un “tau” sulla fronte di coloro che si sono mantenuti fedeli (il “tau” è una lettera dell’alfabeto ebraico a forma di croce). Gesù chiede al suo discepolo di prendere il “tau” dell’affidamento: «Signore, noi ci affidiamo, tu ci hai invitati alla tua mensa».
Penso alla croce anche in termini più personalistici: la croce è quello che non mi va di me, che mi fa vergognare di me, che vorrei scaricare dalle mie spalle, ma che fa parte di me. Gesù vuole che io vada dietro a lui con la mia croce, con quello che sono, come sono. Allora dico: «Va’ con lui, prendi la tua croce e seguilo. Se fai così, diventerai degno di lui».

«Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa». Un bicchiere d’acqua fresca che ristori. Tante persone ce lo offrono: dobbiamo avere gratitudine per chi lavora per noi. Anche le cose pubbliche sono un dono. «Grazie, Signore, per il bicchiere d’acqua che ci offri con la cultura, l’arte, il lavoro. A nostra volta prendiamo il lavoro come un atto d’amore. Si lavora per amore.