Omelia nella III domenica di Quaresima

Savignano Monte Tassi, 24 marzo 2019

Visita Pastorale nella parrocchia di Savignano Monte Tassi

Es 3,1-8.13-15
Sal 102
1Cor 10,1-6.10-12
Lc 13,1-9

Siamo stati messi di fronte a tre intense pagine delle Sacre Scritture. Per la meditazione scelgo una frase da ognuna delle tre.
La prima che mi ha colpito, può sembrare a prima vista secondaria. Il Signore parla a Mosè dal roveto ardente: «Andate verso una terra dove scorrono latte e miele» (Es 3,8). Proviamo a metterci nei panni dei beduini del deserto che sono appena riusciti a spezzare le catene della prigionia egiziana e sono incamminati verso una terra che non conoscono. Erano passati quattrocentocinquant’anni di esilio e veniva promessa loro «una terra dove scorrono latte e miele». Si trovavano in mezzo al deserto con serpenti e scorpioni, assetati e con il vento che sollevando la sabbia sferza il volto. Mosè ripete ancora una volta: «Il Signore ha detto che vi porterà in una terra in cui scorrono latte e miele». Questa parola viene da un roveto ardente, che brucia senza consumarsi. La Bibbia ci lascia intendere che si tratta di un fatto straordinario. Mosè si avvicina al roveto ardente, sente una voce: «Togliti i sandali, sei su una terra santa!» (Es 3,5).
Che cos’è il roveto ardente per noi oggi? E che cos’è «la terra dove scorrono latte e miele»?
Il roveto ardente che brucia senza consumarsi è l’altare della vostra parrocchia, dove ogni domenica si celebra la divina Eucaristia. Nell’Eucaristia è racchiusa la dichiarazione d’amore che non dovrebbe mai diventare abitudine per noi cristiani.
Papa Francesco ha riassunto al n.164 dell’Esortazione Apostolica Evangelii gaudium il succo di quello che viene detto attraverso questo segno, quello che noi chiamiamo – e nella nostra Diocesi di San Marino-Montefeltro è una parola che è tornata quest’anno in tutte le assemblee – il kerygma. Non è una sigla, è una parola greca che sintetizza l’essenziale del cristianesimo. Papa Francesco, nel documento Evangelii gaudium l’ha tradotta con un linguaggio attuale in questo modo: «Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno per illuminarti, per rafforzarti, per liberararti». Questo è il kerygma, l’annuncio. I primi cristiani, quando arrivava un apostolo (ad esempio Sant’Andrea quando andava in Grecia o San Bartolomeo nelle Indie o San Pietro a Roma), chiedevano di raccontare di Gesù. I primi discepoli chiedevano: «Che cosa dobbiamo fare per diventare di Gesù?». A tutti veniva detto: «Credi all’amore di Gesù, ricevi il Santo Battesimo, perché nel Battesimo ti unisci a Gesù che muore e risorge». Una dinamica di morte e risurrezione che deve continuare. L’apostolo Giovanni ci ha lasciato una frase fulminante che è la risposta al kerygma: «Anche noi passiamo dalla morte alla vita, anche noi facciamo un esodo come il popolo nel deserto, dalla condizione di schiavitù a quella di libertà verso la terra dove scorrono latte e miele, perché amiamo i fratelli» (cfr. 1Gv 3,14). Ecco l’esodo. Tutto scaturisce da qui, da questa dichiarazione d’amore che, come ogni dichiarazione d’amore, è qualcosa di straordinario.
C’è un’urgenza: quella della nostra conversione. Il Vangelo racconta che sono andati da Gesù a dirgli: «Signore, hai saputo la disgrazia?». Era crollata una torre e diciotto persone erano morte sotto le macerie. Poi, in Galilea, al Nord, ci fu una rivolta. Pilato aveva mandato le truppe a sedarla, ma ci furono morti. In mezzo ai facinorosi morirono anche altre persone che non c’entravano. Ecco la domanda a Gesù: «Erano grandi peccatori quelli che sono caduti sotto la torre?» (cfr. Lc 13,2). Gesù spiega che Dio non manda le disgrazie, non si devono collegare in questo modo peccato e castigo: «Vi state sbagliando. Parlate di quei diciotto, ma quello che è avvenuto riguarda voi». Intendeva dire che bisogna vivere quello che succede come un appello a noi stessi, un appello alla conversione. Se suona una campana a morto non chiederti per chi suona, suona per te (H. Hemingway). I suoi rintocchi sono altrettanti inviti alla conversione. Primo messaggio: urgenza della conversione. Accogliamo l’invito non come una minaccia, ma come un’opportunità: secondo messaggio. Il Signore ci dà tutto il tempo perché possiamo convertirci, come nella mini-parabola del fico che non dà frutti. Il padrone del fico vorrebbe tagliarlo, ma il suo collaboratore lo invita ad aspettare. «Tornerò a zappare la terra d’intorno, a mettere il concime e a aspettiamo un altro anno… ». Così fa il Signore con noi. Ecco la Quaresima. Iniziamo a preparare la Confessione di Pasqua, per sentire e gustare il perdono del Signore. Mettiamoci davanti ai nostri doveri verso Dio, verso il prossimo e verso noi stessi. Che sia davvero una Pasqua di risurrezione. Così sia!

Omelia II domenica di Quaresima

Pennabilli (Cappella del Vescovado), 17 marzo 2019

Gen 15,5-12.17-18
Sal 26
Fil 3,17- 4,1
Lc 9,28-36

Siamo all’inizio del cammino quaresimale. Destiniamo ai nostri fratelli, nella realtà del corpo mistico, i frutti dell’unione con Dio: preghiera, impegno, sacrifici, vittorie. Quando ne abbiamo l’occasione, condividiamo ispirazioni, pensieri, esperienze spirituali. Possiamo contare sulla grazia di Cristo, sull’ intercessione della Vergine e dei santi. Possiamo godere della generosità dei nostri fratelli che, insieme a noi, vivono questo tempo di grazia: la Quaresima è un cammino e un combattimento che si fa insieme; assomiglia all’esodo del popolo di Dio verso la terra promessa.
Questa settimana, la seconda, brilla davanti a noi l’icona della Trasfigurazione. Gesù manifesta la sua gloria mentre prende la decisione di salire a Gerusalemme, dove sperimenterà la sua umana debolezza, la solitudine, il rifiuto e l’abbandono. È lì, paradossalmente, che appare il suo splendore. Una lezione importante per noi che non sappiamo vivere bene i passaggi difficili e oscuri. Ci sono momenti in cui ci sentiamo “fatti male”; siamo insoddisfatti e portati a rammaricarci e ad essere tristi. Indugiamo nel negativo e perdiamo tempo a “leccarci le ferite”, seminando attorno a noi malumore. C’è una risorsa sulla quale possiamo contare: vederci come Dio ci vede, con la stessa tenerezza. Accade nella nostra vita qualche cosa di straordinario, che può essere rappresentato dalla metafora del bruco che abbandona il suo bozzolo per librarsi in volo come farfalla.
In una recente Confessione, dopo il saluto del confessore, apro l’accusa dei peccati con queste parole: «Ecco che cosa c’è nella mia vita…». Il confessore mi ferma subito: «Ma c’è il Signore nella tua vita». Lo dice con una tale convinzione che mi fa trasalire e guardare la mia vita con la tenerezza di Dio. Devo confessare prima di tutto che sono amato! «La trasfigurazione – scrive Silvano Fausti – comincia quando, invece di pensare e ascoltare noi stessi, ascoltiamo lui e pensiamo a lui. È la morte dell’uomo vecchio e la nascita dell’uomo nuovo».

Omelia nella Celebrazione eucaristica nella Giornata di digiuno e preghiera per la protezione dei minori

Valdragone (RSM), 13 marzo 2019

Gio 3,1-10
Sal 50
Lc 11,29-32

  1. Grazie

Grazie per aver accettato l’invito a vivere insieme e in tanti questa serata di preghiera e digiuno per le vittime degli abusi e per una cultura del rispetto.
Siamo qui per dire forte che i bambini, i ragazzi, le persone fragili sono pupilla dei nostri occhi.
Siamo qui per ricordare il 6° anniversario dell’elezione di papa Francesco: a lui vogliamo arrivi la nostra unità e il nostro impegno nella linea da lui tracciata. Senza esitazione.
Siamo qui davanti al Cuore Immacolato di Maria per aprire il nostro cuore colmo di amarezza per il dolore di chi ha sofferto e soffre a causa degli abusi, per lo scandalo che patiscono quanti vedono venir meno la fiducia nella Chiesa, per l’umiliazione subita dalle comunità cristiane e da tanti che in esse sono impegnati (vescovi, sacerdoti, consacrati e laici).

2.

La Parola di Dio, questa sera, ci viene incontro, ci fa rialzare il capo, ci mette nella verità.
Giona, il profeta, prima timido e titubante, prende coraggio e sale verso Ninive a denunciare il male e ad invitare a conversione. Ed è per la forza della Parola scesa su di lui che proclama: «Ancora quaranta giorni e Nìnive sarà distrutta», ma ne basteranno molti meno. In capo al terzo giorno Ninive si converte. Come è stato per Giona, così per noi: la denuncia di chi ha avuto coraggio, l’ascolto e la decisione di papa Francesco.
La nostra denuncia si rivolge a tutta la società, al mondo e agli uomini di Chiesa che hanno tradito la loro missione. Ma nella denuncia è contenuta la forza della misericordia e della speranza.

3. Penitenza e conversione

La penitenza e il digiuno producono un frutto buono per gli abitanti di Ninive: la conversione. Penitenza e digiuno sono spesso pratiche dimenticate. Eppure, esprimono, insieme all’anelito verso Dio, libertà e forza interiore (ascesi), rendono forte il nostro spirito, e soprattutto ci fanno partecipi del dolore altrui: «Quando un membro soffre, tutte le membra soffrono con lui». Nel digiuno e nella preghiera si sbriciola la trave che è nell’occhio e allora c’è luce per un giudizio che salva. Interessante notare che penitenza e digiuno a Ninive non sono praticati solo dal re o da una cerchia ristretta, ma da tutta la città: «Uomini e animali, armenti e greggi… ». La Parola di Dio sembra dirci che l’invito a conversione riguarda tutti. Va risolto dal popolo intero. Occorre pertanto una risposta corale come Chiesa e come persone di buona volontà: richiesta di perdono, ma anche proposta di un’alternativa positiva nelle relazioni, nella società, nella Chiesa.
Nel momento in cui c’è il riconoscimento dell’errore, l’atto di penitenza e il digiuno interviene il Signore con la sua Misericordia, come accadde con Davide. E si mette una base solida ad un nuovo stile di vita e ad una nuova cultura.

 

4. Accompagnare sempre

«Crea in me, o Dio, un cuore puro e rinnova in me uno spirito saldo» (Sal 50,12). È una Parola particolarmente forte per noi questa sera. Nella società di oggi sembra che il cuore puro ognuno se lo possa dare da sé. In realtà, il peccato uccide: «Siamo morti a causa del peccato» (cfr. Rom 6,23; Ef 2,1). La vita viene da Dio. Nell’orgoglio di farsi la vita propria non c’è spazio per il perdono; è stato così per Giuda che ha rifiutato anche l’ultima offerta, mentre Ninive ascolta Giona e si converte. A Ninive è arrivata la salvezza perché si è ascoltato anche chi diceva cose scomode. Necessità dell’ascolto!
Il Salmo 50 spalanca il cuore al perdono. In molte vittime il perdono c’è già. Ci sono vittime di abusi che hanno saputo e sanno mantenere la fede. Sono i “confessori della fede” di oggi, che dimostrano di amare molto la Chiesa, aiutandola a venir fuori – anche con la denuncia – da una situazione di corruzione.
Giova ricordare come il Salmo 50 è stato attribuito a Davide e da lui pregato dopo il suo peccato: abuso di potere, di coscienza e sessuale fino all’omicidio del fedelissimo, ancorché straniero, Urìa. Davide prende coscienza del suo peccato e si arrende. Il profeta Natan interviene col racconto di una parabola e sa tirar fuori il positivo che c’è in lui nonostante il peccato, ossia il suo senso di giustizia. Fare luce, non nascondere il male. Curare, quando il male viene da una patologia. Punire, come rimedio e riabilitazione. Accompagnare sempre!

Il brano evangelico ci offre un annuncio luminoso: «Ed ecco qui vi è uno più grande di Giona». Anche per noi, qui, stasera, nella nostra Diocesi, risuona l’invito a guardare al Cristo Risorto e a mettere nuovamente lui al centro. A lui – lo stiamo facendo in molte circostanze della nostra vita pastorale a partire da quelle «prime luci dell’alba» che già ci abbagliano – chiediamo che si rafforzi la fede in tutti. Chiediamo di stare saldi in questa prova. Ci renda capaci di attraversare la piaga come lui ha attraversato la sua fino all’esperienza dell’abbandono del Padre: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34). Siamo stati salvati dall’umiliazione del Figlio di Dio. Questo ci dà coraggio. Attraversare la piaga è trovarsi in colui che contiene la risurrezione, il nuovo inizio, il “terzo giorno” («Venite, ritorniamo al Signore: egli ci ha straziato ed egli ci guarirà… Dopo due giorni ci ridarà vita e il terzo ci farà rialzare», Os 6,1-2).
È nella notte oscura che la luce della fede brilla più pura nei nostri cuori. Quella luce ci mostrerà vie di rinnovamento di vita cristiana per oggi e per domani.
Non siamo la Chiesa dei perfetti. Fin dall’inizio del cristianesimo, la Chiesa ha combattuto contro la tentazione ipocrita di considerarsi la comunità dei giusti e irreprensibili. Idea pericolosa oltre che ipocrita, perché semplicemente annulla il cuore del Vangelo: siamo il popolo dei perdonati, di coloro che sono stati guardati da Dio con misericordia e benevolenza. Non siamo fieri delle nostre cadute. Anzi, ne soffriamo. Ogni giorno ci battiamo il petto. Anche i preti cadono. Anche i vescovi. Soffriamo di questo, ma non tracciamo recinti. Mentre predichiamo la profonda differenza tra ciò che è bene e ciò che è male, respingiamo la tentazione di dividere i buoni dai cattivi. Siamo coloro sui quali si è riversata la compassione di Dio. Ma non ci stiamo quando una certa opinione pubblica tende a fare di ogni erba un fascio e morbosamente sembra godere del male altrui (specie di chi è nella Chiesa).
Siamo la Chiesa di Gesù, fatta di peccatori ma santa per la sua presenza, per la testimonianza piena di luce e di amore di tanti testimoni, per lo sforzo educativo di tanti maestri.
Cari amici, la Madonna ci custodisce. E quando le cose sono difficili – dice papa Francesco – preghiamo il “Sub tuum presidium”: nei momenti di turbolenza dobbiamo andare sotto il manto della Santa Madre di Dio:

«Sotto la tua protezione troviamo rifugio
Santa Madre di Dio:
non disprezzare le suppliche di noi
che siamo nella prova,
e liberaci da ogni pericolo,
o Vergine gloriosa e benedetta».
Così sia!

Discorso alla Veglia di riflessione e preghiera per la Giornata Internazionale della Donna

Serravalle (RSM), 7 marzo 2019

“Quale fecondità?”

  1. Grazie

Domani si celebra in tutto il mondo la Giornata internazionale della donna e noi questa sera abbiamo voluto prepararci nella preghiera a prolungare il grido di gioia di Adamo quando fu posto di fronte ad Eva. La prima parola che la Bibbia registra sulla bocca di Adamo è la meraviglia: «Questa volta sì, essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa» (cfr. Gen 2,23). Attraverso i testi, molto ben preparati, di questa Veglia ci troviamo in questa lunghezza d’onda di lode, di ringraziamento.
Dobbiamo riconoscere che la nostra salvezza, l’incarnazione del Verbo, avviene attraverso il frutto di un grembo, il grembo di Maria. Le Scritture sono piene di buone notizie che provengono dalla donna. Pensiamo «alle prime di luci dell’alba», nelle quali è stata annunciata la risurrezione di Gesù. Le donne sono state le prime messaggere, le prime che hanno avuto il coraggio di tornare al sepolcro. Hanno saputo attraversare quel buio e lì hanno potuto constatare la sorpresa: «È risorto!» (Mc 16,6).

  1. Perdono

Questa Giornata Internazionale ha sicuramente anche una valenza penitenziale, perché il mondo non ha sempre riconosciuto e rispettato la donna. Spesso la donna è stata discriminata, oggetto di abusi, vittima di una cultura che l’ha resa subalterna al potere dell’uomo. Siamo qui per chiedere perdono anche per tutte le donne che vengono uccise, vittime della violenza di ogni tipo.
Anche la Chiesa, nella sua storia, non sempre ha valorizzato la donna, non sempre ha saputo cogliere il genio femminile.
Il Concilio Vaticano II nella Costituzione Pastorale Gaudium et Spes ha una pagina molto bella nella quale dice grazie per tutto quello che il mondo dà alla Chiesa, mentre la Chiesa, da parte sua, ha tanto da dare al mondo: c’è uno scambio di doni (cfr. GS 40-44). Non dobbiamo temere di riconoscere che la nostra fede viene stimolata dalla cultura e dal progresso umano, non senza l’ispirazione dello Spirito Santo. Oggi nella Chiesa possiamo constatare la fecondità delle donne nelle opere, nella loro presenza nell’apostolato, nella vita consacrata. Ma ancora molti passi sono da fare. C’è bisogno di conversione. Siamo qui stasera anche per riconoscere che tante volte il grembo non si apre al dono della vita. Ci sono sicuramente cause dovute alle politiche famigliari, alla mentalità che ci circonda e che condiziona, all’egoismo. Dobbiamo pregare molto perché le famiglie siano coraggiose e sempre più aperte alla vita. Non possiamo lasciare nulla di intentato per assicurare una degna accoglienza della vita.

  1. Eccomi

Siamo qui, donne e uomini, per dire come Maria il nostro “eccomi”, la nostra disponibilità alla fecondità. In questa traccia di preghiera siamo stati provocati da questo punto di vista, noi consacrati per primi, ma anche le persone che vivono la condizione della vedovanza, e chi è “single”: tutti siamo invitati alla fecondità.
Penso che quando saremo davanti al Signore dovremo portare frutti. Forse le nostre mani saranno sporche, il Signore le purificherà; l’importante è che le nostre mani non siano vuote.

Omelia nella VII domenica del Tempo Ordinario

Convegno diocesano Settore Giovani AC
“Sale, non miele”

1Sam 26,2.7-9.12-13.22-23
Sal 102
1Cor 15,45-49
Lc 6,27-38

(da registrazione)

Cari ragazzi,
devo iniziare con un ringraziamento a tutti voi. Sono tre giorni che penso a questo incontro come un appuntamento bellissimo nella mia vita di pastore. Ne sento tanto la responsabilità. Sono pochi gli incontri con voi in un anno, ma preziosissimi, da non sciupare.
Vi porto una notizia bellissima: Gesù è in mezzo a noi, Risorto! Lui farà sicuramente tutto quello che è necessario per ciascuno di voi e anche per me. «Grazie a te, Gesù, che ci riunisci e fai di questo incontro una festa!».
Devo dirvi – ormai sono alla fine della Visita Pastorale – quanto siete importanti nelle nostre comunità. Non dirò retoricamente: «I giovani sono il nostro futuro…».  No, io vi dico che siete preziosi oggi, perché ci aiutate ad essere in cammino. Quando siete in parrocchia – può darsi che vi succeda di venirci svogliati o per senso del dovere – portate alla comunità una gioia grandissima. Noi adulti vi accompagniamo, ma abbiamo anche molto bisogno della vostra presenza. Vi ringrazio per questo: «Siate generosi!». Quando i giovani non ci sono la parrocchia diventa melanconica, ripiegata su se stessa. Quando ci siete si riprende il cammino. Fate bene a “risvegliare” anche noi sacerdoti, perché ci aiutate ad essere giovani.
Questa mattina ci troviamo di fronte ad una pagina fortissima di Vangelo, davanti alla quale le reazioni possono essere le seguenti. Prima reazione. «Amate, amate i nemici… »: quante volte l’abbiamo sentito! Si ha l’idea del ripetitivo, dello scontato, del déjà-vu. L’altra reazione, invece, è quella di chi, davanti ad una pagina come questa, prova un po’ di sconcerto. È impossibile quello che il Signore chiede! Questa volta ha messo l’asticella troppo in alto!
«A voi che ascoltate io dico: “Amate!”».
Faccio due semplici sottolineature. Amare, come lo intende Gesù, non è da confondere con le reazioni istintive e incontrollabili che ci abitano, che noi chiamiamo sentimenti, emozioni, inclinazioni. C’è la persona attrattiva, c’è la persona che suscita simpatia, c’è chi, in un gruppo, è capace di creare subito un’atmosfera e viene spontaneo volergli bene. Quando Gesù dice «amate», propone una scelta. Con l’imperativo «amate» siamo invitati a calarci in noi stessi e lì, nel profondo, scoprire un luogo che spesso ignoriamo: la coscienza. Dentro di noi possiamo avvertire sentimento e scelta come opposti e perfino sollevare la questione della sincerità. Che cosa è più vero in me? I sentimenti o la scelta? Possiamo anche mettere a confronto spontaneità e autenticità: sono due cose diverse. Ripeto: c’è più sincerità nei sentimenti o nella scelta? Invoco lo Spirito Santo dentro di me affinché mi faccia luce.
Credo che la posizione di Gesù sia per la scelta. È con la decisione che noi possiamo cambiare le cose. È con la decisione che possiamo scavalcare quell’asticella. Questo però non significa che i sentimenti non siano importanti.
Santa Teresa di Lisieux, in un passaggio della sua autobiografia, racconta che le era stato dato il posto – le monache trascorrono molto tempo in coro – vicino ad una monaca che faceva scricchiolare i denti. Inizialmente le dava tanto fastidio, le veniva quasi da svenire tanto era irritata, ma pensò che poteva voler bene a quella monaca “insopportabile” (avrebbe potuto anche correggerla, insegnandole la buona educazione, invece di essere così preoccupata della sua santità personale, ma era ancora molto giovane e probabilmente non si azzardava…). Da quel momento, quando andava in coro, prevaleva in lei la decisione di voler bene e di aver pazienza con quella consorella. Poco a poco, l’amore autentico l’ha portata ad aspettare con gioia il momento in cui arrivava la monaca e lo scricchiolio, da irritazione insopportabile, divenne per santa Teresa come un concerto. Il Signore ci propone di partire con la scelta e la decisione, poi verrà anche la simpatia. Così introduciamo tutta la nostra persona nell’amore, perfino i sentimenti. Questo accade anche nel fidanzamento, nell’amore. C’è la scintilla iniziale, che è l’innamoramento, poi si arriva ad una scelta che si rinnova sostenuta dal sentimento. E la scelta viene sempre più in rilievo, ma cresce anche il sentimento. Penso ai miei genitori, con i quali ho vissuto solo gli ultimi anni della loro vita. Li ho sorpresi a volte a scambiarsi dei baci, pur essendo ottantenni, con infinita tenerezza. Era un incanto.
Concludo dicendo una parola sulla “regola d’oro” che è trasversale a tutte le religioni: «Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te». Nel Vangelo è detta in un modo diverso, sorprendente, perché detto in positivo; parafrasando: «Quello che tu desideri sia fatto a te, fallo agli altri». È rivoluzionario! Viene introdotto il desiderio come fondamento dell’etica. Si sdoganano il nono e il decimo comandamento: «Non desiderare… » (ma qui si intende il desiderio cattivo, desiderio del male). Quello che tu desideri per te, fallo per l’altro: dignità del desiderio, del sogno. Auguri per il vostro cammino!

Omelia nella S. Messa in ricordo di don Luigi Giussani

San Marino Città, 22 febbraio 2019

1Pt 5,1-4
Sal 22
Mt 16,13-19

Oggi celebriamo la festa della Cattedra di San Pietro e ricordiamo anche un grande testimone e maestro: don Luigi Giussani. Una bella e significativa coincidenza. Don Giussani preghi con noi per il Pietro di oggi, papa Francesco.
Io non se se gli amici, i fratelli e le sorelle di Comunione e Liberazione, mi sentano vicino (a dire il vero faccio poco per loro), ma io li sento vicini: li incontro nelle comunità parrocchiali, a servizio con umiltà e senza pretese.
La pagina evangelica riporta una domanda di Gesù molto coinvolgente. Le risposte per sentito dire non valgono. Quelle frutto di una sommaria istruzione dottrinale sono insufficienti; e non fanno molta differenza, a questo proposito, le risposte accademiche. Gesù vuole la risposta del cuore: «Chi sono io per te?».
Pietro aveva già dato una sua risposta, gridando sotto la spinta della paura e della fiducia: «Signore, salvami!» (Mt 14,30). Un giorno dirà a nome di tutti: «Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna» (Gv 6,68).
Le parole più vere sono quelle che nascono al singolare. Ognuno che abbia inseguito, contestato, litigato con Dio, ognuno che abbia assaporato anche una sola volta l’amore… può dare quella risposta che si costruisce con la vita, che non è una formula (E. Ronchi).
A Cesarea di Filippo, tappa centrale nel Vangelo di Matteo, Pietro risponde: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». E Gesù, di rincalzo: «Non la carne, né il sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli (non ci sei arrivato da solo!)». Al confessore del Messia viene conferita la dignità di suo rappresentante. Gesù gli cambia nome: da Simone a Pietro. La tradizione biblica collega sempre il cambio del nome ad una missione speciale (così con Abramo, Sara, Giacobbe, ecc…). Il nome Pietro significa Roccia: la stabilità e la compattezza della futura comunità messianica poggerà su Cristo, ma anche su Pietro. La Chiesa appartiene a Cristo («la mia Chiesa»). Pietro non l’ha fondata, non è a disposizione del suo arbitrio e non ne è il capo per doti particolari. Tuttavia, dopo la risurrezione, Gesù l’associa a sé come garante dell’unità e della stabilità della Chiesa.
Non mi aspetterei di trovare in una sessione del Concilio di Trento un’espressione così forte: «Sarà con le stesse qualità della sposa del Cantico dei Cantici, con la sua bellezza, ossia con la sua unità, tamquam acies ordinata, che la Chiesa sbaraglierà il mondo» (cfr. Concilio di Trento, Sessione XXIII, Cap.4).
Insieme alla metafora della roccia Gesù adopera anche quelle delle chiavi e del legare e sciogliere, allusione al ministero petrino di governo e di magistero. Questa investitura vale anche per chi succede a Pietro: come potrebbe la comunità messianica godere di un servizio di unità se la roccia non sarà tale per tutto il tempo? La dimensione petrina è esercitata in modo proprio dal vescovo di Roma, il Papa, successore di Pietro. Ma ogni cristiano che risponde a Gesù: «Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivente», è, in qualche modo, roccia viva, radice di Chiesa.
Durante un’udienza pubblica Giovanni Paolo II, con grande stupore del seguito e tra l’imbarazzo del cordone di sicurezza, scavalcò la staccionata e, raggiungendo un ragazzo disabile seduto in carrozzina, mise le sue mani grandi e vigorose sulla sua testa e stringendola forte ripeté: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa». Il ragazzo stupefatto per quelle parole, pianse di commozione.
Riprendo l’interrogativo di Gesù: «Tu, chi dici che io sia?». Ma dire non basta. Siamo specialisti di facili parole. La vita non è ciò che si dice della vita, ma ciò che si vive della vita. E Gesù Cristo non è ciò che io dico di lui in una formula esatta, ma ciò che io vivo del suo amore crocifisso… Anzi, di quanto lascio vivere di lui in me!

Omelia nella VI domenica del Tempo Ordinario

Mercatino Conca, 17 febbraio 2019

Chiusura della Visita Pastorale alla parrocchia di Mercatino Conca

Ger 17,5-8
Sal 1
1Cor 15,12.16-20
Lc 6,17.20-26

(da registrazione)

Rivolgo un caloroso saluto al signor Sindaco, perché salutando lui, è come se rivolgessi il saluto alla parte di paese che non ho potuto incontrare o che è di altra convinzione o di altra cultura. Desidero che anche a queste persone arrivi il mio saluto e il mio ringraziamento per la cortesia che mi è stata riservata in tutti gli ambienti in cui sono stato.
Inizio dedicando un minuto ai bambini. All’episodio del Vangelo letto da don Marino ero presente anch’io. Preciso: non c’ero proprio io, ma c’erano i miei “colleghi”, gli apostoli. Il Vescovo, come successore degli apostoli, in un certo senso fa parte del gruppo dei Dodici. Quella mattina Gesù aveva attorno a sé poveri, piccoli, adulti, anziani, persone tristi, ecc. Gesù ci ha sorpreso perché ad un certo punto – eravamo in un luogo pianeggiante – si è alzato e ha detto: «Beati voi». Come? Proprio noi così sfortunati, che abbiamo motivi di pianto, che siamo poveri, che a volte veniamo maltrattati. «Sì, proprio voi siete beati», dice Gesù. Ma chi sono i poveri? La parola “povero” contiene, di per sé, ogni uomo. Povero sono io quando ho bisogno di altri per vivere, povero sono io ogni volta che mi rendo conto che non basto a me stesso. Allora, perché sono povero, mi affido, chiedo aiuto, chiedo perdono. Vivo perché vengo accolto.
Chi sono questi sfortunati con cui Gesù si congratula? Sono i discepoli, quelli che quel giorno erano davanti a lui… Siete voi, lo sono anch’io che, prima di essere apostolo, sono discepolo. E mi sento dire da Gesù: «Beato te, Andrea. Beato te, con i tuoi limiti, con le tue insufficienze, con le tue prediche mediocri… ». Chi sono invece i fortunati che Gesù mette in guardia con una parola durissima, «guai a voi…»? Sono quei discepoli che vivono un cristianesimo appagato, autosufficiente. Quelli che pensano di essere a posto, che vogliono solo star bene, che cercano l’applauso della gente…
Perché Gesù si felicita con i più svantaggiati? Sono beati perché sono poveri? Sono beati perché i poveri hanno più chance dei ricchi di entrare in paradiso? Nulla di tutto questo, perché Gesù non si occupa, in questo caso, della situazione sociale; la povertà non è la causa della benedizione… Ma è nella promessa: con voi posso costruire il Regno di Dio – dice Gesù –, perché siete guardati con occhi diversi dal Padre. Beati non perché poveri, ma perché discepoli.
Quando Dio creò Adamo, prese del fango e della polvere e con questi elementi creò una meraviglia, l’uomo e la donna. Ecco, adesso Gesù prende noi e riparte da capo; siamo – per così dire – il nuovo Adamo: con noi si propone di fare grandi cose. Lui ci dice dov’è la felicità. La felicità è dov’è Dio. Ma dov’è Dio? Dio è anche dove c’è la croce, la sofferenza. Beato chi segue Gesù sulle strade della Galilea, ma anche su quelle del mondo di oggi. Anche lui allora, questo nuovo Adamo che siamo noi, farà ciò che fa Dio. Egli va incontro ai fratelli: dona, consola, accoglie. Sarà sempre una vita povera quella del cristiano, forse marginale, eppure ricca, felice, consolante.

Sono stato una settimana a Mercatino Conca e ho sconfinato anche nelle piccole parrocchie d’intorno: Rivalta, Piandicastello, Montealtavellio. Mi sono reso conto della vocazione che ha la vostra comunità: è racchiusa nel nome stesso, “Mercatino Conca”. È luogo d’incontro, di scambio, di intense relazioni. Non solo mercanzie, manufatti, bestiame, come una volta, ma incontro di volti, tradizioni, conoscenze, di fatiche condivise e di tutto ciò che costituisce il mercato nel suo significato più profondo: luogo dell’incontro. A Mercatino ho trovato una piccola fraternità sacerdotale, che è un esempio per il futuro, perché i sacerdoti fanno risplendere il loro celibato facendo famiglia tra loro. Ho vissuto una settimana con questi fratelli: don Erminio, don Flaviano, don Marino. Li ringrazio in modo speciale.
Ho notato che a Mercatino c’è un buon servizio educativo verso i giovani: i “Giovani Valconca” e gli Scout. C’è una Caritas attenta alle necessità della Valle. Mercatino ha anche la vocazione ad essere luogo di accoglienza. Penso allo stile di vita del vostro parroco, alla presenza “bonificante” della Casa della Pace e alla presenza di tanti amici, laici e religiosi, che vengono da fuori e che fanno di questo centro una finestra aperta sul mondo. Percorrendo le strade mi sono accorto, con sorpresa, che c’è una via dedicata a mons. Oscar Romero, canonizzato recentemente, con scritto: martire della giustizia.
Un paese ricco di stimoli, dunque, che si educa alla mondialità. Mercatino ha poco più di mille abitanti, eppure qui fioriscono associazioni, iniziative di ispirazione cristiana ma anche laiche come l’AVIS, il Centro culturale “Il fiume”, la Pro Loco, la Croce d’Europa, le associazioni sportive. Bella la collaborazione tra Municipio e Parrocchia: non solo tolleranza, ma cortesia; non solo cortesia, ma amicizia, fino alla corresponsabilità per il bene comune e nella distinzione degli ambiti e dei ruoli. Ho goduto nell’incontrare tutte queste realtà. Indimenticabile la visita alle scuole, dal Nido alla scuola d’Infanzia, alle Scuole Elementari e alle Medie. Simpatico l’incontro con le persone per strada, nei bar e l’incontro con le attività produttive, per conoscere e incoraggiare. Significativo lo scambio di idee con i Carabinieri che presidiano il territorio, si prendono cura della nostra sicurezza, ci ricordano di avere a cuore la legalità e di essere bravi cittadini. Commovente e umanissima la visita agli anziani e agli ammalati. Pregano molto. Ho affidato loro la richiesta delle vocazioni al sacerdozio, di cui abbiamo tanto bisogno.
Infine, l’incontro con i catechisti, i bambini e i ragazzi del catechismo, i genitori, il coro, i Consigli parrocchiali, il gruppo di preghiera “Padre Pio”, la comunità eucaristica quotidiana. Sono stato anche in un luogo di memoria, di pietà, di preghiera: il campo santo. Abbiatene cura sempre così.
Mercatino ha anche i suoi problemi, le sue fatiche, le sue tensioni. Questo è il campo del nostro impegno.
Vi lascio un messaggio. Tocca a voi approfondire. Mi affido soprattutto al gruppo dei giovani che possono aiutare la comunità a ricordarlo: «Abbiate cura dei rapporti». Le relazioni sono molto importanti. Sviluppate voi questa proposta. La relazione autentica esige che io faccia “il vuoto” dentro di me, mi faccia “conca”, perché l’altro possa darsi. Occorre che io faccia silenzio perché l’altro possa dirsi. Per creare rapporti occorre che io sia accogliente. Sono sicuro che Dio regala gioia a chi produce amore. Sia lodato Gesù Cristo.

Omelia nella IV domenica del Tempo Ordinario

Monte Grimano Terme, 3 febbraio 2019

S.Messa di chiusura della Visita Pastorale

Ger 1,4-5.17-19
Sal 70
1Cor 12,31-13,13
Lc 4,21-30

(da registrazione)

Alla fine della Visita Pastorale il Vescovo lascia un messaggio, una frase breve, incisiva, facile da memorizzare. La consegna che faccio alla comunità di Monte Grimano è la seguente: vi auguro di stupirvi del Vangelo.
A volte il Vangelo consola e incoraggia, ma occorre saperlo apprezzare anche quando è inatteso, duro, nuovo quando suscita meraviglia com’è accaduto a Nazaret, allorché Gesù, per la prima volta, prese la parola in sinagoga. Nazaret era un borgo più piccolo di Monte Grimano. Ogni sabato la popolazione si riuniva per l’ascolto della Parola di Dio e la preghiera.
Domenica scorsa abbiamo letto la pericope evangelica in cui Gesù viene invitato a leggere i testi sacri, scritti su rotoli. Capitò a Gesù la profezia del libro di Isaia che riguardava lui stesso. Gesù la lesse: «Lo Spirito del Signore è sopra di me e mi ha mandato per annunciare ai poveri un lieto messaggio, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi e la scarcerazione dei prigionieri e a promulgare l’anno di misericordia del Signore per tutti (anche per quelli che non frequentavano la sinagoga, anche per gli stranieri, anche per gli odiati romani)» (cfr. Is 61,1-2). Gesù ha proclamato che la salvezza di Dio è per tutti e che lui è il Messia di questa salvezza.
Perché i nazaretani si sono stupiti? Magari anche noi provassimo stupore o “inciampo” (scandalo) quando ascoltiamo il Vangelo, come a dire che non è una parola scontata, abituale. Perché ai nazaretani fa problema l’insegnamento di Gesù?  I motivi possono essere due.
Gesù parla di Dio in un modo assolutamente nuovo, un Dio che si china sull’uomo ferito, prigioniero del male, lontano. Un esempio è la parabola del figliuol prodigo. In essa c’è un figlio che scappa di casa e se la spassa finché ha denaro, giocandosi tutto. Quando si ritrova in miseria comincia a riconsiderare l’idea di tornare a casa dal padre. Ritorna. La prima reazione dei “benpensanti” è di respingere quel figlio, invece il padre gli corre incontro, lo abbraccia e organizza per lui una festa. Gli usa misericordia incondizionatamente. Il padre sa che chi si sente amato dà il meglio.
Un altro brano evangelico che suscita stupore è quello degli operai che vanno a lavorare nella vigna ad ore successive. Non sembra giusto che gli operai dell’ultima ora guadagnino come quelli della prima ora…  Umanamente parlando non è giusto. Tutto il Vangelo è pieno di questo messaggio “nuovo”, rivoluzionario. Per questo suscita domande e inquietudine. Vi auguro che la Parola vi generi stupore. Dio ama senza misura, incondizionatamente. Non mercanteggia: è misericordia, è amore, è gratuità.
Una volta una signora mi ha contestato dopo aver ascoltato queste parole sul perdono del Signore: «È troppo comodo pensare di essere sempre perdonati!». «Non è così – le dissi –, quando ci si sente guardati dagli occhi di Gesù viene voglia di impegnarsi e di fare di tutto e di più».
Il secondo motivo per cui i nazaretani non accolgono il loro compaesano Gesù, il figlio di Giuseppe, il falegname, e di Maria, è che il profeta, il Messia, era uno di loro, uno del paese. Possibile!?! Da Cafarnao era giunta voce avesse fatto molti miracoli… «Falli anche da noi!», gli dicevano. Ma Gesù non era tornato per fare degli show. Anche noi, a volte, ci meravigliamo della santità vicina, la «santità della porta accanto», come dice papa Francesco. Abbiamo messo i profeti e i santi nelle nicchie. Mi è capitato di fare da postulatore della causa di Servo di Dio, don Dario Porta. Aveva come peculiarità l’amare: sempre, subito e con gioia. Stupiva molto che si proponesse la sua canonizzazione “per così poco”. Ognuno di noi è chiamato a questo traguardo bellissimo, fino all’ultima ora della sua vita: la santità.
Concludo dicendovi il mio “grazie” per questi giorni insieme. Stupitevi del Vangelo! Quando ho incontrato gli amici della banda ho fatto questa proposta: «Dite la frase più bella del Vangelo». È stato molto bello vedere come ognuno avesse una parola che diventa il motto della sua vita. Provate anche voi a pensare, durante la settimana, a quale frase vorreste come parola per la vostra vita. Scrivetela. Ricordatela. Ma soprattutto vivetela. Così sia.

Omelia nella festa della Presentazione al tempio di Gesù

Monte Grimano Terme, 2 febbraio 2019

Giornata della vita consacrata

Ml 3,1-4
Sal 23
Eb 2,14-18
Lc 2,22-40

(da registrazione)

A Monte Grimano oggi batte il cuore dell’intera diocesi. Insieme ai laici, infatti, con la presenza di alcuni sacerdoti, si sono dati appuntamento le religiose e i religiosi della diocesi. Sono spiritualmente presenti anche le claustrali e gli eremiti. Abbiamo pure la gioia di avere con noi il Consiglio Generale dell’Istituto religioso dei Servi del Paraclito. Alcuni di loro, fra qualche mese, prenderanno dimora nel convento di Maciano in Val Marecchia. È un momento di grande gioia, di commozione. È la festa della Presentazione del Signore: Maria e Giuseppe portano il bambino primogenito al tempio ed è quanto vedono gli occhi di due anziani, Simeone e Anna, ma anche di quanti, quel giorno, si trovano nel tempio di Gerusalemme. Lo Spirito Santo illumina lo sguardo interiore dei due vegliardi e fa vedere in questo bambino (un bambino come tutti gli altri), il Signore che viene nel suo tempio e la Salvezza preparata per tutti i popoli. Vedono in questo bambino presentato al tempio il presente di Dio, presente al suo popolo e a tutta l’umanità. Questo dono di Dio era nascosto, viene svelato proprio in questo momento. Potremmo dire che “quei due” vedono l’invisibile, la verità nascosta in quell’evento. È per questo che noi diciamo che sono profeti, come è profetica la Chiesa, del resto, quando rivela il dono di Dio, il mistero di salvezza, negli avvenimenti del tempo presente.
Oggi celebriamo questa Eucaristia in ringraziamento per un dono particolare di Dio, un frutto dell’offerta di Cristo, cioè la vita consacrata. Che ci siano donne e uomini che seguono Cristo, amandolo con cuore indiviso, ha la sua radice nel dono che Cristo ha fatto di se stesso sulla croce, un dono anticipato nel momento della sua presentazione al tempio.
Vedendo voi consacrati siamo profondamente assicurati che Cristo è morto e risorto per noi. Voi lo dite con la vostra vita, una vita interamente spesa per questo. Qual è, infatti, il nucleo essenziale della vostra decisione? Che cosa avete deciso nel momento in cui avete scelto di essere religiose e religiosi?
Avete deciso di appartenere esclusivamente e totalmente a Cristo. La vostra è una vita consacrata per sempre, che esprime la radicalità del vostro essere afferrati da Cristo e del vostro lasciarvi afferrare.
Care religiose, cari religiosi, voi siete, in modo particolare, una profezia vivente. Vedete l’invisibile e ad esso vi siete dati. Il Signore è apparso nella vostra storia come l’Assoluto. A lui volete affidare interamente la vostra vita. Dite, come Paolo a Damasco: «Signore, cosa vuoi che io faccia?» (At 22,10). Oppure come il giovane Samuele: «Parla, o Signore, il tuo servo ti ascolta» (1Sam 3,9). E come il vostro modello per eccellenza: «Ecco, sono la serva del Signore, avvenga in me secondo la tua parola» (Lc 1,38).
Negli studi di filosofia si insegnano i percorsi per la dimostrazione dell’esistenza di Dio; ciascuno di voi è una prova dell’esistenza di Dio. Voi siete, come le candele, luce dell’Infinito che brilla nei nostri borghi, nelle nostre contrade. E una luce, anche se piccola, si vede da lontano.
La disposizione intima di Gesù è stata quella dell’offerta di sé al Padre, perché il Padre compisse in lui la salvezza del mondo. La vostra conformità e appartenenza a Cristo vi pone in una disponibilità totale ai bisogni degli uomini. A nome di tutti dico «grazie» per la vostra quotidiana disponibilità e la rinnovazione dei voti. Senza di voi la nostra Chiesa non potrebbe compiere interamente la sua missione. Chi più profondamente viene espropriato da Cristo, più profondamente deve farsi servo di tutti. Beata la Chiesa dove questa legge è rispettata! Nell’offerta di Cristo al tempio abbiamo contemplato la vostra offerta e ne godiamo nel Signore. Non fateci mancare mai questa gioia con la vostra vita: traspaia in essa e illumini la nostra Chiesa e tutte le genti.

Omelia nella III domenica del Tempo Ordinario

San Marino Città, 27 gennaio 2019

Festa di San Giovanni Bosco

Sir 1, 1. 23; 2, 1-6. 10-11
Sal 32
Fil 4, 4-9
Mt 18,1-6.10

Buona festa a tutti voi!
Oggi farò un’omelia un po’ diversa dal solito. Immagino di fare un’intervista a san Giovanni Bosco. Vado da lui col mio tablet e gli rivolgo delle domande.

  1. «Don Bosco, dove ti trovo? Dove mi dai appuntamento?».

Don Bosco: «In chiesa… Io sto qui». «Ma c’è tutta Torino da incendiare d’amore – gli rispondo – ci sono migliaia di giovani scesi dalle montagne per avventurarsi in città, cercando lavoro, una vita più aperta, un futuro diverso! E tu stai in chiesa?».
«Sono qui, perché qui sbocciano i miei sogni. Qui traggo ispirazione. È qui che ripeto al Signore – si sarà ormai stancato –: “Ti cedo tutto, ma dammi i ragazzi. Te lo dico anche in latino: Da mihi animas, cetera tolle. È qui che ho pensato all’oratorio dei ragazzi e sono venuti in centinaia. Ho pensato non solo ai ragazzi di oggi, ma anche a quelli di domani. A quelli del Piemonte, ma anche a quelli della Repubblica di San Marino! Ho preso casa in periferia; a disposizione c’era solo una bicocca fatiscente. Ho coinvolto tante persone, persino la mia mamma Margherita. Ci mancava di tutto, ma una cosa non mancava mai da noi: era – stanne certo – l’allegria. Anzi, avevo uno slogan: “Scrupoli e malinconia, fuori da casa mia”. E guai a chi parla male dei ragazzi! Sono monelli, a volte graffianti, soprattutto disoccupati – così sono tanti giovani nella mia Torino. Non critichiamoli, ma diamo loro cultura, lavoro, opportunità».

  1. «Don Bosco, che cosa pensi dei bambini e dei ragazzi?».

«Quando ho di fronte un ragazzo – risponde don Bosco – so che dentro di lui c’è una perla: ogni ragazzo è come una conchiglia. Cerco di forzarla e di aprirla: che sorpresa! Dentro, chiusa come in uno scrigno, c’è una perla di inestimabile valore. A volte i ragazzi non lo sanno neppure. L’ho capito, ad esempio, con il primo dei ragazzi che ho incontrato, quello a cui ho chiesto: «Sai scrivere?». «No». «Sai leggere?». «No». Sai disegnare? «No!». Sai cantare?». «No». «Sai fischiare?». Questa era l’arte di don Bosco che non si arrendeva e continuava a cercare anche solo una cosa positiva. Quel ragazzo disse: «Sì, certo». Allora lo chiamò per iniziare con lui a formare l’oratorio.
I discepoli, una volta, hanno chiesto a Gesù: «Chi è il più grande nel regno dei cieli?» (cfr. Mc 9,34). Tu che ne pensi? «Quella domanda – con tutto il rispetto per gli apostoli – è un po’ sciocca, per lo meno ingenua, perché rivela che loro pensavano il Regno di Dio come una grandezza mondana (di questo mondo), dove contano le carriere, il potere, le gerarchie. Invece Gesù ha chiamato un bambino in mezzo a loro – con grande acume didattico – e ha detto che, per entrare nel Regno di Dio, bisogna diventare come quel bambino. Il bambino è nativamente spontaneo, sincero, non ha ambizioni egemoniche. E la comunità dei discepoli di Gesù non dovrà dar credito a carrierismi, ma essere accogliente, semplice, discreta. Guai a chi si vergogna ad accogliere anche uno solo di questi bambini, anche se a volte sono fastidiosi, perché pongono tante domande e vogliono giocare. Si guardi bene l’educatore, l’animatore, il leader dal «disprezzare anche uno solo di questi piccoli». «Gesù ci ha detto – continua don Bosco – che “i loro angeli (ogni bambino ha un angelo custode) nel cielo vedono sempre la faccia del Padre”, fanno parte del consiglio ristretto di Dio (anche Dio ha un consiglio pastorale!)». Gli angeli dei bambini possono essere nostri avvocati difensori o, al contrario, i nostri accusatori.

  1. «Caro don Bosco, permetti che ti faccia una domanda un po’ imbarazzante, che tocca una situazione che stiamo vivendo oggi nel mondo: ci sono degli adulti, a volte sono parenti, allenatori, maestri, qualche volta persino dei sacerdoti, che non hanno rispetto dei ragazzi e delle ragazzine. Tu che ne pensi?».

«Quanto dolore. Quanta sofferenza, soprattutto per chi è stato vittima di molestie e di mancanze di rispetto. Quanta ingiustizia ai danni della convivenza sociale. E quanta vergogna per la comunità cristiana che al suo interno si è trovata crimini che più di altri smentiscono il Vangelo. Eppure, è accaduto e accade. Ciò che sconcerta di più – mi confida don Bosco – è il tentativo di coprire e di proteggere chi fa del male ai ragazzi. Però non basta la condanna, occorrono la prevenzione e la cura di chi è stato vittima».

  1. «Se le cose stanno così, caro don Bosco, allora non verrebbe neanche voglia di dedicarsi ai ragazzi… Che ne dici?».

«No, vorrei incoraggiare tutti coloro che sono educatori, catechisti, animatori Scout, insegnanti, a continuare a prendersi cura dei bambini, dei ragazzi, dei giovani, con trasparenza, con rispetto, con amore. Chiedere perdono per il male che è stato fatto e cercare riparazione è il primo passo, ma non è sufficiente perché guarda solo al passato. Occorrono risposte che guardino avanti, al futuro, che assicurino un cambiamento radicale di mentalità, perché la sicurezza dei bambini e dei ragazzi ha la priorità assoluta. Sta scritto: “Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme”(1Cor 12,26)».

  1. Avrei un’ultima domanda. «Don Bosco, tu sei santo, san Giovanni Bosco, ma ti sentiamo ancora vivo, vicino, ti sentiamo “dei nostri”. Qual è il segreto della santità?».

«Anche tu devi farti santo!».
«Santo? Impossibile. La santità mi sembra una cosa da recordman, da persone grandi. E poi… aureole, nicchie, mani giunte, non fanno per me, non mi appartengono.
«Cos’hai capito della santità? Che sia una posa? Tutti siamo chiamati ad essere santi. “Sei sposato? Sii santo amando e prendendoti cura di tuo marito o di tua moglie, come Cristo ha fatto con la Chiesa. Sei un lavoratore? Sii santo compiendo con onestà e competenza il tuo lavoro al servizio dei fratelli. Sei genitore o nonna o nonno? Sii santo insegnando con pazienza ai bambini a seguire Gesù. Hai autorità? Sii santo lottando a favore del bene comune e rinunciando ai tuoi interessi personali. Sei una consacrata o un consacrato? Sii santo vivendo con gioia la tua donazione. Sei una ragazzina o un ragazzino? Chiediti quello che Gesù farebbe al tuo posto. E poi studia, quando è ora di studiare, prega, quando è ora di pregare, gioca, quando è ora di giocare” (cfr. GE 14)».
Quando senti la difficoltà, la tua debolezza, alza gli occhi al Crocifisso e digli: «Signore, io sono un poveretto, ma tu puoi compiere il miracolo di rendermi un poco migliore». Ecco la santità.
«Tutto ciò che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei tuoi pensieri».
Caro don Bosco, grazie e arrivederci!