Omelia nella Veglia pasquale

Cattedrale di Pennabilli, 31 marzo 2018

Mc 16,1-7

Carissimi,
buona e santa Pasqua!
Questa notte è la madre di tutte le notti. È da questa notte che si irradia per tutto l’anno liturgico lo splendore della certezza che Gesù è risorto, è vivo. In tutte le chiese della nostra Diocesi si celebra la Veglia pasquale, ma la cattedrale – al di là dello splendore di come tutto viene organizzato, di come tutto viene preparato nei canti e nei fiori – è il luogo dove l’apostolo ci fa certi della risurrezione di Gesù.
Qual è il compito del Vescovo? È annunciare la risurrezione di Gesù. Egli è un successore degli apostoli e, attraverso le sue labbra e il suo cuore, aggiunge a tutti i cristiani la certezza, necessaria perché la risurrezione è il fondamento della nostra fede. È stato bello che in cattedrale, da domenica fino a questa notte (e domani), si sono susseguite proposte di meditazione, temi, appuntamenti: la Domenica delle Palme, le Quarant’ore, il Giovedì santo, il Venerdì santo e questa notte. Parole che sono anche ritornate: accogliere, amare, seguire. I tre verbi ci hanno condotti in questi giorni santi; verbi programmatici per la vita cristiana, per tutti i cristiani. Possiamo veramente dirci cristiani se non accogliamo il Signore nella sua risurrezione? Possiamo dirci cristiani se non gli apriamo il cuore, se non corrispondiamo concretamente al suo amore? Ci invita alla cena, si fa nostro servo, ci lava i piedi. Possiamo dirci cristiani se poi non ci mettiamo a seguirlo? A volte si dice: «Sono credente ma non sono praticante». Vi pare sia un’affermazione plausibile? Il cristiano accoglie, ama, segue Gesù! E Gesù è risorto. Se non fosse così, il nostro riunirci questa notte avrebbe del patetico.
Dove trovare Gesù Risorto? Gesù è vivo nella Chiesa. È la Chiesa che ne conserva la memoria, le parole, i sacramenti, che raccoglie e custodisce i frutti della sua presenza, i segni della sua prova. Cerchiamolo nella Chiesa. Vorrei prevenire, attutire la contestazione che può salire dentro di voi: «Ma la Chiesa, i preti, i cristiani hanno fragilità, incongruenze, limiti umani… si ricordano bene gli errori della storia». Ecco il grande miracolo: la Chiesa, nonostante le sue fragilità dovute agli uomini, è stata fedele al messaggio di Gesù. Allora, accogliamo Gesù, amiamolo, seguiamolo.
Incontriamo Gesù vivo anche quando ci facciamo prossimi a chi è povero, malato, solo, in difficoltà, a chi resta indietro. L’ha detto lui: «Avevo fame e mi hai dato da mangiare, ero forestiero e mi hai ospitato… Quando mai, Signore? […] Ogni volta che hai fatto questo ad uno solo dei miei fratelli più piccoli, l’hai fatto a me…» (Mt 25,40).
Incontriamo Gesù vivo nella preghiera che è rapporto con lui (altra cosa il recitar preghiere), da cuore a cuore. La preghiera così intesa «non consiste nel molto pensare o nell’elaborare altissimi concetti, ma nel molto amare» (Santa Teresa d’Avila, Fondazioni, 5.2). «La preghiera è uno slancio del cuore, un semplice sguardo gettato verso il Cielo, un grido di gratitudine e di amore, nella prova come nella gioia» (Santa Teresa di Lisieux, Manoscritti autobiografici C, 25 R). Il cristiano prega e va alla preghiera comune.
Accogliere, amare, seguire il Signore. Ma c’è un altro verbo che completa l’itinerario. È il verbo vivere ed è il mistero che stiamo celebrando in questa notte: Gesù è risorto e vivo, ha fatto scaturire la luce, ha fatto scaturire l’acqua, ci fa vivere di lui. Noi siamo fatti per la vita, per una vita piena, per sempre. Se la morte ci fa paura (è normale, l’ha temuta anche Gesù), la superiamo con la certezza della risurrezione. Questa vita che viviamo quaggiù prende gusto e sapore, speranza e audacia dalle parole del Risorto e dal Pane spezzato trae alimento per il cammino. Vivere. Nella risurrezione di Gesù tutto in noi riprende vita: corpo e anima, razionalità e sentimento, fragilità e talenti. Il cristiano vive con pienezza, con gioia la sua vita. Non è vero che la religione incupisce, tarpa le ali, inibisce. Anzi, il cristiano impara dalla risurrezione che ne vale sempre la pena, anche quando sperimenta fallimenti e cadute. Ricomincia. Riapre il discorso. Riparte. La risurrezione è il suo stile. L’Alleluia è la sua parola d’ordine. Buona Pasqua!

Omelia nella Liturgia della Passione del Signore

Cattedrale di Pennabilli, 30 marzo 2018

Is 52,13- 53,12
Sal 30
Eb 4,14-16; 5,7-9
Gv 18,1- 19,42

Domenica mattina a Pennabilli si sono sentite delle grida: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore»! (Mc 11,9). E tanti pennesi e tanti ospiti che erano qui hanno vissuto la prima tappa della vita spirituale, l’accoglienza: accogliere il Signore.
Ieri sera, memori di quanto sta scritto: «Se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20), siamo stati a cena con Gesù. E abbiamo fatto un altro “scatto” nella vita cristiana. Se il primo era accogliere, ieri sera era amare. Ci siamo trovati seduti a tavola, in alto, e Gesù in ginocchio, in basso, a lavarci i piedi. È ancora davanti agli occhi quel fotogramma: lo sguardo di Gesù verso di noi dal basso verso l’alto, e il nostro sguardo dall’alto verso il basso, dov’era lui che si è fatto servo. Comprendiamo che la tappa successiva della vita cristiana è amare. A tanto amore, il nostro amore. A tanto dono, il nostro dono. A tanta offerta, la nostra offerta. E questa sera che cosa stiamo vivendo? Questa sera viviamo una terza tappa della vita cristiana: seguire Gesù. Seguirlo fino in fondo. Non alludo soltanto alla parola: «Venite dietro a me, prendete la vostra croce, camminate sulle mie orme». Seguire Gesù perché? Seguire Gesù dove? Sappiamo la nostra condizione umana com’è… L’eredità del peccato è il male che è entrato nel mondo. Che cosa fa Dio? Manda il suo Verbo. Dio poteva salvare l’umanità in tanti modi diversi: la fantasia di Dio è infinita. Ha scelto la strada di valorizzare l’uomo. Ha fatto diventare uomo il suo Figlio, perché fosse l’uomo a salvare l’uomo. Gesù-uomo è morto per noi. Quel “per noi” ha tanti significati. La morte di Gesù è una possibilità per la nostra morte, per trovare un senso. Quale possibilità? Possibilità di salvezza, di salvare noi e gli altri. Ha un significato di redenzione. Pensiamo alle tante esperienze di morte. Si muore a noi stessi resistendo al peccato, accettando di stare da parte, perdonando, amando (quando si ama si fa spazio all’altro). Tutti questi “morire”, uno dopo l’altro, non sono altro che una possibilità che ci viene offerta di dare un senso alla croce con l’amore. Accogliamo Gesù. Amiamo Gesù. Seguiamo Gesù.

Omelia nella S.Messa in Coena Domini

Cattedrale di Pennabilli, 29 marzo 2018

Es 12,1-8.11-14
Sal 115
1Cor 11,23-26
Gv 13,1-15

1. Dopo tanto desiderio, dopo tanta preghiera, domenica scorsa – domenica delle Palme – sono risuonate le grida: «Ecco il re d’Israele: andategli incontro». E noi siamo usciti per andare incontro al Signore, abbiamo udito il lieto annuncio: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore» (Mc 11,10). Abbiamo accolto anche noi, tutti insieme, nel cuore, il nostro Dio.

2. Ma l’accoglienza non è che uno dei movimenti del nostro spirito. Quali altri movimenti ci vengono proposti in questa settimana santa, in particolare in questa sera di ineffabile intimità? Non c’è che una risposta, a mio avviso. Per un Dio che si è fatto uomo, che ha dato tutto, lasciandoci se stesso, la risposta si concretizza nel contraccambiare il dono. E se il dono è amore, la risposta è amore. Egli non fece altro che amare.

3. «Dopo aver amato i suoi, li amò sino alla fine» (Gv 13,1): espressione che indica la natura dell’amore, amore che ama in continuazione («dopo aver amato i suoi»), in forme sempre nuove, inedite, sorprendenti, per concludersi («li amò») con un atto di amore riassuntivo, inaudito, che rinnova e porta all’estrema conseguenza il precedente.
Egli non fece altro che amare. E noi, altro non dobbiamo fare che amare. All’amore, l’amore. Al dono, il dono.

4. Anche il nostro amore dev’essere «sino alla fine». È la prima delle note caratteristiche dell’amore di Gesù. Un amore sempre in sviluppo, dinamico e, quando occorre, anche esternamente travolgente. Un amore che non ha bisogno di parole; si manifesta anche nel silenzio.

5. Un’altra nota circa questo amore: è un amore che non dice mai basta. Un amore – a volte non pare – vittorioso, sempre vincitore, sempre stravincente (cfr. Rom 8,37). Un amore fedele; ma, nella sua fedeltà, non monotono, mai arrivato, perché sempre nuovo, sempre bello, sempre più bello. Un amore la cui misura – così dicono gli esperti dell’amore divino (cfr. Gv 3,14) – è quella di essere senza misura. Un amore che ha come meta il più, il meglio, il sempre, il tutto, la libertà. Potessimo davvero amare così! Amare sino alla fine.

6. Ma anche il cammino dell’amore incontra le sue difficoltà. Il Vangelo, ad esempio, ci attesta la ritrosia di Pietro. L’amore è esigente, categorico, definitivo: «Se non ti laverò, non avrai parte con me» (Gv 13,8). Un amore che vuole tutto, che vuole subito. Un amore che non vuole incontrare ostacoli, impedimenti, diaframmi. Un amore che domanda di arrendersi. Un amore, allora, il cui corrispettivo è l’abbandono totale, confidente, sicuro. Un amore il cui partner è un altro amore che si concede, si lascia invadere. Se il nostro amore fosse così, ci sarebbe più facile l’adempimento del comandamento di Gesù: «Se mi amate, osservate i miei comandamenti» (Gv 13,15).

7. Un’altra nota caratteristica di questo amore è l’imitazione. L’amore rende simili. Fossimo, davvero, presi da Cristo, dalla sua verità, dalla sua missione, lo imiteremmo spontaneamente, liberamente, perché allora l’amante diventerebbe l’amato. Contempliamo Gesù nel nostro cuore. Prima di sedere a tavola con gli amici, egli ama concretamente: si toglie la veste, indossa un grembiule, versa acqua, lava i piedi… Fermiamo nel cuore l’immagine di Gesù in ginocchio davanti a ciascuno di noi. Si sta accingendo a lavarci i piedi. Ci guarda con immensa tenerezza. Lui si è abbassato, noi siamo collocati in alto. «Non voi avete scelto me – dice Gesù – io ho scelto voi» (Gv 15,16). Che il suo sguardo e il nostro restino sempre in questa atmosfera di amore, in questa reciprocità. Così sia.

Omelia nella S.Messa crismale

Cattedrale di Pennabilli, 29 marzo 2018

Is 61,1-3.6.8-9
Sal 88
Ap 1,5-8
Lc 4,16-21

Che gioia, cari fratelli, ritrovarci tutti insieme in questo giorno. Sono lieto di dare a ciascuno il mio saluto più cordiale nel giorno che ricorda il “Natale” del nostro sacerdozio; lieto di celebrare con voi la Messa crismale che, attorno agli oli santi dei sacramenti del nostro ministero, richiama ognuno a rinnovare, singolarmente e insieme, gli impegni dell’ordinazione. Sono lieto, in modo speciale, di vederci uniti a formare un solo corpo, un solo presbiterio, e che si attui la preghiera di Gesù: «Perfetti nell’unità perché il mondo sappia, Padre, che tu mi hai mandato» (cfr. Gv 17,21.23).
Rivolgo un saluto carissimo ai fedeli che sono presenti, alle suore, alle monache che sono unite a noi spiritualmente, come gli eremiti della nostra Diocesi. Rivolgo un saluto particolare alle sorelle dell’Istituto “Figlie di Nazareth” che, da una settimana appena, vivono a Sant’Agata Feltria e hanno riportato in questi luoghi, in spirito, padre Agostino da Montefeltro. Saluto in modo speciale i ragazzi che sono qui a rappresentare le centinaia di amici che nel corso dell’anno, dopo la Santa Pasqua, riceveranno il sacramento della Cresima.
In questo clima di gioia e di unità è il caso di anticipare, soprattutto per noi sacerdoti, l’inno che si canterà alla Messa in Coena Domini: «Congregavit nos in unum Christi amor». È Cristo Gesù che ci ha unito con la grazia dell’Ordine Sacro. È Cristo che ci invita ad amarci e a saldare così la nostra fraternità: «Ubi caritas et amor, ubi caritas est vera, Deus ibi est!». Antifona che fa eco alla parola del Signore: «Dove due o tre sono uniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20) e che conferma l’affermazione conciliare: «Nella persona dei vescovi, ai quali assistono i sacerdoti, è presente in mezzo ai credenti il Signore Gesù Cristo, Pontefice Sommo» (LG 21).
Gesù, il cui calice noi benediciamo, non è forse colui che opera la comunione con il suo sangue? Gesù, il cui pane noi spezziamo, non è forse colui che opera la nostra comunione con il suo corpo? «Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti, infatti, partecipiamo dell’unico pane» (1Cor 10,17).
È con questi presupposti che la Chiesa di San Marino-Montefeltro può crescere «ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; in lui anche voi venite edificati insieme per diventare abitazione di Dio per mezzo dello Spirito» (Ef 2,21-22). E in questo momento vogliamo che il nostro augurio e la nostra unità sia significata al nostro papa Francesco, al papa emerito Benedetto XVI verso il quale, noi in particolare, dobbiamo tanta gratitudine.
Non rimane che «accoglierci gli uni gli altri, ospitarci nel cuore gli uni degli altri, come Cristo ha accolto noi» (cfr. Rom 15,7). Non rimane che esortarci alla collaborazione, con un senso di generosità, di prontezza, come quando, nella pesca miracolosa secondo il racconto di Luca, per la quantità del pesce preso i discepoli «fecero cenno ai compagni dell’altra barca che venissero ad aiutarli ed essi vennero… » (Lc 5,6-7). Cerchiamo non i nostri interessi, ma quelli di Gesù (cfr. Fil 2,21), che non ha voluto piacere a se stesso (cfr. Rom 15,3), ma «ha amato la sua Chiesa e ha dato se stessa per lei» (Ef 5,25).
Dunque, unità: fa parte del progetto di Dio, non stiamo parlando di qualcosa di moralistico. È la missione di Gesù: «Riunire i dispersi figli di Dio» (Gv 11,52), è dono della Pentecoste, è frutto dell’Eucaristia, è per noi forma della partecipazione all’unico sacerdozio. Dunque, unità come dono!
Ma l’unità è anche un impegno concreto.
Nella prospettiva secondo Matteo l’impresa dell’evangelizzazione è indicata come una itineranza: «Euntes docete…» («Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato…» Mt 28,19-20); nella prospettiva giovannea la missione viene indicata come unità: «Uniti perché il mondo creda» (Gv 17,21).
Ce lo siamo ripetuti tante volte: perfino il nostro incontrarci con fedeltà per lo studio, per la preghiera, per la riflessione pastorale non è rubato all’apostolato, alla parrocchia. Quando manchiamo a questi appuntamenti senza un serio motivo, non infliggiamo una ferita soltanto al nostro presbiterio, ma togliamo forza allo slancio missionario. C’è una gerarchia nei nostri doveri sacerdotali. Ebbene, quello di trovarci in comunione, in comunità, è tra i primi (prima della benedizione delle case!). Che bello, anche per i fedeli, saperci, il venerdì, riuniti in preghiera, concordi nello studio, solleciti nella programmazione e… a pranzo insieme. Di questo tipo di “assenza” i fedeli non ci rimprovereranno e, se lo facessero, potremo replicare che la nostra unità è per loro. È per la causa del Vangelo che facciamo “Cenacolo”! Del resto, è proprio il Cenacolo la nostra casa-madre: dal Cenacolo si parte e si torna. Come il movimento del cuore.
Ci sono, dunque, momenti in cui l’unità è visibile, momenti come questo, sublime e commovente. Lo sono i momenti a cui accennavo (con severità), ma ci sono anche quelli meno visibili, altrettanto importanti: pregare gli uni per gli altri (tutti preghiamo il breviario, all’incirca alla stessa ora… è come un ricamo sulla Diocesi, come i cori stereofonici di Bach che salgono dalla Val Marecchia, dalla Val Foglia e Val Conca, da San Marino), farci spazio nel cuore per un’autentica simpatia (ricordate il grido di Paolo: «Fatemi posto nel vostro cuore» 2Cor 7,2). Non tutti abbiamo avuto la stessa formazione e gli stessi maestri, non tutti abbiamo le stesse sensibilità… Che testimonianza sarebbe far brillare l’unità in tutti i suoi multiformi colori, giacché l’unità non è uniformità. «Guarda come si amano!», sarebbe il sussurro della Diocesi.
Ci sono poi tanti altri aspetti dell’unità a cui, per ragioni di tempo, accenno appena. Farci visita (quando siamo malati, ma anche in altre circostanze), interessarci delle necessità senza essere invadenti, renderci disponibili nella collaborazione. E poi c’è la correzione fraterna, così difficile da praticare – quanta prudenza esige – perché presuppone un “di più” di amore, la volontà di un bene maggiore per la persona, anzitutto, ma anche per le altre persone, che potrebbero risultare scandalizzate. Comporta anche un “mettersi nei panni del fratello”. La correzione fraterna rifugge dalla condanna, è medicina, è aiuto, ha orrore delle indiscrezioni, non lascia tracce (neppure sui cellulari!).
Ecco come sant’Agostino parla dell’amicizia nelle Confessioni: «E poi c’erano altre cose che avvincevano il mio animo: le conversazioni e le risate insieme, lo scambio di affettuose gentilezze, la lettura in comune di libri piacevoli, fare insieme cose ora insignificanti ora importanti, contrasti passeggeri, senza rancore, come succede ad ogni uomo anche con se stesso, e con quei contrasti peraltro così rari, rendere più gustosa l’abituale concordanza di vedute; insegnarci cose nuove a vicenda, sentire acutamente la nostalgia per gli assenti e accoglierli con gioia al loro ritorno: questi e altri simili segni, sgorganti da cuori che amano e si sentono riamati, ed espressi col contegno, con le parole, con lo sguardo e con mille graditissimi gesti, fondono insieme come fiamma gli animi e di molti ne fanno uno solo».
Per parte mia non devo che ringraziarvi per la vostra benevolenza; a volte ha la forma della pazienza (più che giustificata!), altre volte la forma dell’incoraggiamento (davvero desiderata), altre volte della simpatia. Vorrei dirvi anch’io il mio affetto. Una dichiarazione che un po’ mi imbarazza per il timore sia indiscreta e per il rischio, poi, di essere smentita dalle mie tante mancanze, sviste, superficialità.
Unità tra di voi, unità col vescovo, unità anche con i nostri fedeli, i laici. Già nella prima parte della Visita Pastorale ho toccato con mano – insieme, ahimè, al ridimensionamento della partecipazione alla vita di Chiesa – la ricchezza di laici che vivono un’intensa vita spirituale, di preghiera, di amore al Signore e alla Madre di Dio. Diversi di loro non temono di esprimere la loro fede in situazioni e ambienti difficili (qualche volta ostili): scuola, fabbriche, farmacie e ospedali… Alcuni hanno trovato la via della “rivincita”, cioè «mettere amore dove non c’è amore» (come dice san Giovanni della Croce). E ci sono i laici più vicini, i nostri collaboratori: alcuni sono davvero preparati culturalmente (talvolta più di noi), professionalmente, ma soprattutto in umanità (la vita di famiglia è una grande scuola di umanità). Allora non possiamo trattarli da semplici esecutori (pretendere l’unità in questo senso), sottoposti al nostro arbitrio, ai nostri puntigli, alle intemperanze del nostro cattivo carattere. Come prepariamo, ad esempio, gli incontri del Consiglio Pastorale Parrocchiale e del Consiglio degli Affari Economici?
La parrocchia alla quale siamo stati mandati (io dico la Diocesi per quanto mi riguarda) non ci appartiene, non è il nostro “reame”. C’è l’eredità di chi ci ha preceduto, il rispetto per la sua tradizione, l’equilibrio fra le diverse anime, il comune riferimento all’intero presbiterio, senza punte di singolarità, al vescovo, al magistero del Santo Padre e della Chiesa. Siamo come un’arpa: ricordate l’immagine di sant’Ignazio di Antiochia a proposito dell’unità. San Paolo direbbe: «Non fatela da padroni» (cfr. 2Cor 1,24).
La pratica dell’unità, se per un verso è un dono che appartiene alla mistica, per un altro verso richiede ascetica. C’è un lavoro su noi stessi, una costante vigilanza e – con l’aiuto di Dio – un superamento dell’individualismo. C’è una radicalità, non solo nella povertà, nella castità, nell’obbedienza, ma anche nell’unità: consiste nel morire a noi stessi. Ma non vorrei che l’espressione ci traesse in inganno. In rilievo non è il morire, ma l’amore; in rilievo non è lo scendere, come seme, nell’oscurità della terra, ma il portare frutto, la germinazione. Se l’unità è una realtà così grande, se è stata ottenuta a caro prezzo da Gesù, buttiamoci generosamente in questa impresa. «Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32). L’Innalzato innalza ciascuno di noi con lui. Ciascuno di noi è innalzato con l’Innalzato. Ognuno dica nella fede, con generosità e con gioia: «Sulla croce c’è un posto vuoto: è il mio. Davanti Gesù, dietro, accanto a lui, il mio posto!». Ci accompagni, ci sia vicina, ci unisca, lei, Maria, la madre dell’unità: la Regina del Cenacolo. Così sia.

Omelia nella Domenica delle Palme

Cattedrale di Pennabilli, 25 marzo 2018

Is 50,4-7
Sal 21
Fil 2,6-11
Mc 14,1-15,47

Chissà che cosa c’è nei vostri cuori… Solo Gesù lo sa. Chiedo di mettere tra parentesi – per un po’ – preoccupazioni, pensieri, afflizioni, distrazioni, per essere uniti a Gesù.
Si prova ogni volta una grande emozione nel leggere la Passione. Ecco, tutti insieme siamo venuti incontro al Signore. C’è chi tra noi ha una fede ardente, c’è chi fa fatica a credere, c’è forse chi è un po’ annoiato (viene per abitudine), c’è chi è qui per tradizione e c’è chi aspettava da tempo questo giorno. C’è chi, come Maria di Magdala, non sa staccare occhi e cuore dal suo Signore. E c’è chi, come Nicodemo, guarda da lontano. Ma siamo un’unica famiglia, un solo popolo. Chi pensa di essere “un po’ più avanti”, tenga per mano chi segue. Chi crede di essere ai margini, si ricordi che il Signore, con il suo sguardo amorevole, lo cerca, lo snida per invitarlo ad un rapporto personale con lui, a tu per tu. «Ecco il tuo re viene – abbiamo sentito leggere –, seduto sopra un puledro d’asina» (Gv 12,15). La gran folla che era venuta per la festa, udito che Gesù veniva, prese i rami di palma e uscì incontro a lui. E noi? Lasceremo passare Gesù invano?
Andiamogli incontro, accogliamolo, perché Gesù viene con tanta bontà. Lui prende l’iniziativa e si avvicina a noi. E vedete con quanta umiltà, perché bussa alla porta del cuore con tanto desiderio. Accogliamolo con affetto e gratitudine, con gioia e speranza. Lasciamolo entrare, lasciamogli prendere possesso del nostro animo.
A tutti penso sia accaduto di vivere l’attesa, forse nascosta e intima, di venire a contatto con lui ed eventualmente di essere pronti ad abbracciarlo. Ecco, è giunto il momento! Il Signore è qui, la sua grazia è tutta per noi. Lui è tutto per noi. Accogliamolo.
Che cos’è la vita cristiana se non un accogliere, giorno per giorno, colui di cui abbiamo bisogno, colui che è la nostra vita, la nostra pienezza. Sappiamo discernere la sua venuta? Sappiamo riconoscere il suo passo? Sappiamo distinguere la sua voce? Gesù viene a noi spesso in modo discreto, quasi nascosto. Ricordate l’incontro del giardiniere con la Maddalena? Ricordate i due discepoli di Emmaus? Il viandante che si affiancò a loro era Gesù. Ricordate la pesca miracolosa dopo la Risurrezione? I discepoli non l’avevano riconosciuto sulla spiaggia. Gesù è nascosto nei tratti e nei panni dei poveri, dei piccoli, dei profughi, dei malati, di chi è sconfitto, di chi non ce la fa. Nulla fa intuire la sua identità. Soltanto la fede la svela. Solo la sua parola ci istruisce: «Chi accoglie anche uno solo di questi piccoli nel mio nome accoglie me» (Mt 18,5). La vita cristiana si fa grande quando incomincia dagli ultimi, quando si china sui piccoli. Ma c’è un altro modo della venuta di Gesù in noi: è il silenzio. Quel silenzio da cui oggi si tende a sfuggire, specialmente il silenzio che portiamo in noi stessi, che volentieri scansiamo, di cui abbiamo paura. Il Signore viene nel silenzio. E noi abbiamo paura che egli ci scopra a noi stessi, abbiamo timore che lui cambi i nostri programmi, abbiamo paura che ci strappi a noi stessi. Ci apre davanti strade nuove, strade non facili, ma che portano sicuramente alla felicità.
Ecco, andiamogli incontro, domandiamogli di vincere le nostre paure. Domandiamo di saper accogliere, di saper aprire le porte dei nostri cuori a lui, giorno per giorno, momento per momento. Dice il Salmo: «Quanto è grande la tua bontà, Signore! La riservi per coloro che ti temono, ne ricolmi chi in te si rifugia» (Sal 30,20). E il Signore ripete: «Ecco sto alla porta e busso, se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20).
Accogliamo il Signore, eccolo. Oggi viene, è alla porta del nostro cuore, bussa: apriamogli! E chi non vorrà cenare con lui il Giovedì Santo, amandolo, e chi non vorrà tenergli compagnia il Venerdì Santo, seguendolo. E chi non vorrà celebrarlo risorto, il Sabato Santo, nella Veglia pasquale, vivendo con lui. Poi, domenica, annunciandolo. Eccolo: «Osanna, benedetto colui che viene, il Re» (Gv 12,13).

Omelia V domenica di Quaresima

Belforte, 18 marzo 2018

S.Cresime

Ger 31,31-34
Sal 50
Eb 5,7-9
Gv 12,20-33

In un teatro ha colpito la mia attenzione un cartellone con l’invito a partecipare ad una conferenza per i genitori. Il titolo era: «Che cosa farò da grande». Qualcuno, provocatoriamente, ha corretto il titolo in: «Che cosa farò di grande». Questa semplice correzione mi fa pensare con gioia ai dieci ragazzi che stanno per ricevere la Santa Cresima. Che cosa faranno di grande?

Ci troviamo di fronte ad un brano di Vangelo di autorivelazione di Gesù come Messia Salvatore. Farò soltanto tre sottolineature.

1. «Vogliamo vedere Gesù» (Gv 12,21).

Un gruppo di Greci – i Greci, insieme ai Romani, facevano parte delle forze che colonizzavano la Palestina – si è interessato al maestro Gesù. Essi si avvicinano a due apostoli che portano un nome greco, Andrea e Filippo, e dicono: «Vogliamo vedere Gesù». Un desiderio che anche noi abbiamo provato o proviamo. Qualcuno potrebbe dire di aver visto film bellissimi su Gesù; qualcun altro inviterebbe a guardare il volto di Gesù come l’hanno dipinto i primi artisti o quelli del Medioevo o del primo Rinascimento (Giotto, Masaccio, ecc.). Con tutto il rispetto per i grandi artisti, sappiamo bene che Gesù non è una figurina, ma una persona viva. Come si fa ad incontrare Gesù, come si può vederlo, sentirlo, toccarlo? Dov’è Gesù?
È qui! Voi, uniti insieme, meritate la presenza di Gesù. Lui ha detto: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18,20). Dunque, Gesù è qui, in mezzo a noi. Vuoi vedere il suo volto? Con gli occhi non lo vedrai, ma sentirai il suo calore, il battito del suo cuore, la forza della sua parola.
Gesù si fa presente anche in sette segni carichi di mistero: i sacramenti. Voi potrete dirmi: «Quando, durante la Santa Messa, alzi in alto l’ostia e noi guardiamo, vediamo soltanto il pane». Quand’ero un giovane sacerdote mi capitava di osservare attentamente il pane mentre spezzavo l’ostia e dicevo: «Signore, perché non riesco a vederti tra le briciole del pane… Però so che sei presente». Nella mia città, Ferrara, si conserva la memoria di un miracolo eucaristico emozionante. Nel 1171 un sacerdote di nome Pietro, mentre era in viaggio da Verona a Roma, si fermò a Ferrara e, quando spezzò l’ostia durante la celebrazione della Messa, da essa sprizzò sangue. Ancora oggi nella piccola volta, trasformata poi in una bellissima basilica, possiamo vedere le macchie lasciate dal sangue sprizzato da quell’ostia.
«Vogliamo vedere Gesù» (Gv 12,21).
Sapete come hanno fatto i Greci, i Romani, i Galli, i Celti a vedere Gesù? Hanno visto come i cristiani si volevano bene. «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35).

2. «Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24).

Gesù dice che la sua vita è come quella di un chicco di frumento destinato a cadere per terra nel buio di un solco, nell’umidità della terra, ma che porterà molto frutto.
Per i ragazzi. Ho scritto una volta per i miei alunni una piccola drammatizzazione. Avevo immaginato che tre chicchi di grano erano usciti dal sacco dov’erano imprigionati, sacco che il contadino portava sulle spalle. Perché volevano uscire? Uno di essi desiderava respirare aria pura. Allora saltellò fuori dal sacco e si adagiò sul terreno, ma, dopo un po’ di tempo, mentre era sulla strada arrivò una gallina e lo mangiò. Addio libertà!
Un altro chicco di frumento desiderava prendere il sole e arrivò fino alla spiaggia. Dopo mezza giornata di esposizione al sole, si seccò completamente.
Il terzo chicco pensò fosse meglio tornare con gli altri chicchi; vide il solco profondo, umido, poco attraente, ma si tuffò. Ha scelto di rischiare, si è fidato.
La piccola storia dei tre chicchi di frumento finisce con la sorpresa della vita scaturita da quei chicchi.
Attenzione: Gesù non mette in rilievo “il morire”, ma “il portare frutto”; non sottolinea il sacrificio, ma la fecondità. Non si ottiene nulla di ricco, di bello, di splendido nella vita, se non attraverso il dono di sé, l’impegno, la fatica.

3. «La mia anima è molto turbata» (Gv 12,27).

Gesù, ai Greci che erano venuti per incontrarlo, dirà: «Attenzione amici, non crediate che il Messia sia come immaginate voi. Il Messia sarà innalzato da terra, sarà un Messia crocifisso. Non crediate che la mia gloria sia quella mondana; la mia gloria è fare la volontà del Padre. Inchiodato sulla croce diventerò il punto di attrazione universale» (cfr. Gv 12,32). Gesù aggiunge: «La mia anima è molto turbata» (Gv 12,27). Non bisogna togliere i turbamenti dalla vicenda umana di Gesù. Pensiamo a quando Gesù è andato nella casa di Giairo, dove si piangeva per la morte della sua bambina (cfr. Lc 8,41-42): Gesù si era commosso. Così alla tomba dell’amico Lazzaro (cfr. Gv 11,35). La gente lo vide piangere: «Guarda come lo amava» (Gv 11,36). E, nel Getsemani, quando sente il peso di quello che sta per succedere, arriva a gridare: «Padre, allontana da me questo calice» (Mc 14,36) e suda sangue, dice l’evangelista Luca (cfr. Lc 22,44).
Il turbamento di Gesù viene incontro alle nostre paure, alle nostre fatiche, alle nostre lacrime. Gesù ha paura, ma non è rinunciatario; la sua è la paura del coraggioso.
Invito ciascuno a portare a casa una delle tre frasi su cui riflettere durante la settimana. «Vogliamo vedere Gesù», per incontrarlo davvero; oppure «Come il chicco di frumento ha bisogno di cadere per terra per portare vita»; o «La mia anima è turbata», pensando che anche Gesù ha versato lacrime, ha sudato, faticato, ma ha detto «sì» e da quel «sì» siamo nati noi.

Omelia III domenica di Quaresima

Pennabilli (monastero Agostiniane), 3 marzo 2018

S.Cresime a 5 giovani della parrocchia di Sant’Agata Feltria

Es 20,1-17
Sal 18
1Cor 1,22-25
Gv 2,13-25

Ecco un’adorabile “imboscata” che la Provvidenza del Signore ha preparato per voi: ricevete il sacramento della Cresima nel pieno della giovinezza e della maturità. Preciso: la Cresima non è una benedizione, è un sacramento, cioè azione che Cristo Signore compie su di voi, un’azione efficace, anche se va al di là del sentire, del vedere, del racchiudere.
Anche se sentirete un profumo, quello del crisma, è solo un’allusione al profumo di un bacio che il Signore stampa sulla vostra anima: tornerete diversi da come siete venuti. Anche se vedete davanti a voi un vescovo (ministro della Cresima), è proprio un successore degli apostoli a cui il Signore ha dato il compito di donare lo Spirito Santo mediante l’imposizione delle mani. Anche se siete racchiusi in questo luogo così suggestivo (il monastero delle Agostiniane), l’azione che il Signore compie su di voi ha il potere di mandarvi in mezzo al mondo per essere testimoni di lui e del suo Vangelo.

2.

Ecco davanti a voi infinite strade e possibilità. Nessuno vi obbliga a prendere questa o quella. C’è chi riesce a navigare su questa indeterminatezza, ma credo non sia felice e neppure veramente libero. Un’allusione a questa situazione è ben raffigurata da un film (fantascientifico) uscito nel 2012 in Italia, Mr. Nobody. Ricorre spesso nella sceneggiatura del film l’immagine di una selva di binari che si incrociano. Infinite strade, infinite soluzioni. Paradossalmente una libertà che non si esprime. È proprio della libertà scegliere, decidere, preferire. Voi avete scelto, avete deciso, avete preferito. Dal mare sconfinato dell’indeterminatezza vi dichiarate cristiani e volete esserlo ben sapendo che si tratta della scelta impegnativa che è l’adesione ad una persona. Forse qualcuno, o più di uno di voi, ha già scelto la persona con cui vivere e fare famiglia. Scegliere è anche scartare, ma soprattutto scegliere è amare. Voi ci state dicendo che amate Gesù Cristo, che in lui trovate il senso della vita. Ok: non conoscete molto di lui (chi può dire di conoscerlo pienamente?); forse non capite neppure il sacramento che state per ricevere. Non preoccupatevi. Ascoltate quello che il Signore disse a Pietro quando non voleva lasciarsi lavare i piedi: «Quello che io sto per fare tu non lo capisci, lo capirai un giorno» (cfr. Gv 13,6-7).
La liturgia ci ha messo davanti il dono delle “dieci parole”. Preferisco dire “le dieci parole”, anziché “i dieci comandamenti”. La prima formula è più vicina alla Bibbia. Di solito per legge intendiamo regole e obblighi, necessari per il buon funzionamento della società e sanzionati da pene per chi trasgredisce. Nella Bibbia la legge (Torah) ha un significato più ricco: è la sapienza che spiega il nostro essere. Non nasce da una convenzione, ma da una esperienza di reciproca appartenenza e, prima ancora, nel contesto di un atto di liberazione. Come una battuta: vuoi sapere come funzioni? Chiedilo a chi ti ha fatto. Il Decalogo così inteso è Vangelo, cioè buona notizia per noi. È la nostra piena realizzazione ed esperienza di libertà.
C’è una sorta di aritmetica delle “10 parole”: il numero di 10 è ottenuto legando la seconda parola alla prima e facendone una sola: «Non avrai altro Dio all’infuori di me» e «non ti farai alcuna immagine…» e sdoppiando l’ultima riguardante il desiderio cattivo in due “parole”: «Non desiderare la moglie del tuo prossimo» e, al decimo posto: «Non desiderare la roba d’altri». Ma tutto il Decalogo può essere riassunto in due parole: «amare Dio» e «amare il prossimo». In questo gioco aritmetico si può anche arrivare ad una sola “parola” dalla quale tutto discende: «Io sono il Signore Dio tuo». La nostra verità, l’antropologia di Gesù, non è che questa: «Io sono tuo». E questo è motivo di gioia.
Il Signore donandoci il suo Spirito ci rende capaci di crescere in questo rapporto con lui, di corrispondere al suo amore, di stare nella sua volontà.
Per concludere possiamo anche dire, rispetto ai contenuti del Decalogo, che un primo grappolo di parole (le prime tre) si riferisce direttamente alla nostra relazione con Dio; il secondo grappolo si riferisce al grande dono della vita (onorare la sua origine nel padre e nella madre, non spegnere il suo essere nel presente, non insidiare l’intimità che la fa sbocciare); il terzo grappolo riguarda le parole che riguardano le nostre relazioni con gli altri. Preghiamo con le parole del Salmo che abbiamo cantato poco fa: «Gli ordini del Signore sono giusti, fanno gioire il cuore; i comandi del Signore sono limpidi, danno luce agli occhi» (Sal 18,8).

Omelia nella S.Messa in ricordo di don Giussani

San Marino (chiesa di San Francesco), 25 febbraio 2018

II domenica di Quaresima

Gen 22,1-2.9.10-13.15-18
Sal 115
Rm 8,31-34
Mc 9,2-10

Celebriamo quest’Eucaristia in memoria di don Giussani, come ringraziamento a Dio per il grande carisma che ha donato a lui e, attraverso lui, a tutta la Chiesa. Molti dei presenti possono testimoniare come l’incontro con lui abbia avuto il significato di una immensa dilatazione della vita, dell’intelligenza e del cuore.
La liturgia, per ben due volte nel corso dell’anno liturgico, ci mette di fronte al mistero della Trasfigurazione del Signore: il 6 agosto e la seconda domenica di Quaresima. Inoltre, l’avvenimento è riferito da tutti i Sinottici e nella Lettera di Pietro. In questo modo viene sottolineata l’importanza di questo evento per Gesù, per i suoi apostoli e per ciascuno di noi.
Come Pietro, Giacomo e Giovanni lasciamo che il Signore ci chiami a lui, «soli in disparte». Soprattutto in questo tempo di Quaresima, cerchiamo di fare in modo che non manchi mai lo spazio per la preghiera. Gesù fu molto radicale su molti aspetti: nei confronti del denaro, della testimonianza, del modo di vivere la sessualità, ecc. Ha esigito una radicalità anche per la preghiera. Come vescovo mi assumo tutta la responsabilità e la fierezza di aver indicato a alla Diocesi, attraverso la Lettera pasquale, l’urgenza della preghiera. Se c’è poca santità in noi, se la nostra società fatica a progredire è perché non si domanda. Mentre la grazia viva è dono di Dio, esclusivamente suo, senza nostro concorso, la perseveranza viene dalla nostra preghiera. «Senza di me non potete fare nulla» (Gv 15,5), dice il Signore.
Di fronte al racconto della Trasfigurazione secondo Marco vorrei fare tre sottolineature.

    a) Voi certamente conoscete il contesto (cap. 8). C’è la dichiarazione franca di Pietro sulla messianicità di Gesù, seguita dalla precisazione circa tale messianicità, fatta da Gesù: «Il Messia dovrà soffrire» (v.31). Messia sì, ma… Messia sofferente. Lo sappia chi vuole seguirlo (vv. 34-38). L’identità messianica di Gesù è costantemente protetta (29 volte nei Sinottici, 12 volte in Marco) dall’ingiunzione di conservare il segreto; perfino a Satana, dopo l’esorcismo che è avvenuto, Gesù chiede che non divulghi che lui è il Signore. L’ingiunzione rigorosa del segreto contrasta con l’episodio della Trasfigurazione: questa volta il segreto è svelato, nonostante poi l’ennesima proibizione di divulgare l’esperienza (v.9). Il segreto messianico è, in questo contesto, la chiave interpretativa del racconto: la Trasfigurazione è uno spiraglio aperto per i discepoli sul destino finale del Cristo Risorto. Solo a Pasqua, quando il Figlio dell’uomo «sarà risorto da morte» (v.9), essi comprenderanno il paradosso del Messia glorioso sofferente e se ne faranno annunciatori in tutto il mondo.
    b) Marco, per descrivere la Trasfigurazione, attinge abbondantemente al linguaggio veterotestamentario e all’esperienza di Israele con Dio (la menzione dell’alto monte, la nube, la notte, le vesti sfolgoranti, la presenza di Mosè ed Elia, la voce, il timore, non tanto la paura, ma l’atteggiamento di chi è cosciente di essere davanti alla maestà divina) per aprire varchi sull’origine divina del messianismo di Gesù: egli è veramente il “Figlio di Dio, l’amato” (v. 7), che tuttavia porterà a termine il mandato del Padre attraverso la sconvolgente via della croce (cfr. Rm 8,31-34). Non vi è altra salvezza se non quella che passa attraverso lo “scandalo” della croce, del Dio Crocifisso. Questo è l’insegnamento fondamentale di Marco. Alla fine del suo Vangelo sarà un centurione romano a fare la grande professione di fede: «Veramente, quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39). Chi prende per mano l’evangelista Marco e fa tutto l’itinerario da catecumeno dovrà arrivare a riconoscere il Signore non tanto nella Trasfigurazione o nella moltiplicazione dei pani o nei prodigi, ma quando sarà innalzato da terra crocifisso.
    c) Ancora un’ultima sottolineatura di Marco. Pietro – ma in Pietro siamo tutti noi, la nostra comunità, la Chiesa di oggi – crede che quel tempo finale e glorioso sia giunto (v.5). Marco, in tono comprensivo e un po’ ironico mostra che sta prendendo il solito abbaglio! («Non sapeva quello che diceva», v.6). Pietro, come tanti contemporanei, era imbevuto di attese messianiche (l’Apocalittica attendeva per gli ultimi tempi la trasformazione dei giusti in uno splendore ultraterreno e sfolgorante).

Un monito: la comunità cristiana non deve “sedersi”; ogni trionfalismo è quasi sempre un “granchio”. Alla comunità non è dato che «Gesù solo» (v.8) e il suo Vangelo («ascoltatelo», v.7). Ritrovo qui una delle prospettive dell’insegnamento e dell’esperienza di don Giussani. È soltanto a Cristo che la comunità deve saldamente attaccarsi. È solo la sua parola che deve dirigere ogni paura e ogni preoccupazione. Solo così la comunità sarà immunizzata dalle ricorrenti tentazioni di voltare le spalle alla croce e lasciarsi abbagliare da compiacenti, ma estremamente equivoci, sogni di gloria.

Mi piace applicare questo messaggio evangelico anche alle situazioni concrete che appartengono al nostro quotidiano. Mi sono appuntato due piccole esperienze personali in cui mi capita di vivere la Trasfigurazione in contesti che non mi aspetto. Accade nell’incontro con le persone. A volte vedo rispetto, cortesia, buona educazione, ma ci sono momenti in cui vedo le persone con occhi nuovi, diversi, ad esempio nella comunicazione di un dolore, in un dialogo schietto… Lasciamoci sorprendere dalla persona che abbiamo di fronte, impariamo a coglierne tutta la ricchezza.
Un’altra esperienza proviene dal mio guardarmi allo specchio: vedo le rughe, le stanchezze… Ma qual è la bellezza vera? La vedo in una vita spesa, offerta, consumata. Prego perché questa settimana sappiamo vivere la Trasfigurazione, ad esempio offrendo un sorriso al posto del broncio e mettendo in rilievo la gioia nella fatica del lavoro. È l’amore che illumina, trasfigura, trasforma tutta la nostra vita.

Omelia nella S. Messa di chiusura della Visita Pastorale alla parrocchia di San Marino Città

San Marino Città, 28 gennaio 2018

IV domenica del Tempo Ordinario

Dt 18,15-20
Sal 94
1Cor 7,32-35
Mc 1,21-28

(da registrazione)

1.
Incomincio salutando i ragazzi che stanno per ricevere il sacramento della Cresima. Può succedere – statisticamente accade – che, quando tornerete al posto dopo aver ricevuto la Cresima, i vostri familiari e alcuni amici provino, nei vostri confronti, una forma di soggezione, perché sentiranno che voi non appartenete più soltanto a loro. Avvertiranno che qualcosa di particolare è accaduto in voi. Potrà succedere anche che, durante la liturgia, portiate la mano alla fronte e sentiamo l’umido lasciato dall’olio mescolato col profumo, il crisma benedetto: sappiate che è il segno di un bacio, il bacio di Gesù, un bacio che non si cancellerà mai più, qualsiasi scelta o appartenenza viviate in futuro.

2.
Intelligenza e cuore mi confermano che la Visita Pastorale non è stata un adempimento burocratico e, men che meno, una noiosa ispezione.
La parola che indica la mia vocazione – sono vescovo – significa etimologicamente “sorvegliare, vegliare da sopra”, cioè “prendersi cura, proteggere, avvolgere di attenzione”. Ecco chi è il vescovo.
Di che cosa si prende cura il vescovo? Anzitutto dell’integrità della fede di una comunità: che nessun insegnamento di Gesù vada perduto. Poi si prende cura dell’unità fra i membri di una parrocchia-famiglia. Attenzione: unità non è uniformità. Persino i conflitti sono possibili, ma si impara a gestirli nella carità. Si prende cura della santità di ciascuno dei membri della Chiesa, assicurando i mezzi di santificazione (con la cura della liturgia e con la disponibilità dei sacerdoti per il sacramento della Confessione e per la direzione spirituale). Infine, si prende cura che la comunità – come una sposa – cammini piena di entusiasmo verso il suo sposo, Gesù Cristo, che non perda mai la tensione verso di lui, perché la Chiesa deve indicare il Cielo, pur occupandosi di tante cose della terra (cfr. Ef 1,10). Ad esempio, il campanile posto accanto alla chiesa è come una freccia che indica il Cielo.

3.
Ho abitato tra voi con questi pensieri. Che cosa ho visto? Che cosa ho vissuto?
Ecco una delle cose più belle che porto via con me. Ho fatto famiglia con i vostri preti. Ho dormito e mangiato nella loro casa. Mi sono reso conto delle loro fatiche. Non mi sono scandalizzato affatto per le tensioni (accadono in ogni famiglia!). Insieme abbiamo riso e scherzato. Abbiamo lavorato. Abbiamo pregato, la mattina, quando era ancora buio, davanti al SS. Sacramento. Mi hanno accolto e voluto bene. Penso che san Giovanni Bosco sia fiero di questi suoi salesiani!
Dico il mio grazie per avermi mostrato la parrocchia per quello che è, senza finzioni, e per avermi fatto incontrare tante persone. A voi dico: «Avvantaggiatevi della loro presenza; di ognuno cogliete la singolarità».

4.
Mi sono reso conto delle difficoltà legate alla vastità e alla configurazione geografica della parrocchia. La prima volta che sono venuto da solo ho impiegato 40 minuti da Santa Mustiola a qui. Mi sono perso. Menomale che don Roberto mi ha rincorso e riaccompagnato alla chiesa. Questa dispersione del territorio non aiuta; si fatica a conoscersi tutti e a sentirsi comunità. Oltre alla chiesa parrocchiale, poi, ci sono altre cappelle, con gruppi fervorosi di fedeli. I sacerdoti vanno a celebrare l’Eucaristia e fanno il possibile per tenere il collegamento, perché queste comunità sono parte dell’unica parrocchia, non entità “solitarie”.

5.
Nell’assetto parrocchiale accade una cosa singolare: sono i bambini, i ragazzi e i giovani che attirano e fanno parrocchia. Ho visto tutti i giorni il piazzale della chiesa pieno di automobili: erano genitori e nonni che accompagnavano bambini e ragazzi all’oratorio. Chi di loro aveva tempo osava entrare. Li ho visti contenti, contagiati da un clima bello e gioioso. Ho ripensato ad una conversazione tenuta da un professore al Museo etnografico di Bolzano. Quel professore aveva condotto me e i miei amici a vedere la celebre mummia del Similau, Ötzi, un uomo di 8 mila anni fa trovato tra i ghiacci in alta quota. Dopo aver descritto il territorio complesso del Trentino-Alto Adige, il professore ci chiese: «Secondo voi, chi ha scoperto i valichi alpini? Chi ha tracciato i sentieri più antichi e strategici? Chi, ad esempio, ha aperto per primo il Brennero?». Ha concluso: «Sono stati i camosci, i caprioli, i cervi e tutti gli altri animali inseguiti dagli antichi cacciatori, come Ötzi». Le prede, inseguite, sapevano sfuggire evitando burroni, aggirando ostacoli, scansando spuntoni di roccia, cercando traiettorie più rapide. Così le prede hanno insegnato ai cacciatori sentieri e passaggi. Vorrei dire a san Giovanni Bosco: «Caro don Bosco, hai vinto la scommessa. Avevi ragione: sono i più piccoli ad aprire il cammino e a favorire quello degli adulti, sono i ragazzi dell’oratorio, gli scout, i ragazzi del catechismo, i vari gruppi di giovani, che ci conducono alla parrocchia e fanno della parrocchia un luogo di attrazione, di incontro e di amicizia per tutti». Lasciamoci attrarre, andiamo a Gesù, il Signore! Che il carisma di don Bosco sia custodito, anche al di là di questo o quel sacerdote…

6.
Il territorio della parrocchia abbraccia anche il centro di San Marino con le sue istituzioni politiche, amministrative, finanziarie, educative. Ho fatto visita a molte istituzioni. Per me è stato a motivo, anzitutto, di cortesia. Non sono andato per chiedere privilegi, ma semplicemente per assicurare la volontà di collaborazione a vantaggio del bene comune. Sono andato per dichiarare l’impegno dei cristiani per la vita, per la famiglia, per l’educazione della gioventù. E se una cosa ho chiesto con forza e con soavità – una sola – è stata quella di avere libertà di parlare di Gesù e del suo Vangelo.
Ho potuto andare in tutti i luoghi dell’istruzione e della formazione, dagli asili nido – che, insieme alle altre scuole d’infanzia, sono un fiore all’occhiello di San Marino – all’università, dove sono capitato proprio nel giorno delle lauree.
Dove sono stato ho messo in rilievo due grandi lezioni di etica politica che ho apprezzato nella nostra Repubblica (speriamo non siano solo teoria). La prima: il potere come servizio. Il potere consegnato ai Capitani Reggenti, dopo sei mesi viene respinto e i due Capitani Reggenti tornano comuni cittadini, riprendendo il loro lavoro precedente. Il potere non appartiene alle singole persone, perché migliori delle altre. Essi hanno semplicemente svolto un servizio! Seconda lezione: il giorno del passaggio dei poteri fra la coppia dei Capitani Reggenti che scende e quella che sale sono invitati alla cerimonia gli ambasciatori di più di cento Paesi. Quel giorno si realizza nella Repubblica un sogno, un bozzetto del “mondo unito”. Fra le nazioni, la piccola Repubblica è un concreto segno di pace, di libertà, di spiritualità. E che cos’è questo se non civiltà?
Allora faccio un appello a tutti voi, ai giovani specialmente: non state alla finestra a guardare e a criticare; partecipate, assumete responsabilità, studiate le cose che riguardano la società (non sono soltanto economia, finanza… ci sono tanti aspetti della vita che non vanno trascurati).

7.
Poi do un messaggio ai bambini e ai ragazzi: conoscete le volpi di Sansone? Sansone voleva mettere a ferro e a fuoco i Filistei e ha escogitato un trucco. Ha legato delle torce alle code delle volpi, ne ha radunate molte sotto un cesto e poi ha acceso il fuoco. Le volpi sono scappate rapidamente e si sono tuffate nei campi di grano dei Filistei: si è creato un incendio globale. A quel punto i Filistei si sono arresi, hanno alzato bandiera bianca (cfr. Gdc 15,4-5). Non vi insegno ad essere piromani, ma ad incendiare d’amore la città, la scuola, la palestra, il campo di calcio, ecc. Potete mettere amore fra papà e mamma, fra gli insegnanti, invitare tanti vostri amici a venire in parrocchia ad incontrare Gesù. Non dite mai: «Siamo troppo piccoli!». Non siete troppo piccoli per amare, per essere apostoli.
Il mio cuore va anche agli adulti che ho conosciuto in questi giorni. In questa parrocchia si vive un’esperienza molto interessante. Ho visto gli adulti lavorare insieme con i giovani, in una reciproca inclusione e collaborazione. L’ho vista in tante realtà: penso agli ex- allievi, ai cooperatori, ai ragazzi che al venerdì si radunano per giocare insieme…
Coraggio, andiamo avanti! Come ci ha insegnato la pagina del Vangelo di oggi: Gesù è grande, attrae, vince il male. Addirittura, ha stanato non il male che c’era in piazza – macroscopico – ma quello nel cuore di qualcuno che era in sinagoga (la sinagoga era la parrocchia degli Ebrei). Ha scovato il male che c’è a volte nei nostri cuori. «Signore, liberami dagli spiriti cattivi e fa’ che anch’io possa godere del tuo abbraccio». Così sia!

Omelia nel Natale del Signore – Messa della Notte

San Leo (Cattedrale), 25 dicembre 2018

Is 9,1-6
Sal 95
Tt 2,11-14
Lc 2,1-14

(da registrazione)

Stiamo cantando le meraviglie del Signore: il Signore è grande. Ma il segno che ci è dato è quello di un bimbo. Gesù nasce in un clima di tensione, di disagio, di povertà. Nasce al tempo del censimento che, allora, significava umiliazione nazionale, inasprimento fiscale (il censimento era fatto per riscuotere le tasse), lunghi viaggi (bisognava andare nei luoghi della propria origine), scarsità di alloggi (tanto che Giuseppe è costretto a portare Maria a partorire in una stalla). I primi a riconoscerlo sono rozzi pecorai, malvisti dalla società di allora, inabili persino a testimoniare. Vien detto loro che troveranno il Messia nella forma di un fragile neonato, che tra l’altro diverrà profugo. Perché questi accenti?
Il Natale confligge con tante situazioni. Anzitutto il Natale cristiano confligge con il Natale comune: cenoni, regali, viaggi, ecc. Esso non ha nulla a che fare con il Natale di Gesù. È un momento di euforia dopata per dimenticare la crisi. «Buon Natale» – si dice –, auguri a raffica. Sia ben chiaro: non ho nulla contro le luci e contro i pranzi famigliari. Il problema è che si festeggia senza il festeggiato. Questo è il primo motivo di conflitto.
Poi, il Natale di Gesù confligge con una certa forma di religiosità, precisamente quella che da Dio si aspetta fortuna, salute, successo. A questi il Bambino di Betlemme dice: «Quelle cose chiedetele ai vostri dei, non a me. Come potrei concedervi queste cose? Nasco in una stalla, morirò su una croce». Qualcuno di voi mi dice: «Ma allora sei un Dio da poco, un Dio inutile: che ce ne facciamo di te, se non sai darci le cose che contano e che ci stanno a cuore?». La prima risposta è che Gesù non è Babbo Natale. La seconda la lascio dire a Pierre Claverie, uno dei monaci di Tibhirine, in Algeria, ucciso dai fondamentalisti e, insieme agli altri compagni, beatificato il 7 dicembre scorso. A chi gli domandava: «Perché rimanete in Algeria? Per fare che cosa?», lui rispondeva: «Noi siamo qui a causa del Messia crocifisso. Non abbiamo nessun interesse da salvare, nessuna influenza da mantenere, nessun potere e nessun privilegio da difendere. Siamo qui come al capezzale di un amico, di un fratello malato, in silenzio, stringendogli la mano, asciugandogli la fronte. È, in fondo, la risposta del Bambino di Betlemme. «Non servo a nulla – dite voi – ma sappiate che quando vivete momenti di tensione, siete bastonati dalla vita, vi sentite in uno stato di confusione, io vi sono vicino, sono l’Emmanuele che vi è accanto e vi tiene per mano». Inoltre, il Natale confligge anche con una teologia sbagliata dell’incarnazione. A volte si dice: «La Parola di Dio deve essere presa là dove si trova e incarnata nella realtà della mia vita». Sforzo encomiabile, ma teologicamente scorretto, perché le cose stanno diversamente. Il Mistero del Natale ci ricorda che «tutto è stato fatto per mezzo di lui e nulla esiste senza di lui» (cfr. Gv 1,3). Se crediamo che la realtà è creata dalla Parola di Dio non dobbiamo applicare un bel niente alla realtà, semmai tirar fuori dalla realtà la Parola per farla nostra. Gli antichi parlavano dei “semi del Verbo”. «Tutto è stato creato per mezzo di lui e nulla esiste senza di lui». Ogni realtà, ogni cammino degli uomini, ogni cultura contiene “semi del Verbo”. Se applicare sa di sforzo, scoprire sa di stupore, di meraviglia. È Natale!
Anche quest’anno gli artisti si sbizzarriscono a fare il presepio o le tradizionali icone della Natività. Ci sono i pastori, gli animali, i piccoli borghi, i magi, il bambinello.
Alla fine della Messa si è soliti metterci davanti al presepio. Molti diranno la loro ammirazione per ciò che li colpisce di più: un villaggio lontano, una realistica riproduzione del tramonto, le mura di Gerusalemme, una finestrella illuminata, le stelle, Gesù nella mangiatoia. Voglio dirvi quel che mi piace del presepio. La prima cosa è il vedere che tutti i personaggi convergono verso la stalla della Natività. Pastori, magi, viandanti, casalinghe, pecorelle, tutti vanno verso Gesù. Persino nel presepe napoletano le tante figure, che sembrano poco interessate all’evento, sono sistemate in un movimento ascendente, quasi a spirale, che approda alla mangiatoia. Mi vengono in mente le parole di Gesù: «Innalzato da terra attirerò tutti a me» (Gv 12,32). Innalzato sul legno della croce, ma, prima ancora, sul legno della culla che la prefigura. Sono sicuro che Cristo ci sta attirando tutti, ci sta interiormente seducendo. Ho fiducia che un giorno tanti torneranno, anche se non so come, quando, dove… Il mio augurio è che, dopo aver guardato il presepio, ci mettiamo tutti in cammino con i pastori, in sincero e appassionato cammino verso Gesù.
La seconda cosa che mi colpisce del presepio è la Sacra Famiglia. I pastori sono guidati dagli angeli, i magi dalla stella, ma chi porge il Bambino sono Maria e Giuseppe. Gesù non lo si incontra solo, ma in una famiglia, che lo ha accolto e custodito. Gesù lo si trova non con un percorso solitario, ma grazie ad una comunità, piccola forse, povera, con dei difetti, ma essenziale. Il mio secondo augurio, allora, è che nella nostra ricerca di Gesù non abbiamo paura a bussare alla porta non di Betlemme, ma della nostra parrocchia. Lì potremo riscoprire la necessità e la bellezza della dimensione comunitaria della fede. Andiamo insieme verso Gesù! Così sia.