Omelia nella III domenica del Tempo Ordinario

Pietracuta (RN), 22 gennaio 2023

Domenica della Parola

Is 8,23-9,3
Sal 26
1Cor 1,10-13.17
Mt 4,12-23

Prima di partire da casa ho ricevuto un messaggio che mi ha colpito e rincuorato. Vi racconterò! Il brano di Vangelo proclamato oggi è un pezzo forte per chi è in ricerca vocazionale. Ma prima c’è il discernimento che Gesù fa sulla sua vocazione. Insieme alla preghiera e alla lettura delle Sacre Scritture, si è messo in ascolto di Giovanni Battista e si è fatto battezzare da lui; poi è andato nel deserto, quaranta giorni e quaranta notti, nella solitudine in compagnia del Padre: voleva capire cosa il Padre volesse da lui, in che modo dovesse fare il Messia.
Preciso: Gesù non ha mai abbandonato il seno del Padre, ma era anche pienamente uomo: in lui, come ci insegna la nostra fede, è l’unità delle due nature, umana e divina, senza confusione. Come uomo ha dovuto compiere un cammino ed è stato sottoposto alle tentazioni del diavolo.
Ad un certo punto, “la voce che gridava nel deserto”, Giovanni Battista, è stata zittita: Giovanni è stato incarcerato, perché le autorità non ritengono politicamente corretto quello che dice. Dunque, Gesù è venuto da Nazaret, ha ascoltato Giovanni Battista, è stato nel deserto e tutto questo nel territorio della Giudea, dove Giovanni battezzava. Adesso Gesù torna in Galilea. Ma non è una fuga! Gesù non è esente da prove e anche da paure, vive tutta la gamma dei sentimenti umani, ma non è la paura a farlo tornare. «Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce»: un incipit solenne. Gesù torna in Galilea per adempiere questa Parola, per compiere la Scrittura. Gesù è la luce che viene nelle tenebre, proprio là, a Cafarnao. Cafarnao era una città di confine, un po’ come certe metropoli in cui si trova di tutto; era abitata da una popolazione meticcia (non era una popolazione ebrea doc). Gesù comincia il suo ministero proprio da lì, “luce che brilla nelle tenebre”.
Permettete questa applicazione del Vangelo alla nostra vita: anche ciascuno di noi ha la sua Galilea… È come se Gesù volesse dirci: «Non ti smarrire, non buttarti via, perché non desidero altro che cominciare da te».
Qual è il messaggio di Gesù? «Convertitevi, il Regno dei cieli è vicino». Il centro della frase è «il Regno dei cieli è vicino», allora convertiti, cioè “girati”, prova a vedere il Regno di Dio nella tua vita: il Signore opera concretamente nella tua vita. Domani parteciperò ad un incontro regionale e dovrò trattare come tema “le costanti del modo di agire di Dio”. Di solito nella vita dei santi, nella vita di noi cristiani, nella vita dei profeti, nella Bibbia ci sono delle modalità ricorrenti attraverso cui Dio è agisce. La fede non è altro che riconoscere Dio all’opera nella nostra vita. Abituarsi a chiedere in ogni situazione: «Signore, cosa mi vuoi dire?». Poi, si può sbagliare nell’interpretare la risposta, a parte il caso della volontà di Dio significata (i dieci comandamenti, i doveri del proprio stato di vita…). Sapere cosa il Signore vuole da me, cosa mi vuole far capire, è un’impresa: bisogna pregare molto, stare in ascolto, esercitarsi a fare la volontà di Dio significata per abituarsi a preferire e scegliere sempre la volontà di Dio.

Gesù lungo le rive del mare vede una coppia di fratelli, Simone e Andrea. Pensiamo allo sguardo di Gesù. Gesù vede due uomini di mare e di acqua e li fa diventare roccia per la Chiesa. È una creazione. Sulle rive del mare c’è l’acqua e c’è l’asciutto, come, nella Genesi, Dio separa la terraferma dalle acque: la vocazione è una creazione. Bisogna avere molta fiducia: tutti abbiamo una vocazione. Dobbiamo avere fiducia che il Signore ci ha dato le risorse, le capacità, i “muscoli” adatti per quella vocazione. Bisogna essere fedeli “al principio” (più che ai principi): «In principio Dio creò» (Gn 1,1).
Finalmente arrivo al messaggio di questa mattina: «Buongiorno caro Vescovo, oggi è un giorno veramente pieno di luce. La neve ci ha regalato una giornata molto luminosa e pensavo non fosse un problema per le persone del paese venire a Messa facendo una passeggiata. Io abito un po’ distante e sono arrivata con l’auto. Ho trovato il mio parroco sulla porta che aspettava noi parrocchiani. Nessuno si è presentato e così lui mi ha detto: “Andiamo Graziella, andiamo a pregare per chi non è potuto venire”. Io ho pensato subito a lei, vescovo Andrea, alla sua costanza, alla pazienza che ha avuto nei confronti del mio parroco. La sua determinazione nel voler credere in lui ha portato ottimi risultati. Ora, se è un bravo parroco, sempre presente e attento, è veramente grazie a lei, perché non lo ha mai abbandonato. In chiesa mi sono seduta al fianco dell’altare; poi è arrivata un’altra signora. È stato emozionante quando ci siamo sentite dire che non eravamo solo in due, perché Gesù era accanto a noi. Ci tenevo davvero ad informarla di questa bellissima giornata. Mai arrendersi, mai abbandonare i sacerdoti e credere fino in fondo alla conversione».
Mi sono commosso per questa testimonianza. Sapete cosa c’è nel cuore di un sacerdote? Quando accompagnavo i ragazzi all’ordinazione presbiterale ero felice ed ero inquieto contemporaneamente. Fiducioso nella fedeltà di Dio e nella loro preparazione. Pensoso per le difficoltà che avrebbero incontrato e forse per la freddezza della comunità. A consacrarmi prete è stato il sacramento, ma – lo ripeto spesso – ho avuto la grazia di sentirmi “generato” dalla mia gente. Amiamo i nostri sacerdoti.
Sia lodato Gesù Cristo.

Omelia nella II domenica del Tempo Ordinario

Pennabilli (RN), Cappella del Vescovado, 15 gennaio 2023

Is 49,3.5-6
Sal 39
1Cor 1,1-3
Gv 1,29-34

Ci è familiare – lo ripetiamo diverse volte nella Messa – il grido: «Ecco l’Agnello di Dio!».
Giovanni Battista presenta le “credenziali” di Gesù Cristo e Giovanni, l’evangelista, cent’anni dopo, le presenta a noi. Chi è Gesù Cristo? Giovanni risponde: è l’Agnello di Dio, l’Agnello di Dio mandato per togliere il peccato del mondo, l’Agnello immolato, sacrificato e ne annuncia la preesistenza: «Dopo di me viene un uomo che mi è passato avanti, perché era prima di me». In pochi versetti abbiamo una concentrazione cristologica straordinaria: c’è tutto lo sviluppo del quarto Vangelo.
La liturgia interrompe la lettura del Vangelo di Matteo, che riprenderemo per una lettura continuata, e leggiamo la presentazione del mistero di Cristo che ne fa l’evangelista Giovanni.

Gesù è l’Agnello di Dio. Gli ascoltatori di Giovanni pensavano sicuramente all’Agnello pasquale (cfr. Es 12,1-14) e questo raccontavano ai loro bambini: «Quella notte eravamo schiavi in Egitto… Il Signore venne a liberarci, ci chiese di immolare un agnello e, col sangue dell’agnello, di segnare gli stipiti delle nostre porte, perché l’angelo potesse passare oltre e non colpire». «Ecco l’agnello di Dio», l’agnello da mangiare nella notte di Pasqua: Gesù è l’Agnello pasquale.

Gesù è l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo. Il riferimento al Servo di Jahvè era sentito nella prima comunità cristiana. Nel libro di Isaia ci sono quattro carmi (cfr. Is 42,1-9; 49,1-6; 50,4-9; 52,13-53,12) che descrivono questo misterioso personaggio, che viene chiamato servo, ma che si può anche tradurre con agnello (è la stessa parola nella lingua aramaica): un servo che è mandato a portare la luce al mondo intero. Purtroppo, questo servo si imbatte nell’ostilità del suo popolo e viene percosso, trafitto, ma al Signore piace il suo sacrificio, lo gradisce e lo risuscita. Dunque, nelle parole servo e agnello due “faglie” di Antico Testamento, con armoniche sublimi, mistiche, si incontrano in Gesù. Gesù, l’Agnello sacrificale e pasquale, è pure il capro espiatorio: tutti erano invitati ad imporre le mani su di lui per scaricare simbolicamente i peccati e poi veniva abbandonato nel deserto. Il Servo sofferente, nel quarto carme (cfr. Is 53), è l’agnello che viene cantato come colui che porta sulle spalle, e porta via, il peccato che è nel mondo: noi veniamo risanati dalle sue ferite. Gesù prende su di sé i nostri fallimenti, le nostre inconsistenze, i nostri peccati, perché da soli non possiamo salvarci. La salvezza viene da fuori di noi. Nessuno che sta annegando può tirarsi fuori dall’acqua da solo, pur con tutti gli sforzi. Dire salvezza significa riferirsi alla relazione con un Altro, con un Tu. La parola servo – «Mio servo tu sei, Israele» (Is 49,3) – per noi può avere un’accezione negativa, ma per gli ebrei era un’aspirazione diventare servi di Dio. Essere servo significava essere “servibili”, utili, capaci. Il pio israelita amava poter essere servo di Dio, non era disdicevole, svantaggioso per lui. Gesù è agnello ed è servo di Dio. Anche noi possiamo essere servi e “servi inutili” (cfr. Lc 17,10), che fanno con gratuità, senza ricompensa.

Grünewald, uno dei più grandi pittori tedeschi a cavallo del 1400-1500, ha dipinto con una grande drammaticità il mistero della croce del Signore; di fianco al Crocifisso ha inserito Giovanni Battista che lo indica col dito. Sul fondo la scritta: «Ecco l’Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo».
Mentre nelle mitologie religiose antiche le divinità vengono raffigurate nella pretesa di voler prendere qualcosa dagli uomini, di aspettarsi qualcosa da loro, nella fede cristiana è esattamente il contrario: è Dio che si avvicina allo scorrere della loro vita, perché vuol dare tutto, dando se stesso.
Un’altra sottolineatura. Si parla del peccato che viene “tolto dal mondo”. Nei Vangeli si parla del peccato solo come di una realtà che viene tolta. Vedremo Gesù incontrare peccatori, pubblicani, persone prigioniere del male ma finalmente risanate e liberate. Sfogliando il Vangelo, si direbbe quasi che il peccato non ci sia più, l’ha preso Gesù, se l’è caricato sulle spalle. Questo dà molta fiducia, perché impariamo che il peccato che è in noi è una ferita dalla quale possiamo guarire, un incidente che possiamo superare. Come dicevo recentemente, nelle feste del Natale, il mondo è guaribile.
Ritorna il tema dell’acqua, l’acqua che, ad un tempo, purifica e affoga, allusione ad un’acqua, quella del Battesimo, dove si cedono i peccati e si risorge rinnovati. Quello che è concentrato nel rito è qualcosa che si sviluppa, si irradia.

Il Gesù indicato da Giovanni Battista, che viene dopo di lui cronologicamente, perché compare lungo il fiume, in verità è prima di Giovanni. Si afferma la preesistenza di colui che nel Prologo è stato cantato come il Verbo di Dio, che è presso Dio e che è Dio; il Verbo che si fa carne e viene ad abitare in mezzo ai suoi. Dunque, anche qui c’è un richiamo esplicito al mistero di Gesù e della Trinità.
Gesù viene descritto come Colui che dà lo Spirito, la sua umanità è uno strumento dello Spirito. Giovanni Battista dice che a battezzare lungo il fiume è stato mandato da Dio, affinché potesse individuare fra tutti i pellegrini colui che è il Messia: «Ma come lo riconoscerà?». Lo riconoscerà perché su di lui scenderà lo Spirito, la terza Divina Persona, raffigurata con un’immagine dell’apocalittica, come colomba. Lo Spirito si ferma su Gesù e Gesù diviene colui che dona lo Spirito. Non è un dettaglio secondario; in fondo, tutta la storia della salvezza non ha di mira altro che questo, che i figli dell’uomo, tutta l’umanità, siano pervasi dalla santità di Dio, dal suo Spirito. L’effusione dello Spirito, la Pentecoste, è il punto d’arrivo di tutta la storia della salvezza, perché gli uomini possano essere messi a parte della stessa vita di Dio, possano avere in loro lo Spirito, il respiro di Dio (cfr. 2Pt 1,4). La realtà del peccato è drammatica, ma è bellissima la notizia che non solo il peccato è vinto, ma ci è data la pienezza della vita di Dio. «Vieni, Spirito Santo, riempi il cuore dei tuoi fedeli». Così sia.

Omelia nella Festa del Battesimo del Signore

Pieve di Carpegna (PU), 8 gennaio 2023

Istituzione Lettorato e Accolitato
a fra Giovanni Magini, fra Martino Ellis, fra Gabriele Graziani

Is 42,1-4.6-7
Sal 28
At 10,34-38
Mt 3,13-17

Questa domenica abbiamo ascoltato le prime parole uscite dalle labbra di Gesù secondo il Vangelo di Matteo. Matteo ci ha presentato Gesù bambino sulle ginocchia di Maria, un Gesù adorato e beneficato dai magi, rappresentanti di tutto il genere umano. Adesso Gesù arriva sulla scena e finalmente udiamo la sua prima parola.
Oggi ricordiamo il battesimo del Signore. Gesù scende sulle rive del fiume Giordano. Il lettore antico (forse anche noi moderni) immediatamente collega questo avvenimento con un altro passaggio accaduto proprio sulle rive del fiume Giordano: l’ingresso nella terra promessa. Il popolo d’Israele veniva da quarant’anni di peregrinazione nel deserto, un luogo arido, minacciato dall’arsura e da serpenti e scorpioni. Ma fu un tempo educativo: i quarant’anni nel deserto non sono un castigo, ma sono il momento in cui il popolo d’Israele viene preso per mano dal Signore che lo guida, lo educa, gli dà la legge (le “dieci parole”). Quando Matteo racconta che Gesù scende da Nazaret, arriva al fiume Giordano e fa il suo ingresso, ci richiama tutta questa realtà stupenda. I primi lettori cristiani – Matteo scrive 80 anni dopo la nascita di Gesù – pensano al loro rito di ingresso; anche i cristiani fanno “un passaggio”, ricevendo il battesimo, attraverso l’acqua, sia pure simbolicamente, ma si tratta di un passaggio reale. San Paolo, nel 50 d.C, aveva già sviluppato la teologia del battesimo (cfr. Lettera ai Romani), approfondendo che cos’è il battesimo per un cristiano, però si trova in difficoltà, perché nella lingua ebraica, con il termine tabal si intendevano i riti di abluzione, che si compivano prima dei pasti, o in momenti importanti della vita, oppure quando si andava in sinagoga (dagli scavi archeologici si è osservata la presenza di vasche o piscine  usate per la purificazione, ad esempio delle donne nel periodo dell’impurità oppure degli adulti, quando avevano avuto contatti con un morto, oppure, per qualunque motivo, sentivano il bisogno della purità rituale. Ma il battesimo era un’altra cosa, c’era qualcosa di più, qualcosa di sublime, di ontologico, cioè che riguardava l’essere; non si trattava di una semplice purificazione per rimuovere lo sporco in senso moralistico. A quel tempo l’aramaico era parlato solo in Palestina, ma i cristiani – ormai erano diventati tanti – parlavano il greco (basti pensare alle chiese dell’attuale Turchia, del Nord Africa e a Roma). Per indicare il battesimo adoperano una parola nuova, la parola baptisma, dal verbo greco bapto, che ha a che fare con l’acqua, ma non significa semplicemente purificazione. In questa parola c’è un rimando all’acqua come luogo di morte, perché nell’acqua affoghi, puoi morire. Il battesimo è essere tuffati, immersi, nella morte, non per restarci, ma per risorgere, proprio come è accaduto a Gesù. Per lui entrare nella morte equivale al dono di sé, gradito al Padre, che vuole che i suoi figli amino fino al punto di donarsi, di perdersi. La risurrezione è il segno dell’approvazione del Padre. L’invito è ad andare fino al fondo della propria morte e capire che in quel fondo, lì dove si ha paura di essere abbandonati, di essere soli, proprio lì si incontra il Signore. Il Signore è morto per aspettarci, perché vuole che in quel momento noi sentiamo la sua presenza e perché – se ci fidiamo – si dà il momento più importante della nostra vita.

Matteo ci racconta il battesimo come annuncio di una cosa meravigliosa: morte e risurrezione di Gesù, morte e risurrezione per noi cristiani. Matteo vuol far capire al lettore che quando morirà, in quel momento entrerà nella Pasqua di Gesù. Non dobbiamo pensare solo alla morte fisica come fine della vita, ci sono tante altre esperienze di morte che facciamo. Ad esempio, quella di amare; tante volte per amare bisogna fare un passo indietro, dimenticare se stessi, fare spazio all’altro. Poi ci sono i momenti di fallimento. Il Signore ti aspetta proprio lì. Non ti deluderà.

Finalmente vengo alla prima parola che esce dalle labbra del Signore: «Lascia fare…». Lascia fare al Signore. Questa parola è stata detta anche altre volte nelle Scritture, ma qui acquista una solennità particolare. Ad esempio, quando Pietro, davanti a Gesù che gli sta lavando i piedi, dice: «Signore, tu lavi i piedi a me?» e Gesù risponde: «Lascia fare…» (cfr. Gv 13,6-7). Oppure quando, nella cena di Betania, mentre Marta serve, Maria prende un vaso di nardo preziosissimo (un profumo raro anche ai nostri giorni, coltivato nel Tibet), lo rompe (non ha fatto uscire solo qualche goccia come facciamo noi con i profumi!) e Giuda esclama: «Che spreco!». Gesù replica: «Lasciala fare…» (cfr. Mc 14,4-6). Lasciar fare a Dio.
Fra Giovanni, fra Martino e fra Gabriele, con i quali stiamo pregando stamattina, ci ricordano che è bello lasciar fare a Dio. Anche quelli tra voi che vivono l’esperienza stupenda del matrimonio possono testimoniare com’è bello lasciar fare a Dio. Ogni battezzato deve proclamare che è bello lasciar fare a Dio.

Questi monaci verranno istituiti con il ministero del Lettorato e dell’Accolitato. Al Lettore la Chiesa consegna i Santi Libri (nel passato i cristiani sono stati messi a morte perché i pagani volevano entrare in possesso dei libri sacri; alcuni cristiani li hanno consegnati e sono stati chiamati “traditori” (traditores), nel senso di “chi consegna”. Noi vogliamo essere “traditori” in senso buono, trasmettitori della Parola del Signore, da amare, baciare, venerare, incensare, onorare, ma soprattutto vivere, permettendo che la Parola dentro di noi ci prenda per mano: «Lasciar fare alla Parola». Quando leggi il Vangelo e lo vivi ti trasforma in un altro Gesù.
Gli stessi verranno istituiti ministri dell’Altare, Accoliti (dal verbo greco che significa “camminare attorno” all’altare). Li vedremo servire all’Altare con una grazia particolare (ci sono altri ministri che servono l’Altare, ma loro lo faranno con una grazia speciale). Avranno la consegna di accostarsi all’Eucaristia e potranno, quando non c’è il sacerdote o in aiuto al sacerdote, distribuire l’Eucaristia ai fedeli.
Lasciamo fare a Dio.

Omelia nella Solennità del Natale del Signore (Messa del Giorno)

Pennabilli (RN), Cattedrale, 25 dicembre 2022

Is 52,7-10
Sal 97
Eb 1,1-6
Gv 1,1-18

Il Natale è di tutti. Il sole che illumina le mie finestre non riguarda solo me, abbraccia e avvolge di splendore tutto e tutti. Così il Bambino di Betlemme. Il Natale è per tutti, non è riservato agli intellettuali, alle persone squisite spiritualmente, ad una specifica categoria di persone, ma è per tutti. Il Vangelo della Natività ha una forte carica effusiva: tracima e riempie di significato, di senso, di gioia tutte le persone del mondo. Il Natale è con tutti: siamo tutti convocati attorno al mistero della Natività di questo Bambino adagiato nella mangiatoia. La Natività è da vivere con volontà di perdono, di amicizia, di superamento delle tensioni che talvolta caratterizzano le relazioni; in modo particolare, è da vivere – lo raccomandava il Santo Padre nella Messa della Mezzanotte – con le persone fragili, in difficoltà, povere (sulla terra sono miliardi), a partire da quelle vicine.
Natale di tutti, Natale per tutti, Natale con tutti.

Dopo l’emozione della Messa di Mezzanotte, siamo invitati a fare una meditazione approfondita di una pagina straordinaria, la pagina introduttiva al Vangelo secondo Giovanni: il Prologo. Cerchiamo di sottolineare in questa pagina alcune parole “strategiche”, tecniche, che hanno un significato particolare nella lingua del Vangelo, il greco (alcune volte le traduzioni sono belle ma infedeli, cioè non rispecchiano perfettamente il pensiero di chi scrive).

Questa notte abbiamo letto il racconto della Natività nel Vangelo secondo Luca. Luca ha incontrato Gesù morto e risorto e, come l’evangelista Marco, il primo degli evangelisti, ha narrato la vita di Gesù “con gli occhiali” dell’incontro pasquale. Mentre Marco inizia il suo racconto dal battesimo di Gesù, Luca racconta la vita di Gesù dall’infanzia. Quel Gesù morto e risorto, che è apparso ai primi discepoli, che ha mangiato con loro e che loro stanno annunciando in tutto il mondo, era già il Signore nel momento della sua nascita. Da qui la decisione di Luca di raccontarci l’infanzia di Gesù, evidenziando il ruolo di Maria di Nazaret, la sua mamma. Matteo, invece, racconterà dell’infanzia in modo più succinto e dal punto di vista di Giuseppe.
L’evangelista Giovanni fa un passo ancora più indietro: comincia a considerare “quel Gesù” risorto, che ha incontrato e che ha cambiato la sua vita (Giovanni è il discepolo che ha appoggiato la sua guancia sul petto di Gesù, per dire l’intimità che aveva con lui…) nella sua preesistenza; lo fa adoperando un termine greco con cui dobbiamo familiarizzare: «In principio era il Logos…». I cristiani a cui indirizza il suo Vangelo avevano a che fare con la cultura greca che dava grande importanza alla parola Logos, che noi traduciamo con “Verbo”. Il Logos era considerato ciò che dà significato a tutto, la ragione di tutto, la ragion d’essere della realtà. Anche nel nostro tempo è necessario tradurre la fede cristiana con parole e concetti di oggi (senza trasformare la fede cristiana in un’altra fede). Giovanni, dunque, compie un’operazione teologica straordinaria, ma anche una grande provocazione, perché dice: «Questo Verbo (Logos), che voi filosofi vedete come un principio astratto, immateriale, si è fatto carne». «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). “Carne” (sarx) è un’altra parola tecnica il cui vero significato è “fragilità”. Potremmo tradurre: «E il Verbo si è fatto fragilità». La nostra fede è originale, sconvolgente, straordinaria: crediamo in un Dio che diviene fragile per amore. Nessuna mitologia, nessuna “bacchetta magica”, ma un Dio che si fa fragile, nasce in un luogo di fortuna, si lascia fasciare… e poi coprire di baci. «E il Verbo si è fatto carne».

Il Prologo incomincia con: «In principio era il Verbo». Consideriamo ora la parola “in principio”. È un rimando esplicito a Genesi 1,1 (bereshìt), parola da non intendere in senso cronologico. Gli ebrei, quando dicevano “in principio”, pensavano a qualcosa di analogo al Logos. Giovanni deve essere fedele alla tradizione biblica ebraica: «In principio… Dio creò il cielo e la terra» (Gn 1,1), quindi scrive “in principio” nel senso di “principio di tutto”. Nella comunità cristiana ci sono pagani convertiti (sono greci o comunque appartenenti all’area del Mediterraneo di allora) e ci sono cristiani provenienti dall’ebraismo. L’evangelista Giovanni crea un’opera di inculturazione. Altro termine importante per la tradizione ebraica è dabar che si traduce con “Verbo-parola”.
La Bibbia dice: «In principio Dio creò il cielo e la terra», con la sua parola, con il suo verbo: «Dio disse, e le cose furono fatte», «Dio disse “sia la luce” e la luce fu». La parola mediante la quale il Creatore crea è il Verbo.
Ancora un particolare. Giovanni scrive: «Il Verbo era presso Dio» (pros significa “verso”), ma non in senso statico: l’espressione vuol dire che il Logos era rivolto verso Dio, era nella relazione con Lui.
Quando facciamo nostro il Vangelo, per Giovanni siamo rivolti anche noi, attraverso il Verbo, Gesù Cristo, verso Dio, ed entriamo nella relazione con Lui. Il Verbo è ad un tempo rivolto verso Dio e, nello stesso tempo, mette noi in relazione con Dio.
Nel Prologo Giovanni introduce Giovanni Battista e lo chiama “martire”. “Martire” sta per “testimone”. Secondo il diritto ebraico la testimonianza vale se ci sono due testimoni concordi (servono due testimoni per salvare la verità o per negarla se è una falsità). Noi che cominciamo a leggere il Vangelo di Giovanni siamo coinvolti: se tu leggi il Vangelo diventi “martire” (non necessariamente un martire insanguinato), cioè “l’altro testimone”. In che senso? Se leggi il Vangelo troverai la donna perdonata e lei è testimone del dono ricevuto; troverai il lebbroso che è stato risanato e anche lui è testimone; troverai il cieco che ha riacquistato la vista; troverai i poveri che hanno cominciato a danzare di gioia perché evangelizzati. E chi è il secondo testimone? Il secondo testimone sei tu, è ciascuno di noi che legge.
«Il Verbo si è fatto fragilità». A noi la fragilità spaventa. Ma oggi siamo invitati ad accoglierla perché è stata redenta, ci fa più fratelli e ci rende più solidali verso i fragili. È questione di amore. Accogliamo la fragilità. Buon Natale.

Omelia nella Solennità del Natale del Signore (Messa della notte)

San Leo (RN), Cattedrale, 24 dicembre 2022

Is 9,1-6
Sal 95
Tt 2,11-14
Lc 2,1-14

1.
«Mentre si trovavano in quel luogo si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia perché per loro non c’era posto nell’alloggio». Appena due righe. Il Signore sa cosa c’è nel cuore di ciascuno di noi. Lui saprà dirci la parola giusta e noi ci prepariamo ad accoglierla. A me tocca il compito di proclamare, in questa notte, che il Natale è di tutti. Come il sole che illumina il mio giardino, così la Natività illumina il giardino interiore di ogni persona. Tutti possono trovare nel Bambino di Betlemme, che Maria ha adagiato nella mangiatoia, la speranza. Il Natale è di tutti, perché “fatto” di cose concrete, prossime alla quotidianità: un alloggio di fortuna, forse una capanna, una grotta o una stalla, l’acqua per lavare il neonato, le fasce e la paglia… C’è la mamma e c’è Giuseppe. Poi arrivano i pastori. Il Natale è di tutti.

2.
Il Natale è per tutti, non è un messaggio destinato ad una élite di persone, di intellettuali, uomini di raffinata spiritualità, ma a tutte le persone senza distinzione, soprattutto alle persone provate dalla sofferenza e dalla povertà. La notte di Natale è la notte del censimento, dove ognuno va a ricongiungersi con le sue radici. I bambini, grandi protagonisti nei nostri borghi di montagna, ci prendono per mano. Noi crediamo di tenere loro per mano, ma in realtà sono loro che ci fanno strada, ci fanno uscire dai nostri incubi, ci mettono davanti alle grandi domande, come sanno fare con la loro ingenuità, ci mettono davanti al Mistero e ci riportano alla nostra infanzia, beninteso non all’infantilismo, ma a ciò che costituisce la capacità di essere umili, di abbracciare la novità e di sapersi affidare.

3.
Il Natale è con tutti, è un invito alla condivisione, a farsi l’uno per l’altro dono; contiene un invito al perdono, tutti fratelli. Oggi più che mai stiamo prendendo consapevolezza dell’interdipendenza nella società. Non ci si salva da soli. Il Natale ci chiede di essere portatori di gioia, la gioia di cui parla l’angelo: «Vi annuncio una grande gioia che sarà di tutto il popolo». Ho sottolineato il dimostrativo “tutti”. Per tutti siamo portatori di gioia, e la gioia più profonda del nostro cammino di cristiani è la certezza che siamo amati, amati immensamente. Da questo amore sono nati la creazione nel suo splendore, la redenzione, il perdono; da questo amore nasce il Bambino Gesù. In fondo, l’unico compito della vita, a ben pensarci, è amare, quindi generare ogni persona alla gioia. Ognuno sa cosa vuol dire questa parola così grande e consumata a causa dell’abitudine, ognuno sa dare il contenuto operativo. “Amare con i muscoli”, cioè non “pensare” di amare, ma amare concretamente.

L’atmosfera della festa, le luci, la poesia possono – ahimè – trasformare il Natale in una fiaba, quasi dimenticando il vero motivo per cui si festeggia il 25 dicembre. Anche le mie parole – ne sono consapevole – sono a rischio di retorica. Me ne accorgo, vorrei evitarlo. Che fare? Il Natale è quello narrato dai Vangeli! Riascoltiamo: una natività avvenuta più di duemila anni fa, in un piccolo villaggio della Palestina, precisamente in un campo di pastori, da due giovani sposi che, essendo in viaggio, non dispongono neppure di una casa, di una tettoia per accogliere il loro bambino. Quanta povertà! Ma quanto amore. Bisogna allora riprendere i racconti degli evangelisti e provare a rileggerli. Facciamolo in questi giorni. In questa notte abbiamo sentito leggere il racconto secondo Luca. Anche Matteo ha riscritto la Natività, in un’altra forma. È bello mettere a confronto il racconto dei due evangelisti: i due racconti si completano. Sono diversi, ma complementari. Ad esempio, Luca sceglie di mettere in luce, fra i tanti contenuti, la povertà di Gesù, «deposto in una mangiatoia perché non c’era posto nell’alloggio», onorato soltanto da alcuni pastori che vegliano di notte, facendo la guardia al loro gregge. L’evangelista Matteo, invece, sembra preferire gli aspetti drammatici. Quel bambino fa paura ad Erode, che vorrebbe ucciderlo e cerca con un trucco di convincere i magi, questi misteriosi personaggi venuti da oriente seguendo una stella, ad indicargli il luogo dove si trova il neonato. Così, per mettere in salvo il figlio, Maria e Giuseppe devono fuggire profughi in Egitto, in terra straniera. Ecco Gesù, poverissimo eppure temuto, adorato dai ricchi sapienti che gli portano doni preziosi, come l’oro, l’incenso e gli aromi pregiati, e tuttavia mancante di una semplice culla. Chi è davvero questo bambino? Povertà e grandezza, poesia degli uni e cattiveria di un potente: sono le stesse condizioni che poi questo Gesù, divenuto adulto, conoscerà durante tutta la sua vita. Luca e Matteo hanno incontrato Gesù risorto e l’hanno riconosciuto come Messia, il Signore atteso dalle genti e annunciato dai profeti. Chi lo accoglie, come hanno fatto loro, sperimenta una luce e una forza sorprendenti. Quando leggiamo pagine di profezia trionfalistiche, grandiose, ricordiamoci che la chiave ermeneutica è Gesù Crocifisso: è proprio lui il Signore! Non dimentichiamolo. Impariamo a riconoscerlo nella fede. Anche per noi il segno della grande gioia, del Salvatore annunciato dall’angelo è «un bambino avvolto in fasce che giace in una mangiatoia». Buon Natale!

Omelia nella S. Messa di Natale con gli studenti delle scuole superiori di San Marino

San Marino Città (RSM), chiesa di San Francesco, 23 dicembre 2022

Ml 3,1-4.23-24
Sal 24
Lc 1,57-66

Questo è il foglio destinato a raccogliere i pensieri che devo dire. È bianco!
Permettetemi una confidenza. Ieri sera ho cominciato tante volte a scrivere appunti, ma non sono stato capace di sintetizzare l’esuberanza di temi e di luci del Natale. Di per sé il Natale è la cosa più semplice che ci sia.
Nelle settimane che precedono il Natale (il tempo dell’Avvento) è stato spesso evocato questo annuncio profetico: il mondo è guaribile. Le profezie parlano di lebbrosi che vengono mondati, di ciechi che finalmente vedono, di sordi che odono, di poveri a cui è annunciata la liberazione. Che cosa vuol dire che il mondo è guaribile? Quando ti comunicano che non c’è più niente da fare si va in crisi. Se invece ti dicono: «Puoi lottare, se ce la metti tutta ce la puoi fare!», nasce la speranza. Guardo l’umanità nel suo insieme. A volte mi capita, nella preghiera, di immedesimarmi nelle persone che soffrono. È insopportabile caricarsi di così tante sofferenze. Pensate alla sofferenza delle persone che si trovano in una casa di cura (sabato scorso sono andato in una casa dove ci sono disabili psichici, ieri sono stato un pomeriggio intero con gli anziani, spesso rimasti soli in questi ultimi tempi, al Casale La Fiorina), e alla situazione attuale di povertà e di guerra (freddo e buio senza corrente elettrica).
Cari ragazzi, anche voi venite da un’esperienza di dolore: due vostri amici sono stati vittima di un grave incidente stradale. Questo è il mondo. Il Signore dice che il mondo è salvabile. C’è una prospettiva, un futuro che lui ci promette; la fede ci informa che c’è vita piena. Questo discorso sull’aldilà non dev’essere frainteso. L’annuncio di un mondo guaribile non implica semplicisticamente il rinvio ad un’altra vita; il mondo è guaribile ora «come in cielo così in terra». Ciò provoca il nostro impegno di cura e di fatica per progredire. Sono guaribili sulla terra anche la povertà e la guerra. La povertà non è un fatto “strutturale”, ma contingente: ci sono meccanismi che portano alle situazioni di povertà. C’è spazio per l’impegno, la lotta, il superamento. Si dice: «Ci sono sempre state le guerre; ciò non significa che la guerra faccia parte della struttura dell’organizzazione umana. Si può superare: ecco il messaggio del Natale. Le profezie dell’Antico Testamento proclamano: «Il lupo dimorerà insieme con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto…» (Is 11,6). «Ogni calzatura di soldato nella mischia e ogni mantello macchiato di sangue sarà bruciato… Perché un bambino è nato per noi…» (Is 9,4-5). «Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce…» (Is 9,1). «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci» (Is 2,4). Il linguaggio è poetico, ma dice la grande risorsa che è la nostra fede, che è Gesù.
Concludo con l’emozione che ho provato qualche sera fa quando una parrocchia mi ha invitato al saggio dei bambini delle scuole primarie (quella sera avevo la tentazione di andare a Ferrara perché al Teatro comunale eseguivano la Messa in Si Minore di Bach). C’erano più di cento bambini e la chiesa era gremita. Ma più dello spettacolo mi hanno colpito gli adulti, le mamme e i papà visibilmente commossi davanti ai loro bambini. Ho capito ancora di più quello che è stato il mio augurio per questi giorni: «Menomale che ci sono i bambini…». Quest’anno veniva voglia di lasciare gli addobbi nella cassapanca, invece i bambini provocano e ci prendono per mano, ci fanno andare oltre le nostre paure e ci portano davanti al Mistero che fa grande gli uomini. Noi credevamo di tenerli per mano, ma quella sera erano i bambini che tenevano per mano noi e ci introducevano in una dimensione che non dobbiamo smarrire, quella dell’infanzia – non ingenuità puerile o infantilismo – ma alla riconquista del puer evangelicus che è dentro di noi, cioè la dimensione dell’umiltà e della piccolezza. La piccolezza è il primo requisito per voler bene, per far spazio all’altro.
Abbiamo considerato un mondo da risanare, ma anche ciascuno di noi porta delle ferite.
Il Signore nato a Betlemme ci fa superare i condizionamenti del nostro egoismo, si prende cura di noi e ci fa nuovi: nel suo Natale il nostro Natale. Auguri!

Omelia nella IV domenica di Avvento

Montegrimano (PU), Molino Giovanetti, 18 dicembre 2022

Is 7,10-14
Sal 23
Rm 1,1-7
Mt 1,18-24

La strada che percorriamo verso il Natale è utile e importante per tutti. Siamo passati dalla settimana della vigilanza, in cui abbiamo ricordato la necessità di stare attenti alle occasioni di incontro con il Signore (è venuto, verrà e viene continuamente) alla settimana della conversione: anche Giovanni Battista, a sua volta, ha dovuto sostenere un cambiamento, ha dovuto “girarsi” verso Gesù, accogliere il dono della sua novità. Lì per lì Giovanni non l’aveva riconosciuto, era perplesso, prigioniero dei suoi dubbi: «Sei tu il Messia che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Poi, siamo passati per la settimana della gioia: è Gesù colui che è atteso dalle genti, è Gesù che viene a gridare il Vangelo e ci dice che il nostro mondo, con le sue strutture fatiscenti, è guaribile e chiama me, chiama ciascuno di noi, a compiere le sue opere; anzi, dirà: «Voi farete cose più grandi di me».
Ora è la settimana del sogno, la settimana di Giuseppe. Anche il Giuseppe dell’Antico Testamento era “uomo di sogni”. Giuseppe di Nazaret desidera sposare Maria; anzi, il matrimonio ufficialmente è già avvenuto, ma Giuseppe sogna di fare famiglia con lei, di prenderla nella sua casa e con lei poter costruire un futuro pieno di onestà, di fatica e di gioia com’era nella società di allora, ma anche di presenza del Signore. Nei suoi sogni torna Maria, la sua promessa sposa. Giuseppe non vede l’ora di andare a vivere con lei. Improvvisamente qualcuno lo avverte che Maria è incinta. Tutti i suoi progetti gli crollano addosso: che fare? In quanto marito tradito, Giuseppe dovrebbe ripudiare Maria, con tutte le conseguenze del caso. Giuseppe è sconvolto, ma pensa che Maria non gli sia stata infedele e non vuole farle del male. Eppure, quella gravidanza è sotto gli occhi di tutti. Allora medita di licenziarla in segreto, cosa impossibile in un piccolo paese come quello di Nazaret… Mentre si sta arrovellando, Giuseppe riprende a sognare. Questa volta il sogno non è suo, è di Dio: il bambino che Maria attende viene dallo Spirito Santo, lo ha concepito in maniera verginale, come avevano annunciato gli antichi profeti: «Ecco, la Vergine concepirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, che significa “Dio con noi”» (cfr. Is 7,14). Giuseppe conclude il matrimonio e prende Maria a casa sua. Una volta nato il bambino, Giuseppe, che è del casato di Davide, deve dargli il suo nome allo stato civile. In tal modo quel bambino sarà figlio di Dio per mezzo di Maria e figlio di Davide per mezzo di Giuseppe. Lui, Giuseppe, sarà il padre del Messia che «salverà il suo popolo dai suoi peccati», come dice la Scrittura. Questo pensiero è ancora più sconvolgente: è vero che lui ha sangue blu, essendo di discendenza davidica, ma non è che un modestissimo artigiano di paese e il suo casato è scaduto da secoli… Questa volta Giuseppe non si attorciglia attorno ai suoi dubbi e ai suoi pensieri, ma da vero uomo di fede «fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore», cioè obbedisce alla Parola di Dio.
Il Signore chiede di essere accolto nei nostri progetti e nelle nostre scelte. È lui che progetta, è lui che sceglie. Giuseppe è l’uomo dell’ascolto. A Pietrarubbia è stato ritrovato un dipinto di un autore anonimo marchigiano del XVII secolo in cui Giuseppe è colto di fianco e tutte le linee del quadro convergono sul suo orecchio illuminato, per dire che Giuseppe è l’uomo dell’ascolto.
Giuseppe non parla, nessuna parola di lui nei Vangeli, ma accoglie il disegno di Dio che lo sorprende.
Vi sono due annunciazioni, una narrata dall’evangelista Luca e una dall’evangelista Matteo: l’annunciazione a Maria e l’annunciazione a Giuseppe, perché il Signore si rivolge alla coppia e vuole il “sì” dell’uno e dell’altra. Interessante vedere i paralleli fra le due annunciazioni, consultando il libro della Sinossi (i tre Vangeli scritti da Matteo, Marco e Luca hanno un percorso simile. Fin dall’antichità sono stati accostati. Ci sono punti in cui i Vangeli sono assolutamente concordi, altri nei quali hanno particolari diversi).
In entrambi i racconti di annunciazione Maria è promessa sposa di Giuseppe; ad entrambi il messaggero divino dice: «Non temere…». In entrambe le annunciazioni il bambino si chiamerà Gesù, un bambino che ha origine dallo Spirito Santo. Altri dettagli presentano solo alcune differenze: in Matteo il latore del messaggio è un sogno che viene da Dio; in Luca è l’angelo Gabriele. Giuseppe è chiamato «uomo giusto», Maria è interpellata come «la piena di grazia». Giuseppe è sconvolto, Maria rimane turbata dall’annuncio dell’angelo. Il figlio di Giuseppe «salverà il suo popolo dai peccati» e il figlio di Maria – viene detto dall’angelo – «è santo ed è chiamato figlio di Dio». Giuseppe obbedisce, prende Maria nella sua casa; Maria è disponibile: «Avvenga di me quello che hai detto». Di strettamente lucano è soltanto il racconto successivo della visitazione di Maria ad Elisabetta, quando l’angelo le dice: «Questo è il segno: la tua parente, Elisabetta, ormai avanti nell’età ha concepito un bambino». E Maria partirà per incontrarla e mettersi a sua disposizione.
Questa è la settimana del sogno. Il Papa spesso, soprattutto quando parla ai giovani, invita a sognare, perché il sogno non è soltanto il passato che affiora nelle maglie, allargate dal sonno, della nostra coscienza (il vissuto che elaboriamo e che rappresentiamo dentro di noi), ma è anticipazione del futuro, sogno come desiderio. Il Signore vuole che abbiamo grandi desideri. Nella settimana del sogno e dei desideri diciamo: «Signore, vieni a colmare i desideri del nostro cuore. Solo tu lo puoi fare». Così sia.

Omelia nella IV domenica di Avvento

Fratte (PU), 18 dicembre 2022

Is 7,10-14
Sal 23
Rm 1,1-7
Mt 1,18-24

Ho raccolto da varie persone questa frase: «Spero passino presto il Natale e le feste…». La festa del Natale, così bella, piena di luci e di suggestioni, per contrasto fa sentire di più il dolore, in particolare il dolore per le persone che non ci sono più e hanno lasciato un posto vuoto nelle nostre famiglie. E poi tutto il dolore attorno… C’è anche da pensare ai regali (con sempre meno soldi a disposizione!), alla preparazione del pranzo di Natale, ai parenti…
Il Natale vero, quello che dà gioia nel cuore e porta conforto, è soltanto Gesù. La commercializzazione, l’esteriorità, ci sono, ma l’importante sarà concentrarsi su Gesù. Se c’è Lui, la gioia viene dal profondo. È Gesù che fa bello il Natale, non le vacanze…
Oggi è la domenica del sogno e del “sì”. Giuseppe ha detto un “sì” pieno, totale, alla sua fidanzata Maria. Ma prima che andassero a vivere insieme, Maria aspetta un bimbo. Giuseppe ha subito pensato che Maria avesse detto “sì” ad un altro. Che fare? In un primo tempo decide di farsi da parte. Il Vangelo ci presenta Giuseppe che dorme e sogna. Nel sogno non si hanno le briglie in mano della propria vita: il sogno porta dove vuole. È in quell’atteggiamento che il messaggero, l’angelo, gli dirà di non avere paura, perché è vero che Maria ha detto “sì” ad un altro, ma l’altro è Dio.
Oggi vorrei dire con voi: «Signore, prendi tu le briglie della mia vita. Mi “addormento” e mi lascio condurre da te, come ha fatto Giuseppe». Giuseppe, proprio perché ha lasciato le briglie al Signore, si è trovato coinvolto in questo grande mistero. Sognare per lui significa lasciare al Signore l’iniziativa, come avviene quando le forze ti abbandonano e non sei più padrone di te.
Questa è anche la domenica del “sì”. C’è il “sì” di Giuseppe a Maria, che desidera tanto fare una famiglia con lei. C’è il “sì” di Maria a Dio e poi a Giuseppe. È una storia di “sì”. In questi giorni la liturgia ci presenta una cascata di “sì” che preparano il “sì” di Giuseppe e il “sì” di Maria: il “sì” di Elisabetta, il “sì” di Zaccaria, il “sì” di tanti personaggi della Bibbia, da Abramo in poi.
Questa mattina, mentre venivo a Fratte, ho pensato: «Perché ho detto di sì al Papa quando mi ha chiamato per fare il vescovo? Avrei potuto dire di no, non ero obbligato…». Poi ho capito che, con quel “sì”, ho conosciuto tante persone a cui mi sono legato, persone che prima per me non esistevano. È stato per quel “sì” che queste persone esistono per me ed io esisto per loro. Senza quel “sì” non ci sarebbero tante belle amicizie. Il “sì” è sempre creativo. Quando dici “sì” al Signore, lui compie grandi cose.
Chiedo di essere come san Giuseppe, aperto all’inatteso.
Rinnoviamo insieme i nostri “sì” nel matrimonio, nel sacerdozio, nella professione, nelle responsabilità politiche e sociali, in ogni vocazione. Nel 2023 ogni domenica, in tutte le chiese della Diocesi di San Marino-Montefeltro, alla fine della Messa si dirà un’Ave Maria per le vocazioni. Dobbiamo essere tutti “costruttori di comunità” e fare tutta la nostra parte.

Omelia nella III domenica di Avvento

Pennabilli (RN), Cappella del Vescovado, 11 dicembre 2022

Is 35,1-6.8.10
Sal 145
Gc 5,7-10
Mt 11,2-11

Giovanni Battista, la voce che grida: «Il Signore è alle porte, cambiate vita!», adesso si trova in carcere. Ha osato contestare Erode ed è finito dietro le sbarre. Giovanni Battista non è semplicemente prigioniero di Erode, ma è prigioniero della Parola di Dio di cui è il messaggero. San Paolo, nelle sue Lettere, ripeterà tante volte: «Io, Paolo, il prigioniero del Signore» (cfr. Ef 3,1; 4,1; Fm 1.9). Paolo – ne è consapevole anche Giovanni Battista – sa che la Parola di Dio non è incatenata (cfr. 2Tm 2,9), non è rinchiudibile al di là dalle sbarre: la Parola di Dio corre. Ma Giovanni Battista è anche prigioniero del dubbio, delle sue perplessità riguardo al Messia, di cui ha intravisto le opere. Ha potuto riconoscere il carattere messianico di Gesù, tuttavia pone questa domanda: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Come a dire: «Che cosa aspetti Gesù a manifestarti veramente per quello che sei? Mi aspetto che tu, con un colpo di spugna, annulli tutto il peccato, il male, l’ingiustizia che c’è nel mondo e invece vedo che vai a tavola con i peccatori, che ti circondi di piccoli e di poveri, che sei troppo umile, dimesso… sei tu veramente il Messia o dobbiamo aspettare un altro?». Questo, per Giovanni Battista, è un grande dubbio. Ma il dubbio, in fondo, non guasta. La fede si pone domande.
A volte, davanti a Gesù e alle sue esigenze, capita anche a noi di non capire, di non essere in sintonia. A volte siamo provati dalle esigenze del Vangelo.
Da notare che Gesù non perde la stima per Giovanni. Sul finale della pagina di Vangelo che stiamo meditando lo elogia grandemente.
La location del carcere rappresenta bene tutta la storia di Israele. Giovanni è l’ultima voce che sale dall’Antico Testamento e poi si blocca: con Gesù c’è qualcosa di veramente nuovo, di imprevisto. Le sbarre esprimono l’impossibilità di andare oltre. C’è bisogno di una rivelazione ulteriore.
Sarebbe importante, a questo punto, approfondire il rapporto fra i primi cristiani e la tradizione del Battista. Dopo la morte di Giovanni, il suo gruppo ha continuato ad essere attivo. Pertanto, fu necessario quasi un negoziato fra la scuola di Giovanni Battista e i cristiani, per superare tensioni e difficoltà. Questo brano sembra alludere a questa esigenza: da una parte c’è l’elogio di Gesù verso Giovanni, dall’altra Giovanni manda messaggeri: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?».
Cosa risponde Gesù alla domanda di Giovanni Battista? Gesù non dice né sì né no; sfodera la sua pedagogia: invita a guardare, ad ascoltare e a fare attenzione. Dio, in Gesù, parte dagli ultimi, dai poveri, dai ciechi, dai sordi, dai malati, dai lebbrosi. Questo dovrebbe bastare ai messaggeri di Giovanni: Dio, in Gesù, parte dagli ultimi, dai poveri, dai piccoli. Questa, in fondo, non è altro che la via dell’Incarnazione.
C’è una parola piena di gioia nel messaggio di Gesù: il mondo è salvabile! Sì, il peccato è entrato nel mondo, ha guastato tutto, ci lascia nell’indolenza, nell’ingiustizia, nella pigrizia… Invece Gesù dice: «Guardate, i ciechi vedono, i sordi odono, i lebbrosi sono mondati e ai poveri è annunciata la parola del Vangelo». Queste opere sono un segno della presenza del Regno di Dio che salva e fa nuove tutte le cose. Giovanni deve comprendere il modo di fare di Dio e la pazienza con cui fa crescere piano piano la novità.
Ci si potrebbe chiedere: Gesù, in fondo, ha risanato poche persone… e tutte le altre che invocano salvezza? Gesù raduna attorno a sé un popolo che compie le sue opere; arriverà a dire: «Voi farete cose più grandi di me» (cfr. Gv 14,12).

L’elenco di persone con tante menomazioni – ciechi, zoppi, muti, sordi… – fino alla menomazione totale che è la morte sembra come una serie di specchi nei quali sono riflesse le nostre persone: «Io sono cieco, io sono zoppo, io sono lebbroso, io sono sordo alla Parola di Dio. Sono io che ho bisogno di essere salvato».
Gesù, a proposito del Battista, domanda: «Chi siete andati a vedere nel deserto?». Per ben tre volte Gesù si impone con degli interrogativi. Sembra dire: «Siete andati a vedere un abatino che sta in sagrestia? Avete incontrato una banderuola volubile?». E aggiunge un’affermazione che sorprende: «No, vi dico, tra i nati di donna non c’è nessuno pari a Giovanni Battista». E poi conclude: «Ma il più piccolo tra i miei discepoli è più grande di lui». È evidente che non è un confronto fra persone. Sono a confronto due epoche, due metodi. Il più piccolo dei discepoli del Signore, quando è consapevole di ciò che è, ed è ciò di cui è consapevole, compie le opere del Messia.
È pertinente ricordare a questo punto le beatitudini: «Beati i poveri… gli afflitti… i miti…» (cfr. Mt 5,1-12). La motivazione delle felicitazioni di Gesù è che Dio è vicino, è dalla loro parte. Il Vangelo si conclude con un’ultima beatitudine: «Beato colui che non si scandalizzerà di me», cioè colui che non avrà difficoltà a riconoscere che il metodo di Dio si manifesta non per le armi dei crociati, ma attraverso i segni modesti, ma reali, di una comunità in cui non poche persone amareggiate, chiuse in se stesse, deluse, cominciano ad aprirsi alla speranza.
Nella traduzione della CEI leggiamo: «Giovanni, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli…». Ma c’è un’altra lezione del testo che si traduce in italiano con «mandò due dei suoi discepoli». Nella prassi ebraica per testimoniare, per dichiarare se una cosa è vera o falsa, se una persona è innocente o colpevole, occorre la deposizione concorde di due o più testimoni. Questo fa pensare che i messaggeri inviati dal Battista fossero due. «Andate a dire a Giovanni»: sono due evangelizzatori che portano una parola confortata dalla testimonianza di due paia di occhi che hanno visto e due paia di orecchi che hanno udito. C’è tutto il tema della testimonianza, dell’evangelizzazione: ai poveri è annunciato il Vangelo. «Signore, ti chiediamo di non essere scandalizzati dalle tue proposte, di non avere riserve mentali, di non fare passi indietro. Tutto come vuoi tu. Siamo zoppi che camminano, lebbrosi purificati, sordi che ascoltano. Come direbbe san Paolo, uno che è vivo dopo essere stato morto».
Accendiamo oggi la terza luce: è la luce della gioia. La prima era la luce della vigilanza, la seconda la luce della conversione, impegni che perdurano. La luce della gioia dice che il mondo è salvabile e Gesù chiama me e te, chiede che mettiamo a disposizione mani, piedi e cuore per collaborare alla sua opera: «Voi farete cose più grandi di me».

Omelia nella Festa di Santa Barbara con i Vigili del Fuoco

Novafeltria (RN), Caserma dei Vigili del Fuoco, 4 dicembre 2022

Is 11,1-10
Sal 71
Rm 15,4-9
Mt 3,1-12

Ricordo un fatto di alcuni anni fa. A Bascio, nel luogo dov’era andata a vivere l’eremita diocesana Sveva della Trinità, la Diocesi aveva avviato i restauri della casa canonica. Quando si trattò di restaurare la chiesa di Bascio, con grande sorpresa, fu trovato nel muro, sotto la calce, un affresco di un pittore riminese del Cinquecento, il Coda. Avevamo davanti due possibilità: tacere e coprire l’affresco con una mano di calce (considerando che ci avrebbe ripensato chi sarebbe venuto dopo di noi), oppure restaurare. Davanti ad un capolavoro del Cinquecento, i restauri sarebbero stati sicuramente impegnativi. Nel dialogo con la Soprintendenza delle Belle Arti, ci siamo trovati di fronte ad una nuova decisione da prendere: un restauro interpretativo, mettendo l’affresco nelle mani di un bravo artista, affinché componesse quello che mancava all’immagine ritrovata, oppure un restauro conservativo, per mantenere intatto quello che la storia ci aveva tramandato, senza aggiungere pitture di altri artisti. La linea scelta dalla Soprintendenza fu quella del restauro conservativo.
Cosa c’entra questo con santa Barbara?
Di santa Barbara ci è rimasta appena una traccia. Santa Barbara è una ragazza vissuta nel III secolo d.C., di famiglia nobile; probabilmente ha studiato (ma non sappiamo con certezza) ed è venuta a contatto con il cristianesimo. Viveva nella Bitinia, in Turchia. La Turchia fu una delle culle del cristianesimo, poi, dopo l’invasione islamica, è diventata musulmana. Nel Medioevo hanno pensato che una vicenda così bella come quella di santa Barbara avesse bisogno di un “restauro interpretativo” e hanno scritto su di lei, ma storicamente senza fondamento, quasi delle leggende. Tuttavia, questa ragazza ha avuto un fascino al di là della città in cui viveva e una popolarità così grande che la sua venerazione si è diffusa anche in Europa. Non possiamo affidarci solo ai racconti medioevali. Sappiamo che santa Barbara fu martire e che, tra gli uccisori, pare ci fosse anche il padre. Quello che importa sapere è che questa ragazza ha coraggiosamente scelto Gesù, l’ha amato, è stata capace – lei che era una giovane ragazza – di mantenere la parola che aveva dato, il Battesimo.
Tra le leggende medioevali ce n’è una che a cui si rifà il culto a santa Barbara professato dai Vigili del Fuoco. Si narra che, quando questa giovane donna fu portata al supplizio, si scatenarono fulmini che avrebbero ucciso il padre. Per questo santa Barbara è stata inserita nel gruppo dei santi ausiliatori: sono i santi che il popolo cristiano invoca per un aiuto particolare (invece i santi patroni sono i santi in cui si riconosce una comunità). Santa Barbara viene invocata nel pericolo di morte improvvisa, accidentale, per questo è divenuta patrona dei vigili del fuoco, che svolgono una professione “a rischio” (oggi più del passato), patrona degli artificieri, dei minatori… I luoghi dove si assembrano le armi hanno preso il nome “la santabarbara”.
Oggi ricordiamo santa Barbara e chiediamo di essere, come lei, fedeli al nostro Battesimo. Solo Dio si adora, i santi si venerano, si imita la loro fede, si pregano come protettori nel cielo, come del resto tanti della nostra famiglia che pensiamo in paradiso, benché non canonizzati.
Permettetemi ora una parola di commento sul Vangelo di questa seconda domenica di Avvento. Compare sulla scena Giovanni Battista. L’evangelista Matteo non ha ancora detto nulla di lui, lo introduce di colpo, perché Giovanni è una voce che riassume tutto l’Antico Testamento.
Giovanni Battista sta sul crinale fra l’Antico e il Nuovo Testamento. Qual è il suo grido? Cosa vuole dirci? «Gesù è alle porte, cambiate vita!». E lo dice con parole forti. Molte persone hanno accettato la predicazione del Battista. Invece farisei e sadducei pensano di non aver bisogno di conversione, si proclamano figli di Abramo e per questo presumono che l’appartenenza etnica li metta al sicuro. Giovanni li apostrofa così: «Razza di vipere, chi vi ha fatto credere di poter sfuggire al giudizio di Dio?». Una frase che rende pensosi.
Qual è la novità del Battista?
La Bibbia non è stata scritta di seguito, tutta d’un colpo, ma si è formata attraverso secoli di esperienze di ascolto del Signore, di preghiera. Negli strati più antichi – gli studiosi sanno distinguerli – quando si dice “conversione” si intende la pratica che placa il rimorso. Conversione, dunque, significava fare pratiche religiose, preghiere particolari, digiuni, ecc. In strati più recenti della Sacra Scrittura la conversione diventa più esigente e più interiore: significa cambiare mentalità, stile di vita. Quando sulla scena arriva “la voce”, cioè Giovanni Battista, convertirsi equivale alla decisione di “voltarsi” verso Cristo con la propria vita (fare “inversione ad U”) e considerare Gesù il Signore. L’invito del Battista, a due settimane dal Natale, è questo: «Gesù è alle porte, cambiate vita, cambiate direzione!». Prendiamo la decisione di rinnovare l’adesione al Signore, di dare spazio e tempo all’incontro con lui e di vivere i comandamenti. «Gesù è alle porte, cambiate vita!». Così sia.