Omelia Santa Messa in ricordo di Chiara Lubich

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Cattedrale di Rimini, 21 marzo 2015
VII Anniversario della morte della Serva di Dio Chiara Lubich

Mi è stato dato di incontrare una grande cristiana del nostro tempo: Chiara Lubich, di cui è stato aperto, in questi giorni, il processo canonico per il riconoscimento dell’eroicità delle virtù.
La sua vicenda vi è nota. È vostra concittadina onoraria a motivo del suo messaggio spirituale e universale. Nata a Trento – la città del Concilio – è cresciuta in una famiglia aperta: una madre di sicura fede cattolica, un padre socialista. Nella tremenda esperienza sotto i bombardamenti della guerra che creano distruzione e morte, Chiara sceglie Dio come unico tutto. Con un gruppo di giovani amiche, al suono delle sirene, si rifugia in una buia cantina, sola con il vangelo. Al lume di una candela legge quelle parole che le risuonano in maniera unica, come per la prima volta, l’ultima, l’unica. L’avventura spirituale di Chiara inizia così.
Al calore di un focolare acceso, il piccolo gruppo si riunisce e in esso si raccontano con stupore e sorpresa i frutti del vangelo vissuto e si constata il prendere forma di un “sociale cristiano”. Altri, tanti, e poi tantissimi, si uniranno a Chiara e alle sue compagne con al centro il testamento di Gesù (cf. Gv 17), con la parola dell’amore reciproco. Il focolare non è più il caminetto attorno a cui ci si riunisce, ma lo spazio educativo, l’atmosfera spirituale generata dalla presenza di Gesù promessa a chi è unito nel suo nome (cf. Mt 18,20).
La dottrina spirituale di Chiara non è altro che una modalità semplice e profonda di lasciar vivere il vangelo. È una modalità che appare da subito corrispondere ai bisogni e alle sfide di questo tempo. Qual è l’attrattiva del tempo moderno?

Penetrare nella più alta contemplazione e rimanere mescolati fra tutti,
uomo accanto a uomo.
Vorrei dire di più: perdersi nella folla, per informarla del divino,
come s’inzuppa un frusto di pane nel vino.
Vorrei dire di più: fatti partecipi dei disegni di Dio sull’umanità,
segnare sulla folla ricami di luce e, nel contempo, dividere col prossimo
l’onta, la fame, le percosse, le brevi gioie.
Perché l’attrattiva del nostro, come di tutti i tempi,
è ciò che di più umano e di più divino si possa pensare,
Gesù e Maria: il Verbo di Dio, figlio d’un falegname;
la Sede della Sapienza, madre di casa.

Il brano evangelico che abbiamo letto poco fa è sicuramente tra le pagine ispiratrici dell’esperienza di Chiara o comunque tra le più presenti.

1.
Per incontrare il Signore – ci viene detto nel racconto della concitata anticamera dei greci che vogliono “vedere” Gesù – è necessaria la mediazione della comunità. Il fratello non è un ostacolo, al contrario, l’attenzione e i rapporti sono via maestra per l’incontro con il Signore. La ricerca dell’unità fra tanti, pur diversi, il farsi sinceramente prossimo dell’altro uscendo da sè, non soltanto è ascesi ma apertura ad una nuova mistica: pilastro di una spiritualità di comunione. Sono noti l’espansione internazionale del carisma come i dialoghi promettenti e le feconde aperture che ne sono scaturite. «Ti darò in eredità le genti» (cf. Sal 2): fu una delle parole che hanno risuonato forte nel cuore di Chiara. Parole che richiamano quelle di Gesù appena lette: «Innalzato da terra attirerò tutti a me».

2.
La legge del chicco di grano ripropone tutto il positivo racchiuso nel dono di sé, dove il vero centro della frase di Gesù non è il morire, ma il portare frutto. Lo sguardo del Signore è sulla fecondità più che sul sacrificio. Vivere è dare la vita. Non amare è morire!

3.
Nel cuore dell’esperienza di Chiara c’è l’incontro con il Cristo crocifisso colto nel momento più grande del suo dolore: l’abbandono del Padre. Nel vangelo che stiamo meditando affiorano l’angoscia e il turbamento di Gesù: «Dio mio, Dio mio, perché …».
Non si tolgano dai vangeli i turbamenti di Gesù … come altre volte nei vangeli Gesù è posto di fronte a una sfida drammatica: fidarsi del Padre fino in fondo. Questa è l’ora.
L’ora per cui è venuto, l’ora del suo martirio e del suo trionfo. A salvare non è il dolore, ma l’amore. Si impara da Lui a “non restare nella piaga”, si va oltre, amando. Questo ha imparato Chiara: nel dolore si riconosce il volto di Gesù che ha preso su di sé ogni dolore. Lui è la chiave per costruire l’unità

Omelia S. Messa in suffragio di Ernest Lulashi

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Mercatale, 20 Marzo 2015
 
(Trigesimo)

Gv 7,1-2,10.25-30

«Andate voi a questa festa; io non ci vado… Ma, andati i suoi fratelli alla festa, allora vi andò anche lui».
Va o non va alla festa? Che farà Gesù?
Ci verrebbe quasi da rimproverargli una bugia: dice “no” e poi va! Eccolo tanato!
I suoi parenti, in realtà, propongono uno stile di presenza che Gesù non condivide, non ama, non vuole, non gli appartiene. Gesù non vuole andare per abbagliare e incantare la folla, semmai per insegnare ed essere accanto. E Gesù andrà, ma nella forma discreta, quasi nascosta, per sfuggire ai suoi famigliari. Ci va in ritardo, per by-passarli: loro vorrebbero potersi vantare e avvantaggiare del suo prestigio. In realtà, Gesù va incontro alla croce, e lo sa. Sarà presto oggetto di odio, perché non cerca il successo, né tanto meno l’adulazione, ma la gloria del Padre.
È così anche per noi, per la nostra vita: Gesù viene in “incognito” e non sempre nel clamore della festa. Viene ad segnare il suo mistero, ma senza bagliori. Nessun applauso a scena aperta per lui! Talvolta, la presenza di Gesù provoca tensioni e forse delusione, ma non respingiamolo: ascoltiamo ancora; ascoltiamolo più attentamente. “Che cosa mi vuoi dire Signore attraverso questa esperienza?”. Se lo sapremo ascoltare, finirà per confidarci il suo segreto.
Anche la preghiera ha le sue fantasie; seguitemi… Ho provato ad appoggiare una scala alla croce dove Gesù sta inchiodato. È fatica salire quei gradini, sono molto ripidi!
Ho messo la mia guancia sulla guancia di Gesù, il mio cuore sul cuore di Gesù. M’è parso di sentire i suoi battiti e il soffio leggero del suo fiato, del suo singhiozzo. Ho sentito il suo pregare sommesso: “Padre, perché?”. Mi ha fatto pensare alle domande a raffica dei bambini che continuano a rivolgersi così a mamma e papà: “Perché? Perché? Perché?”. Non sono mai soddisfatti delle risposte e, forse, neppure gli importano le risposte. A loro importa stringere la mano di mamma e papà, essere ben sicuri che sono al loro fianco, che li amano infinitamente.
Così è stato per Gesù, rivolto al Padre: “Perché? Perché? Perché mi hai abbandonato?”. Ma non era abbandonato.
Così è per la mamma e il papà di Ernest, così è per la sorella Jole e il fratello Bledy. Così è per gli amici di Ernest. Così è per tutti noi. La litania dei “perché” è una protesta? Forse. Ma più ancora una preghiera: “La preghiera del perché”!
Intanto siamo qui, sgomenti per quanto è accaduto, ma certi di essere ascoltati. Certi di essere amati. Ce lo assicura il Crocifisso Risorto.
«Signore, aumenta la nostra fede!» (cfr. Lc 17,5).

Omelia IV Domenica di Quaresima

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Serravalle (RSM), 15 Marzo 2015
 
2Cr 36,14-16.19-23
Sal 136
Ef 2,4-10
Gv 3,14-21

Nicodemo scivola nella notte da Gesù. Ma, un giorno, lo ritroveremo coraggioso. Sarà infatti lui che andrà da Pilato a chiedere il corpo crocifisso del Maestro.

Il dialogo notturno con Gesù, ad un certo punto, non poteva più proseguire. Nicodemo non capiva, non credeva: “Come può? … Può forse? …È possibile?”. Allora inizia il monologo di Gesù. Nicodemo avrebbe dovuto sapere dalle Scritture (lui che è maestro in Israele) che nel tempo del Messia ci sarebbe stata una rinascita (una palingenesi, cfr. Ez 36-37). Gesù prosegue e porta Nicodemo, e tutti noi, al cuore del suo Vangelo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16). Il Figlio è la rivelazione dell’amore di Dio, il volto stesso di Dio. Non dobbiamo pensare alla crudeltà di un padre che consegna un figlio alla morte. Il Padre e il Figlio sono una cosa sola e amano l’uomo sino alla follia.

Tutta la vita pubblica di Gesù è la rivelazione dell’identità di Dio e del suo rapporto con gli uomini. Ma, nel momento supremo dell’innalzamento sulla croce, siamo posti di fronte all’abisso della sua profondità e autocomunicazione.

Dio è amore! Non un amore a parole, un vago sentimento, ma un amore concreto. Non un amore ristretto ai limiti nazionali, ma universale, un amore per il “mondo”. La croce diventa il centro di gravità universale! E di attrazione ed erogazione della vita divina.
L’Innalzato è visibile da tutta l’umanità peccatrice e bisognosa di redenzione. A dispetto delle apparenze (il fallimento di Gesù), segna la suprema manifestazione della vittoria dell’amore totale, gratuito, universale di Dio.
L’immagine biblica a cui ci rinvia Gesù è quella del serpente di bronzo che Mosè innalzò nel deserto per soccorrere quanti venivano uccisi dal morso velenoso dei serpenti (cfr. (Num 21,8ss). Gesù è il Salvatore!

Se nell’Antico Testamento Dio si manifestava nel tempio e attraverso la parola dei profeti, ora l’Innalzato è il nuovo tempio da cui l’evangelista Giovanni vede scaturire «sangue ed acqua» (cfr. Gv 19,34; dono dello Spirito 1Gv 5,6).
Gesù è il “sacramento” che opera invisibilmente ciò che significa visibilmente.
In virtù dell’Innalzato anche i credenti vengono innalzati per il dono della vita di Gesù. Entrano nel circuito d’amore della Trinità. Essendo Dio, Gesù è fonte della vita.
La Trinità non è solo l’origine dell’operazione salvifica, ma ne è anche il fine: l’Innalzato, infatti, consegna lo Spirito e introduce nel seno del Padre.
È chiesta una sola condizione: la fede! (cfr. Gv 3.14.16.18).
L’uomo è posto in una situazione di scelta radicale: fede o incredulità. A seconda della scelta il verdetto: pienezza di vita per chi crede, condanna per chi non crede.
Guardiamo il crocifisso. C’è nelle nostre case? Facciamo attenzione alle tre elevazioni nella liturgia eucaristica: durante la consacrazione del pane e del vino, al termine della preghiera eucaristica, prima della comunione.
Alzare lo sguardo e guardare. Guardare e credere. Credere e amare!

Omelia Terza Domenica di Quaresima

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di Pennabilli, 8 marzo 2015

In occasione di quella Pasqua, la prima narrata dall’evangelista Giovanni, Gesù compie uno dei gesti più significativi in ordine alla Rivelazione: il segno del Tempio. Gesù si automanifesta come il vero e unico “luogo” dell’incontro con Dio.
«Chi vede me, vede il Padre» (Gv 14,9), dirà Gesù nell’ultima sera con i suoi discepoli.
Al tempio di Gerusalemme confluivano enormi folle di pellegrini per la Pasqua ed era necessario aprire negli atri il mercato di pecore, buoi e colombe per le offerte sacrificali, dal momento che non riuscivano a portarseli dietro dai luoghi di provenienza. Anche Maria e Giuseppe un giorno acquistarono colombe per offrirle al Signore, quando portarono il bambino Gesù al Tempio (cfr. Lc 2, 22-24). Inoltre, i fedeli venivano dalle regioni più lontane ed erano perciò necessari anche i cambiavalute.
Gesù compie nei loro confronti un’azione simbolica e profetica: prende alcune funicelle che servivano per condurre gli animali e violentemente rovescia bancarelle, soldi e ceste. Il mercato del tempio aveva già acceso d’ira il profeta Zaccaria (14,21), ma la motivazione che spinge Gesù è diversa.
Gesù non se la prende tanto con i venditori o con i loro eventuali affari, più o meno leciti. Il suo obiettivo non è tanto quello di “purificare” il tempio come nel racconto dell’episodio che ci hanno riferito i vangeli sinottici. Gesù aggredisce direttamente l’istituzione del tempio come tale e il culto in essa celebrato. Il tempio di Gerusalemme ha finito il suo compito! Ciò è in linea con quanto Gesù dirà alla Samaritana: «Non più su questo monte o a Gerusalemme adorerete… viene un’ora ed è questa, in cui i veri adoratori adoreranno Dio in spirito e verità» (Gv 4,21-24).
Nella nuova comunità di Gesù non ci sarà più il tempio (cfr. Ap 21,22).
Il gesto compiuto da Gesù è dunque un gesto messianico, non semplicemente un richiamo liturgico-morale.
Gesù, Verbo incarnato, è il luogo della dimora di Dio fra gli uomini. D’ora in poi chi vuole incontrare Dio deve “passare” attraverso di lui, attraverso la sua umanità. Chi vuole rendere culto a Dio deve onorare il corpo di Cristo. E questo ci riguarda tutti. Ricavo due considerazioni non opposte, ma certamente complementari. La prima riguarda i sacramenti, segni efficaci della grazia di Cristo. «Tutto ciò che fu visibile del nostro Redentore è passato nei segni sacramentali». Gesù Risorto è in mezzo a noi, nella sua Chiesa. È presente ed è vivo! Ci è dato incontrarlo, dunque, nella sua realtà beneficante, nella sua potenza terapeutica, nel suo amore forte e delicato, nel suo corpo, sangue, anima e divinità, ecc.
Teresa d’Avila ha scritto pagine straordinarie sulla necessità di “passare attraverso l’umanità di Gesù” (cfr. Teresa d’Avila, Vita).
E beato chi non si scandalizza della povertà dei segni che ha indicato e dei ministri a cui li ha affidati (cfr. Mt 11,6; Gv 6,61).
Ma non sarebbe completa la nostra meditazione senza considerare il corpo di Cristo che è l’organismo vivo della sua Chiesa, il “corpo mistico” e – in qualche modo – l’umanità in tutti i suoi membri, soprattutto i più poveri e i più fragili (cfr. Mt 25,31-46). È la seconda considerazione che attualizza il brano evangelico di questa terza domenica di Quaresima. Non si può ricevere con devozione l’Eucaristia e poi, usciti fuori, lasciarsi andare a critiche astiose e cattive verso gli altri membri della comunità, perché il Pane ci fa tutti un corpo solo in Cristo, una sola famiglia. Non si può dichiararsi cattolici e poi promuovere una campagna contro gli stranieri; anch’essi sono corpo di Cristo. Non è possibile pretendere di agire in nome di Dio e poi uccidere vite innocenti. In altre parole: il culto gradito a Dio non è fatto di cerimonie, ma di atti di amore: «Amore voglio, non sacrifici» (Mt 9,13; cfr. Is 58,6-7).
 

Omelia per l’ordinazione sacerdotale di don Pier Luigi Bondioni

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di Pennabilli, 3 ottobre 2015

1. «Certo, se vi sono delle buone pecore vi saranno anche buoni pastori, perché dalle pecore si formano i buoni pastori». Sant’Agostino ci riporta al cuore della questione vocazionale. Signore, come possiamo essere buone pecore? Cosa ti attendi da noi? Ce lo chiediamo con schiettezza: qual è il punto critico nel rapporto della nostra comunità, e di ciascuno di noi, con la proposta cristiana? Il nodo centrale è la fede: incontro, adesione, consegna di sé alla persona di Gesù Cristo; conoscenza del suo mistero e slancio nella sequela: da chi andremo Signore, tu solo hai parole di vita eterna. Facciamo abbastanza per conoscerlo e farlo conoscere?
Una comunità di cuori credenti ha grande considerazione per le cose di Dio, anzi per l’unica cosa necessaria (ricordate Gesù a Marta…). Un gregge così tiene in grande stima il prete, l’uomo che si mette a servizio del Vangelo, gioca la sua vita per essere strumento della grazia e si mette a disposizione come animatore e guida dei suoi fratelli. E noi, coltiviamo il germe della fede? Ragioniamo col pensiero di Cristo? Cerchiamo le cose di lassù? Da un gregge che si dà questi criteri di vita vengono buoni pastori. La messe è grande, ormai biondeggia. Il Signore chiama operai. Preghiamo perché vi siano risposte generose: per la nostra Chiesa e per il mondo. Si lavora per la pace ed è necessario, ci si impegna nel volontariato ed è bello, ci si interessa di cittadinanza ed è doveroso, ma chi pensa alla salvezza delle anime?

2. «Ma tutti i buoni pastori – continua Sant’Agostino – si identificano con la persona di uno solo, sono una sola cosa. In essi che pascolano è Cristo che pascola». Tra poco don Pier Luigi sarà pastore, ma alla maniera di Cristo.
Permettete una breve meditazione sul sacerdozio di Cristo, sacerdote nuovo. Nell’Antico Testamento c’è un popolo scelto fra tutti i popoli, particolare proprietà del Signore, separato per una destinazione sacerdotale. Dalle dodici tribù di Israele viene separata la tribù di Levi, incaricata del culto del Signore. Dalla tribù di Levi viene presa una famiglia per il Santuario: una volta all’anno il sommo sacerdote vi immola l’agnello (non può il sommo sacerdote candidare se stesso per l’offerta), e l’agnello, mediante la consumazione col fuoco, viene sacrificato. Dall’altare sale una tenue nube tra i profumi dell’incenso. Notate questo procedere per successive separazioni e distacchi; una struttura liturgica piramidale che si slancia verso l’alto arrivando ad offrire nient’altro che la propria inadeguatezza. Dio rimane oltre, al di là nella sua trascendenza: la liturgia dell’Antico Testamento celebra questo. Il sacerdozio antico rimane rituale, formale, esteriore. Confrontiamolo col sacerdozio di Gesù. È su una linea opposta, discendente, inclusiva; procede dall’alto verso il basso per successivi abbracci verso una unità sempre più forte. Il Verbo si incarna: nell’unica persona di Gesù Cristo, natura divina e natura umana sono inseparabilmente unite. Gesù, Verbo incarnato, vive la vicenda umana fino in fondo nella quotidianità di Nazaret condividendo con noi lavoro, fatiche, incontri, amicizie… Poi viene il tempo del suo cammino verso Gerusalemme fino a fare suo il dolore innocente, assumendo la sofferenza e ciò che c’è di più umano, il peccato. Sulla croce sembra toccare il vertice del suo sacerdozio; nel totale svuotamento di sé e nella radicale obbedienza al disegno del Padre si fa dono per l’umanità. «Tutto è compiuto»: sacerdote, altare e vittima; una liturgia in spirito e verità, esistenziale, personale.
3. La risurrezione stessa è un abbraccio. Un abbraccio totale. Nell’Uomo Gesù è iniziata la divinizzazione di tutta la realtà mediante l’effusione dello Spirito. Cose da capogiro, eppure così vicine, cose grandi, ma fatte proprio per noi. Nell’Eucaristia egli continua a donarsi e farsi uno con noi: un pugno di farina impastata nell’acqua, una coppa di vino, diventano sua presenza: «Prendimi, mangiami, bevimi».
C’è dichiarazione d’amore che può spingersi oltre?
Ma non siamo ancora al capolinea. Al fondo di questo abbassamento del Figlio di Dio per unire a sé il mondo ed offrirlo al Padre c’è un ultimo passo: il Signore Gesù dona il suo stesso donarsi.
Caro don Pier Luigi, si colloca qui il tuo sacerdozio, il Signore ti prende perché tu sii una sua presenza, ti cede la sua volontà di donarsi, consegna il suo “io” alle tue labbra. Potrai dire “io ti assolvo…”, “questo è il mio corpo”… Credilo ogni volta che sali sull’altare, vivilo nel quotidiano dono di te. Vita che si fa liturgia. Prestagli le tue mani, i tuoi piedi, il tuo cuore, la tua intelligenza, la tua umanità.
Altissima dignità, ma il prete è sempre un uomo. Un angelo non può essere sacerdote. Azzardo: è stato forse limitato il ministero di Gesù per il fatto che era uomo? Il prete è della stessa creta di cui è fatta l’umanità. Anche dopo la sacra ordinazione continuerai, come tutti, a sentirti fragile, inadeguato, peccatore. Dio non ha orrore degli uomini, al contrario, fa passare la sua grazia attraverso loro. Il prete balbetta appena; eppure Dio gli ordina di parlare. Rimane sempre un apprendista. Il prete è la persona più potente sulla terra perché pronuncia parole creatrici: “Io ti battezzo”; “Io ti assolvo”; “Questo è il mio corpo”… Eppure è l’uomo più povero perché queste non sono parole sue. È Gesù il buon pastore: guardalo don Pier Luigi. Considera lo Spirito Santo che effonde su di te consacrandoti con l’unzione e abilitandoti a compiere le opere del Messia e a proclamare l’anno di misericordia.

Omelia Seconda Domenica di Quaresima

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di Pennabilli, 1 marzo 2015
Succede in montagna quando sali il pendio, fai fatica, stringi i denti e sei tutto sudato… vorresti fermare la marcia e, magari, rinviare la conquista ad altra occasione. Poi d’improvviso si apre davanti ai tuoi occhi uno squarcio: le nubi aprono una finestra e ti lasciano intravvedere la cima tanto desiderata e illuminata dal sole.
Allora confortato da quella visione prendi fiato e, soprattutto, il cammino.
Non è un po’ così anche la nostra esperienza? Il cammino della settimana a volte si fa pesante. Ci sono fatiche, dispiaceri, contraddizioni, responsabilità impegnative… per fortuna la domenica c’è la Messa: è uno squarcio attraverso il quale ci appare Gesù “in vesti candide”, nel candore del pane consacrato sull’altare. Noi alziamo gli occhi. Fissiamo l’ostia bianca e la fede ci assicura che siamo di fronte al Risorto e come Pietro diciamo: “É bello per noi stare qui!”. Grazie a questa “visione” prendiamo forza e coraggio per il cammino che ci resta da fare.
Quando avvenne la Trasfigurazione – così chiamiamo quell’esperienza di luce e di bellezza che avvolse Gesù – gli apostoli stavano salendo a Gerusalemme. Il cuore palpitava per quello che Gesù aveva detto loro anticipando la grande prova. Fu proprio in quel viaggio, che preludeva al sacrificio, che accadde questa esperienza di bellezza.
È nella salita che c’è splendore, e non solo nel raggiungimento della meta. C’è una bellezza che illumina anche il momento del sacrificio, che rende soave quello che è aspro, che rende gustoso anche quello che è amaro. È una bellezza che viene da dentro. “Voi siete luce” dirà un giorno Gesù ai suoi discepoli (Non dice: sforzatevi di esserlo). Questa bellezza è l’amore che trasfigura tutto quello che fai, tutte le circostanze importanti e semplici, che dà senso e gusto alle tue giornate. Ogni momento, ogni aspetto della vita prende luce e sacralità. La fede, infatti, vede Dio all’opera nella propria vita.
Capisco la bellezza della mia mamma, pur con le rughe che incorniciavano il suo volto, pur coi suoi capelli bianchi… capisco la bellezza di quel sorriso che mi perdona e che poi mi incoraggia. Capisco la bellezza di madre Teresa di Calcutta, ormai ricurva e piena di rughe, quella volta che l’ho incontrata ed ho potuto vedere da vicino i suoi occhi.
Così è il volto di ogni uomo come l’ha pensato e lo vede Dio. Vede nel nostro volto niente meno che il volto di Gesù.
Suggerisco una cura di bellezza per questa seconda settimana di Quaresima (rubo lo spunto da un vecchio libro di M. Quoist): stare qualche minuto allo specchio, 5 minuti davanti alla propria coscienza, 10 minuti davanti al Signore in compagnia della sua Parola.
Dio Padre, che ha parlato nel momento della Trasfigurazione, tace e scompare dietro le parole di Gesù. Dice: “Ascoltate lui”! Ascoltando e vivendo il Vangelo, liberiamo tutta la bellezza di Dio sepolta in noi (E. Ronchi).

Omelia Prima Domenica di Quaresima

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

San Leo, 22 febbraio 2015

10° anniversario della morte di don Giussani

 

Gen 9,8-15
Sal 24
1Pt 3,18-22
Mc 1,12-15

1.
Cari amici,
don Giussani vi appartiene e non vi appartiene esclusivamente.
Vi appartiene perché siete frutto della sua adesione al disegno di Dio, nati dal suo “sì”, suoi eredi e portatori del suo carisma nella Chiesa.
Non vi appartiene esclusivamente, perché don Giussani è della Chiesa; è un dono che Dio ha fatto a tutti e tutti ne godiamo. Anche chi non l’ha conosciuto, e forse non si accorge di come il suo carisma sia penetrato, lo saluta e lo festeggia come servo di Dio.

2.
Grazie per il cortese invito rivoltomi a vivere con voi questo momento – il decimo anniversario della sua nascita al Cielo – e, in vostra compagnia, entrare nel grazie che Gesù Cristo dice al Padre con l’offerta della sua vita. Eucaristia: parola piena di luce!
Attratti da Cristo, fatti una cosa sola con lui, ritroviamo il nostro destino e la nostra destinazione ad entrare nel seno del Padre.
È il nostro essere “movimento” nel senso più vero.
E non potremmo farlo, e neppure immaginarlo, se non fossimo presi dallo Spirito Santo, come Elia sul carro di fuoco. Audacia inaudita la nostra: cose grandi, eppure a noi destinate.
Il senso ultimo della nostra esistenza è la dossologia. «Ci ha fatti per te, Signore». E l’inquietudine che sperimentiamo è sintomo dell’infinito a cui siamo chiamati.
Ognuno di noi, creato in Cristo, cammina su un raggio e in questo camminare incontra altri e insieme – ciò che sale converge – diventiamo popolo di Dio, partecipi e appartenenti al mistero che è la Chiesa.

3.
A noi che vorremmo abbracciare tutto e tutto in una volta e tutti insieme, il mistero di Cristo ci è dato di viverlo distribuito nel tempo, precisamente nell’anno liturgico che è come un sacramento dell’incontro con Dio e non un semplice calendario, unità di misura, convenzione per scandire stagioni e giorni. Per questo ci mettiamo alla scuola della liturgia della Chiesa, austera e scintillante ad un tempo, in Quaresima come non mai. Nel cuore della liturgia non c’è un “tema”, ma il Cristo Risorto. Non abbiamo nulla da creare, ma tutto da ricevere. In questo senso la liturgia non ci appartiene, semplicemente vi entriamo con tutta la nostra verità di peccatori, ma figli; con la nostra realtà: corpo, anima, cuore, pensieri, gesti, baci, silenzi e canti, ecc.
Siamo entrati in Quaresima: 40 giorni che poco a poco sono andati caratterizzandosi prima come tempo catecumenale (preparazione al Battesimo), poi come “ordo poentientium” (riammissione alla piena comunione con la Chiesa) e infine, tempo di rinnovamento per tutti. Tempo orientato alla Pasqua, perché la Pasqua di Gesù ci pervada interamente e ci renda “nuovi”. Abbiamo pregato così: “Concedi a noi tuoi fedeli di crescere nella conoscenza del mistero di Cristo”. È l’augurio che Paolo rivolgeva ai Filippesi: «Conoscere Lui e la potenza della sua risurrezione» (Fil 3,10).

4.
Prendo da don Giussani alcuni suggerimenti a questo proposito: “La meditazione sulla liturgia è meditazione su un discorso educativo. Quindi è tanto più valida quanto più coglie la parola che la Chiesa ci vuole dire in quel particolare momento dell’anno. Perciò, se è vero che si può restare colpiti di fronte ad una frase o ad un’altra del testo liturgico, dobbiamo essere attenti a non ridurre la ricchezza di questa meditazione ad una cernita di frasi (…). Spesso – continua don Giussani – è stata operata tale riduzione: si è cioè trattata la Bibbia che è la storia di Dio nel mondo, come fonte di belle frasi – giuste e profonde – ma si è lasciato da parte il contesto, cioè il vero discorso di Dio. Così abbiamo ridotto la Bibbia a sostegno dei nostri ideali morali” (L.Giussani, La liturgia vissuta. Una testimonianza, JacaBook).
Al capitolo 2° della mia lettera pastorale alla diocesi indico una modalità semplice, ma sperimentata, di lettura popolare del Vangelo. Scrivo delle “3 effe”: effe come f-rase, effe come f-rutti; effe come f-atti. L’intenzione non è quella di collezionare belle massime – come si fa coi francobolli di San Marino – per accarezzare nostri estetismi spirituali o selezionare frasi in modo accomodatizio ai nostri gusti, alla nostra sapienza. Faccio tesoro dell’osservazione di don Giussani e rilancio questa modalità di lettura del testo sacro per condurre il lettore-discepolo a cogliere la potenza creatrice racchiusa nella Parola. Come la presenza di Cristo è nel Pane consacrato ed in ciascun frammento, così Cristo è presente in ogni sua Parola, con la forza germinativa e il fascino del suo amore. Davanti ad ogni frase siamo provocati ad una sfida, a scommettere sulla sua verità e a condividerne i frutti. Come la Parola pronunciata sul Pane lo trasforma in Eucaristia, così la Parola pronunciata e accolta su di noi ci fa suo corpo mistico, Chiesa. E la comunicazione – testimonianza delle esperienze, poco a poco, crea il presupposto per un sociale cristiano. Vivere la Parola, coglierne i frutti, narrare le esperienze, è da vivere come la via che il Signore percorre verso di noi e con noi e non tanto la nostra verso di Lui! “La sua storia con noi”. “Tutti i sentieri del Signore – abbiamo cantato – sono amore e fedeltà”.

5.
Questo non accade magicamente. È chiesta vigilanza: cogliere il tempo favorevole, questo!
Don Giussani chiama tutto questo “occasione”. “E l’occasione è la parola che ci viene rivolta e che l’ora dopo potrebbe non esserci riofferta” (op. cit.).
La Parola oggi ci dice che Gesù viene sospinto (cacciato) nel deserto, come se dovesse vincere una resistenza. E in effetti il deserto è un luogo aspro e inospitale, che disorienta e mette paura; esposto alle imboscate delle fiere e dei predoni.
Gesù ci andò e vi rimase 40 giorni; non scappò!
Lasciamoci sospingere dallo Spirito nella Quaresima, anche se sarà tempo di lotta. La menzione delle fiere, propria del Vangelo di Marco, viene da alcuni esegeti interpretata come descrizione di Gesù nuovo Adamo. Il nuovo Adamo, a differenza del primo, è obbediente. Ma le fiere possono essere interpretate anche come il segno di una realtà avversa.
“Gesù stava con le fiere”, ha imparato a viverci insieme. “Aiutaci, Signore, ad imparare a stare come te con gli animali feroci, ad abitare cioè la realtà, bella o brutta che sia, senza scorciatoie e senza evasioni, con coraggio e fiducia, servito dagli angeli, cioè illuminato e sostenuto dalla tua Parola”.
«Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino. Convertitevi e credete al Vangelo». Prima parola – secondo Marco – uscita dalle labbra di Gesù, un invito non tanto a raddrizzare la condotta morale – pur necessario e utile – ma a convertirsi verso di Lui. La parola “conversione” qui appartiene più all’escatologia che all’etica. Il tempo è compiuto. La bella notizia: Cristo! “Salvezza avvenuta”. Una misura nuova è entrata nel mondo, una proposta nuova nella vita.

Omelia Le Ceneri

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di Pennabilli, 18 febbraio 2015

Gl 2,12-18
Sal 50
2Cor 5,20-6,2
Mt 6,1-6.16-18

 
Storicamente la Quaresima si è evoluta da esperienza di catecumenato a Ordo poenitentium… La viviamo come immersione totale nella grazia di Dio, dopo aver ripetutamente sperimentato la nostra fragilità, inconsistenza e tendenza al male.
Non un male generico, ma un male già classificato con precisione nella riflessione e nella diagnostica spirituale antica. Un male “settiforme” e presente, almeno in radice, in ciascuno. Ha il nome di: superbia, avarizia, lussuria, ira, gola, invidia, accidia. Si tratta degli eccessi dei moti dell’animo, di per sé necessari alla vita: sono risorse che vanno, tuttavia, incanalate al bene. Come l’acqua dei torrenti che scende impetuosamente a valle è da indirizzare, incanalare, serbare, impegnare, utilizzare. Allora i sette vizi diventano: umiltà, generosità, purezza, mitezza, sobrietà, benevolenza, laboriosità. Ma questo non accade naturalmente (anche se si tratta di un di più di umanesimo), ma con una cura attenta che indirizza al meglio la nostra persona. È stata chiamata “cura dell’anima”. Oggi è screditata. Quasi ci si scusa ad essere virtuosi (ma quale cosa è più libera della virtù?). Talvolta si considerano superate le forme di “coltivazione dell’anima”. E intanto stanno cedendo tutti i legami umani.
Provvediamo ossessivamente ad un’unica ricerca: quella del consumo e del godimento. Sicuro. La Quaresima è uno dei pochi simboli di sobrietà volontaria che sia rimasto. Un fronte che contrasta il dogma dell’anti-sacrificio a tutti i costi e può contribuire a far crescere generazioni ancora capaci di spiritualità, di pensiero, di impegno.
È un problema personale?
È un problema collettivo. Per fare un esempio: siamo nella parte del pianeta più ingorda e sazia che ci sia. Predichiamo lo sviluppo sostenibile e ci abbandoniamo ad una sorta di religione dei consumi. Non importa come.
Ordo poenitentium!
Sì, penitenti. Ci vogliamo considerare tali. E tutti insieme, come popolo, come Chiesa. Francesco d’Assisi ed i suoi compagni non volevano altro che essere penitenti è un segno della gioia della conversione e della libertà.
Penitenti, sì. Ma insieme, come “Ordo”. Con un legame che ci sostiene e costituisce l’aiuto necessario l’uno per l’altro; come in una cordata. Un influsso reciproco ed incoraggiante.
Il buon esempio, la preghiera, gli uni per gli altri e del sacerdote su ciascuno, la comunione e l’amicizia ritrovata, la pratica sacramentale, sono un dono che ci scambiamo.
È il comune vantaggio dell’abbeverarsi al tesoro della Chiesa dei santi: la Madonna in primis. Un “ordo” che abbraccia tutta la Chiesa, quella visibile e quella invisibile. Quella che lotta sulla terra, quella che si purifica, quella che è già arrivata alla pienezza della gioia. È la comunione dei santi, della quale ogni domenica facciamo professione di fede nel Credo.
Magnifico inizio!
La Chiesa ci propone una partenza su tre piste.
Quella della giustizia con gli altri. Dare generosamente tempo, cose, denaro, energie e presenza. Ma tutto ciò non è buono se non nella discrezione, nell’umiltà, nel silenzio: “Il Padre vede nel segreto”.
Poi la pista della preghiera autentica, riflesso di un cuore profondamente rivolto a Dio. Non l’ostentazione né la dimostrazione pubblica è segno di questa conversione del cuore. Col salmista diciamo: “Dio, tu vedi in fondo al cuore la verità, crea in me un cuore puro”.
Infine la pista dell’ascesi e del digiuno. Non c’è altra possibilità per entrare nella pienezza di vita senza la rinuncia a se stessi o a ciò che soddisfa immediatamente. La gioia è il segno della autenticità. Attenzione: non confondere spontaneo con autentico!
Il Padre vede nel segreto e gioisce per un solo peccatore che si converte.
Buona Quaresima!

Omelia VI Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di Pennabilli, 15 febbraio 2015

Lv 13,1-2.45-46
Sal 31
1Cor 10,31-11,1
Mc 1,40-45

Ancora una volta la mano di Gesù si protende a salvare. Questa volta l’inquadratura potrebbe soffermarsi sull’altra mano tesa, quella del lebbroso. Restiamo colpiti dalla sua audacia: rompe il cordone di sicurezza che lo tiene a distanza a causa del suo male contagioso. Decide di andare verso Gesù. Come è possibile? I lebbrosi non potevano avvicinarsi a nessuno; dovevano vivere ai margini del villaggio e, se uno di loro era in viaggio, doveva velarsi il viso e gridare: «Sono immondo», affinché la gente stesse alla larga. Così raccomanda il libro del Levitico: Il lebbroso porterà vesti strappate, velato sino al labro superiore… è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento (Lv 13,46). Le mani tese del lebbroso sono la sua preghiera: Guardami, Signore. Guarda il mio volto sfigurato. Guarda le mie mani senza dita. Come posso in queste condizione considerarmi creato a tua immagine? E poi la supplica: «Se vuoi, puoi… ». Come si chiamava quel lebbroso audace? Il nome non ci è stato tramandato, forse per dirci che rappresenta ognuno di noi con le sue piaghe. Abbiamo la stessa audacia?
Gesù accoglie il lebbroso, si oppone alla cultura dello scarto. E la risposta al lebbroso è netta, decisa, persino sdegnata a motivo della sua segregazione: «Lo voglio!». (Alcuni codici antichi hanno «arrabbiatosi» al posto dell’espressione «mosso a compassione», correzione dovuta agli esterrefatti copisti che hanno preferito attenuare il coinvolgimento empatico di Gesù). La volontà di Gesù è chiarissima: lottare contro ogni genere di malattia. Siamo davvero lontani dalla convinzione diffusa che ci si debba rassegnare al male come ad una fatalità o che il male sia un castigo divino. Due modi di vedere estranei ai Vangeli. Due idee sbagliate. In altre azioni miracolose Gesù ripete lo voglio; lo grida a Lazzaro: Lo voglio: vieni fuori. Lo dice alla figlia dodicenne di Giairo: Talità kum, cioè, Lo voglio: alzati.
Per l’eccezionale gravità della lebbra, la guarigione di quel lebbroso diventa segno inequivocabile della presenza del Messia. D’ora in poi è tolta la barriera che taglia fuori qualcuno dai rapporti: rapporto con Dio e col prossimo. Eppure, anche nell’era delle comunicazioni, tante barriere emarginano e separano: barriere culturali, etniche, religiose, politiche… Quanti pregiudizi e chiusure, persino fra persone che vivono nello stesso condominio! Gesù non le vuole… Esige l’eliminazione di tutto ciò che costituisce una limitazione dei rapporti. Accetta che il lebbroso si avvicini a lui per proclamare lo scandalo della sua esclusione. Lo rimanda poi alla comunità, perché la sua guarigione sia veicolo per l’annuncio del Regno che si è fatto vicino.

Omelia V Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cappella dell’episcopio, 7 febbraio 2015  

Lo scenario non è più la sinagoga, ma una casa normale, come le nostre. È bello vedere con quale disinvoltura Gesù passa da un luogo all’altro, con la stessa sacralità. Nel primo ascolta la Parola e canta le lodi di Dio, nel secondo dà spazio e tempo all’amicizia, al riposo ed alla convivialità. Come nelle nostre case, in quella di Simone non c’è profumo d’incenso, ma rumore di pentole, odore di vivande sul fuoco e preoccupazioni. E, in un luogo e nell’altro, compie prodigi, segni del Regno di Dio presente che, come lievito, fermenta e, come luce, dà vita al quotidiano.
Gesù dunque entra nella casa di Simone forse per mangiare e stare un po’ in pace. Ma non fa in tempo a varcare la soglia che subito gli presentano il caso della suocera di Simone che è a letto con la febbre. La prima lettura, riferendoci le parole di Giobbe, descrive con efficacia la nostra fragile condizione di uomini: Notti di dolore mi sono state assegnate. Se mi corico dico: quando mi alzerò? I miei giorni sono stati più veloci di una spola, sono finiti senza speranza.
Dal racconto di Marco sembra che Gesù, senza indugiare, rinunci al meritato riposo per andare immediatamente al capezzale della suocera di Simone a guarirla. È un miracolo piuttosto povero di spettacolarità, dove Gesù neppure parla. Ma parlano i suoi gesti. Gesù si avvicinò: va verso il dolore, non lo evita, si immerge negli occhi di quella donna. Le prese la mano: gesto di confidenza e di affetto, forza per chi è stanco. La sollevò: la riconsegna alla propria andatura eretta, alla fierezza del servire. La mano di Gesù viene ogni giorno, come una buona notizia (forse inattesa), quando una parola, un incontro, una telefonata riaccendono la speranza e incoraggiano. La mano che solleva incoraggia a fare altrettanto e dice: prendi anche tu qualcuno per mano, solleva e guarisci, mettiti a servire. Il servizio è segno di una esistenza sanata. Un apologo famoso dice: un uomo passa per la strada, vede un bambino che muore di fame, e grida al cielo: “Dio, che cosa fai per lui?” E una voce risponde: “Io, per lui, ho fatto te…”.
Gli apostoli dicono a Gesù: Maestro, tutti ti cercano, resta! Gesù taglia corto: Andiamocene altrove. Non è un guaritore, né un luminare che fonda cliniche per pochi. Mi sono fatto tutto a tutti – scriverà un giorno l’apostolo Paolo – per salvare ad ogni costo qualcuno. Gesù se ne va per altri villaggi, in cerca di altre mani da sollevare. Prego: «Maestro della vita, mano che solleva, è difficile essere cristiano, ho in me febbri e demoni, non so se ce la faccio. Ma cercherò di rimettere in piedi quei fiori calpestati che sai. Però tu avvicina quella mano che non hai mai smesso di tendere, avvicinala ancora un po’, prendi la mia, sollevami. E con te andrò incontro all’uomo e a Dio» (E. M. Ronchi).