Omelia nella Solennità del Corpus Domini

San Marino Città (RSM), 3 giugno 2021

Es 24,3-8
Sal 115
Eb 9,11-15
Mc 14,12-16.22-26

Carissimi tutti, Eccellenze,
il fondatore della nostra Repubblica – il santo Marino – ci invita oggi a mettere al centro della città, delle relazioni, delle famiglie, della comunità, delle istituzioni il Pane e il Vino, sacramento della presenza del Signore Gesù Cristo. Lui ha detto: «Questo è il mio corpo». Se potessi, vorrei tradurre: «Questo sono io»!
In nessun altro pasto pasquale, né da alcuna persona, né da alcun profeta è stata detta una cosa simile. Le parole di Gesù sul Pane e sul Vino sono inaudite. Il Pane che viene offerto è un pane spezzato: la condivisione non è un semplice gesto pratico per dividerlo per tutti, è un gesto profetico. Attraverso questo simbolo Gesù vuole significare la morte imminente e violenta di cui sarà vittima, come dicesse: «Questa è la mia vita che viene spezzata e che io vi dono. Questa è l’alleanza che io concludo con il mio sangue».
Anche chi è poco avvezzo alla liturgia della Chiesa, o poco esperto di teologia, intuisce che questo Pane e questo Calice non sono soltanto un tesoro, sia pure il più grande per la comunità cristiana, ma è il suo stesso programma di vita, dal quale non può prescindere: ciò che fa bella la vita è il donarla!
«Nessuno può togliermi la vita – aveva detto – io la dono da me stesso» (cfr. Gv 10,18).
Nel racconto evangelico secondo Marco, Gesù manda due discepoli ad inseguire un uomo che porta una brocca d’acqua; seguendolo troveranno una stanza in cui preparare la Pasqua. Torna spesso il verbo “preparare”. Non è difficile riconoscere quell’uomo, visto e considerato che, in genere, sono le donne che portano l’acqua e i pesi. In lui il lettore può riconoscere il ministero di chi dà il Battesimo e abilita ad entrare nella “stanza superiore”. C’è tutto l’itinerario del nostro Programma pastorale: dal Battesimo al Cenacolo, dove non solo verrà spezzato il Pane, ma sarà effuso lo Spirito Santo. E la stanza è subito pronta. Ma, più che la stanza, Gesù vuole preparare i discepoli.
I discepoli di Gesù, mangiando il suo Corpo e bevendo il suo Sangue, ricevono la forza, a loro volta, di donare la vita, come fa Lui, e possono continuare a spendersi e a donarsi senza riserve.

Ci sono momenti nei quali la nostra Repubblica (e più in generale la società) è, per così dire, messa con le spalle al muro e deve rispondere a domande incalzanti: «Che cosa dici di te stessa? Quali sono i tuoi valori fondanti? Come ti prendi cura della vita nascente, il tuo tesoro? Qual è il tuo progetto di futuro?».
Talvolta, l’urgenza dei problemi e l’incalzare delle scadenze ci rendono affannati, pragmatici, efficientisti. Il filosofo Platone sognava una repubblica governata dai filosofi, cioè da coloro che amano la sapienza, i contemplativi della sophia.
Si sta avvicinando un’opportunità grande per un sussulto di consapevolezza, di pensiero e di formazione delle coscienze. Ci sarà dibattito. Nel dibattito pubblico, nella società secolare, si confrontano ragioni di antropologia, di etica, di scienza, di per sé non di religione.
Tuttavia, ci sono valori che il cristianesimo porta in sé e che deve sempre più mettere in campo a servizio del bene comune. Con la mentalità del dono. In dialogo. Il dialogo è l’ossigeno per una società democratica. Si tratta di valori che in questa sede è mio dovere proclamare. Tra questi il primo è la vita, la creatura che nel grembo della mamma ha cominciato ad essere persona. È un valore che presuppongo in tutti e per il quale tutti dobbiamo impegnarci: è in gioco la bellezza e il valore della vita stessa.
Capisco quanto sia importante il punto di vista di una mamma: quella raggiante per l’arrivo di un bambino e quella preoccupata a causa delle difficoltà… specialmente a questa dobbiamo assicurare l’accompagnamento, la tutela e la cura necessarie. La donna porta il peso e la fatica della maternità. Ma il papà non è da dimenticare per le sue responsabilità e consapevolezza. Mai più una donna lasciata sola, non considerata, non difesa, non onorata. Abbiamo testimonianze belle di accoglienza della vita e contiamo in risoluzioni sempre più adeguate di servizio alla vita, alla donna, alle famiglie.

Torno al Vangelo, ma, in verità, non me ne sono affatto allontanato. Gesù ha simboli e parole che indicano la sua passione per la vita, quella che inizia nel grembo, che scorre nel tempo e che si distende nell’eternità. «Questo è il mio corpo», dice Gesù, e intende dire: «Vivetene!». Con il suo Corpo Gesù ci consegna la sua storia: il grembo caldo di Maria, la mangiatoia, le strade polverose della Palestina, il lago, i volti, il duro della croce, il sepolcro vuoto e la vita che fiorisce al suo passaggio…
Gesù vuole che in noi fluisca la sua vita; Gesù non è venuto soltanto per insegnare, anche se lui stesso si dice «il Maestro…». Gesù non è venuto soltanto per rimettere i peccati. È venuto per darci la vita, vuole che il suo coraggio scorra nelle nostre vene, perché viviamo l’esistenza umana come l’ha vissuta lui.
Oggi è festa della Comunione, la comunione con Lui che si estende ed abbraccia tutto ciò che si vive quaggiù sotto il sole: i nostri fratelli, le nostre sorelle, i piccoli, i grandi, le persone umili e quelle che portano il peso delle responsabilità. Che sia un rapporto non più alterato dal verbo “prendere” o “possedere”, ma sia illuminato dal più generoso e generativo dei verbi: donare.
I sacerdoti – non si può non dedicare un ricordo speciale a loro, ministri dell’Eucaristia – si stanno preparando a vivere insieme tre giorni di studio e di fraternità. Pensieri, parole, propositi sono raccolti sotto un titolo significativo: «Il coraggio di abbracciare il mondo con la forza dello Spirito». Abbracciare il mondo significa abbracciare le solitudini, le famiglie, le mancanze di lavoro, l’educazione dei giovani e – perché no? – anche tante macerie umane e spirituali. Per avere tutti questo coraggio, preghiamo.

Summer school “Prendersi cura della bellezza”

L’Istituto Superiore di Scienze Religiose “A. Marvelli” è lieto di invitarVi al primo appuntamento di una speciale Summer School dal titolo

Prendersi cura della bellezza. Percorsi per la valorizzazione del Patrimonio artistico ecclesiale e del turismo religioso. Il percorso prevede l’interazione dinamica di diverse metodologie e modalità formative (seminari di ricerca, laboratori di metodologia, visite guidate in siti di eccellenza, esperienze virtuose e testimonianze, ecc.) incentrate sulla valorizzazione del patrimonio artistico ecclesiale in una prospettiva anche di rilancio del turismo religioso e culturale, dopo le pesanti limitazioni di quest’ultimo anno di pandemia. Desideriamo tornare a prenderci cura dell’arte sacra e della bellezza ma, al contempo, proporre la divina bellezza come cura della persona, bellezza che dona stupore e genera senso.

Il primo appuntamento è programmato per il prossimo fine settimana;
Venerdì 21 Maggio pomeriggio – dalle 15,30 alle 18,30

La riflessione di apertura, dal titolo “La bellezza come cura. Arte, spiritualità e impegno sociale”, è stata affidata a Don Alessio Geretti (parroco di Tolmezzo e studioso del rapporto tra arte ed evangelizzazione, che ha trasformato il paese friulano di Illegio in una sorta di laboratorio permanente di arte sacra contemporanea).
Seguiranno poi dei Laboratori di metodologia su I linguaggi della bellezza. Esperienze di valorizzazione e nuovi orizzonti comunicativi, dedicati ad alcune esperienze operative virtuose presentate da Francesco Ramberti (Kaleidon Rimini) e da Jessica Lavelli (Cooltur Piacenza).

Sabato 22 Maggio (mattino – dalle ore 9 alle 12,30)

Nella mattinata interverrà S. Ec. Mons. Paolo Giulietti (Vescovo della Diocesi di Lucca, presidente del Consorzio Francesco’s Ways) sul tema: Arte, bellezza e pellegrinaggio. Viaggio nei luoghi dell’anima.
Successivamente sono previsti ulteriori approfondimenti su Gli antichi cammini, tra fede, arte e natura, con il contributo di diversi esperti: Monica Valeri (APT Emilia-Romagna); Franco Boarelli (I cammini di Francesco in Emilia Romagna), Sara Baldini (Guida turistica Emilia Romagna, ISSR “A. Marvelli”).
Nel pomeriggio di sabato 22 (a partire dalle 15,30) si svolgeranno delle speciali Visite “Alla riscoperta del Trecento Riminese e delle Chiese monumentali di Rimini” guidate da alcuni docenti del Master (A. Giovanardi e A. Panzetta).

Don Alessio Geretti

è delegato episcopale per la Cultura, direttore dell’Ufficio Diocesano per l’Iniziazione Cristiana e la Catechesi, responsabile della pastorale socio-politica dell’Arcidiocesi di Udine, docente di teologia dogmatica presso lo Studio teologico del Seminario interdiocesano e di iconografia cristiana presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Udine.
Da anni è direttore e curatore del Comitato di San Floriano di Illegio, che ha proposto annuali mostre internazionali d’arte sacra dal 2000 in poi, ad Illegio, a Bruxelles, ai Musei Vaticani e inoltre a Palazzo Venezia, a Castel Sant’Angelo e a Galleria Borghese a Roma. Così Illegioun piccolo paese di montagna, si è innalzato ad esempio dello sviluppo possibile condiviso dal basso, del rilancio umano e sociale. Numerosi sono stati i riconoscimenti che lo hanno portato ad essere protagonista significativo nel mondo culturale nazionale ed internazionale.

Ec. Mons. Paolo Giulietti

Arcivescovo della Diocesi di Lucca dal 2019, già Direttore del Servizio nazionale per la pastorale giovanile della CEI, coordinatore delle Giornate mondiali della gioventù (del 2002 a Toronto e del 2005 a Colonia) e dell’incontro dei giovani italiani con Benedetto XVI a Loreto nel settembre 2007 (Agorà dei giovani italiani). È presidente del Consorzio Francesco’s Ways che si occupa della promozione del territorio regionale umbro, finalizzata alla commercializzazione di prodotti turistici nell’ambito del pellegrinaggio e del turismo religioso. È promotore dei pellegrinaggi a piedi e grande conoscitore degli itinerari verso le principali mete di spiritualità europee; è anche autore di alcune guide per pellegrini.
È membro della Commissione Episcopale per l’educazione, la scuola e l’università e delegato per i giovani della Conferenza Episcopale Toscana.

Per informazioni più dettagliate sul Programma della Summer Scool visitare il sito www.issrmarvelli.it, oppure rivolgersi alla Segreteria dell’ISSR “A. Marvelli” (Via Covignano 265, 47923 Rimini, tel. 0541-751367, email segreteriacaf@ismarvelli.it ).

Scarica il depliant illustrativo del percorso

Omelia nella Solennità dell’Ascensione

#FlashdiVangelo, 16 maggio 2021

At 1,1-11
Sal 46
Ef 4,1-13
Mc 16,15-20

In ogni pagina di Vangelo il protagonista è indiscutibilmente Gesù. Tuttavia, a volte si direbbe che ci sia un altro protagonista, un co-protagonista: nella pagina odierna è il Cielo. Siamo subito avvertiti da due messaggeri, gli angeli, che compaiono sulla scena della Ascensione di Gesù, di non equivocare: quando si parla di Cielo non si intende tanto la dimensione cosmica, spaziale, ma la realtà divina. «In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio, il Verbo era Dio… E il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,1.14). Oppure come canta l’antico inno incastonato nella Lettera ai Filippesi: «Lui, che era di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso e divenendo simile agli uomini è apparso in forma umana… » (cfr. Fil 2,6-7). Il Cielo è sceso sulla terra. C’è del Cielo sulla terra, a partire dalla bellezza che ci avvolge. Ora Gesù ritorna al Cielo; dopo aver parlato con i discepoli per l’ultima volta, «sedette alla destra del Padre» (Mc 16,19): espressione di una forte caratura teologica. C’è terra nel Cielo!
C’è un bellissimo midrash, un commento al Salmo 8, dove l’orante, Davide, canta la bellezza del cielo e della natura; descrive le stelle, lo splendore della luna nella notte, gli animali che, nella notte, cercano un riparo e, soprattutto, l’uomo, «fatto poco meno degli angeli» (Sal 8,6). Il commentatore si fa una domanda: «Perché Davide parla di tutte le creature e non nomina la realtà più splendida che c’è, il sole?». Dà questa spiegazione: Davide è stato svegliato nel cuore della notte dalla brezza che accarezza le corde della sua arpa e non ce la fa a resistere, va davanti alla grande finestra del suo palazzo e, accompagnato dal suono dell’arpa, intona questo bellissimo Salmo. Poi, il commentatore conclude in una maniera sorprendente, quasi impertinente: «Se comprate una casa, prendetela con finestre grandi!». È evidente la proposta simbolica: dobbiamo coltivare lo sguardo verso il Cielo, perché siamo fatti per il Cielo; anzi, per il dono del Battesimo e per l’effusione dello Spirito, è certificato che siamo fatti di Cielo. L’etimologia della parola “desiderio” è suggestiva: de-sidera, dove “de” indica la separazione, la distanza, la tensione verso le stelle, “sidera”, come un elastico lanciato verso quella che è la sua origine. Noi veniamo dalle stelle, dal Cielo: «Come in cielo, così in terra». Ecco perché Gesù, oltre che insegnarci questa preghiera perché ci sia Cielo sulla terra come c’è terra nel Cielo in Lui, vuole che evangelizziamo, che facciamo questo racconto del Cielo a tutti, non solo a quelli che vengono in chiesa, o a quelli che sono ben disposti o che sono della nostra opinione… Dobbiamo annunciarlo soprattutto a chi è povero di cuore, a chi è in difficoltà, a chi è ammalato. Poi, guardando noi stessi, possiamo dire: «C’è anche una parte di me che non mi piace, nella quale nascondo quello che mi opprime, quello che tendo ad emarginare, la parte per la quale provo imbarazzo o vergogna». Paradossalmente è proprio lì che si è più ricettivi, più disposti ad accogliere la Parola di vita del Signore. Se facciamo questa operazione, a nostra volta diventiamo capaci di parlare «le lingue nuove» a cui allude Gesù, cioè di incontrare la persona là dov’è, non dove vorremmo che fosse. Annunciate il Vangelo! Ecco dove possiamo incontrare Gesù che ha detto: «Avevo fame, mi avete dato da mangiare; grazie per il bicchiere di acqua fresca che mi hai dato: l’hai dato ad un fratello, è come l’avessi dato a me; che bello che sei qui e mi riconosci nel dono di questo pane spezzato…».
C’è chi ha tentato di trattenere Gesù; penso all’amore prepotente di Maria di Magdala che, riconoscendolo, fa per abbracciarlo e lui si sottrae dicendo: «Non continuare a tenermi stretto così!». Anche gli apostoli sul monte dell’Ascensione volevano quasi fermare Gesù… Gesù adesso è presente in un’altra dimensione. Che bello poterlo riconoscere! «Tutto ciò che fu visibile del Nostro Redentore è passato nei segni sacramentali» (Leone Magno). E il primo segno sacramentale è il fratello che vive accanto a noi: c’è del Cielo sulla terra!

Anno di San Giuseppe

ANNO GIUBILARE DI SAN GIUSEPPE
Inaugurazione sabato 1° maggio nella Cattedrale di Pennabilli ore 10
Memoria di San Giuseppe Lavoratore

 

  • Sul mensile “Montefeltro”: ogni mese vi saranno due contributi, una breve meditazione biblica sulla vita di san Giuseppe e il commento di una raffigurazione artistica di san Giuseppe.
  • Indulgenze: la Chiesa offre in questo Anno di San Giuseppe la possibilità di lucrare indulgenze in varie circostanze, una ricchezza spirituale a tutti disponibile (le indicazioni sono scaricabili qui).
  • Ricerca iconografica: le immagini di san Giuseppe nel territorio della Diocesi sono svariate. Si rivolge un cortese invito ad ogni comunità di riprodurle su supporto informatico da inviare in Centro diocesi (segreteria della Curia) per l’allestimento di una mostra. Data probabile dell’inaugurazione della mostra, 31 luglio, a san Leo, nella vigilia della festa; nel contesto si terrà il lancio di una nuova compilation di canzoni su san Giuseppe composte da padre Elia Cirigliano.
  • Camminata del Risveglio al Santuario diocesano della Madonna del Faggio (22 agosto): vi sarà una particolare dedicazione a Giuseppe, “sposo di Maria”.
  • Preghiera per la Chiesa e per le vocazioni: su una immaginetta appositamente preparata (vedi fac-simile) verrà pubblicata una preghiera da recitarsi al termine della Messa domenicale per chiedere a san Giuseppe il suo patrocinio sulla Chiesa e la sua intercessione per il dono di vocazioni di speciale consacrazione.

 

Omelia nella VI domenica di Pasqua

#FlashdiVangelo, 9 maggio 2021

At 10,25-27.34-35.44-48
Sal 97
1Gv 4,7-10
Gv 15,9-17

Una pagina di Vangelo sconvolgente… Come si può commentare? Basterebbe leggerla, accoglierla nel cuore e viverla. Tuttavia, proviamo a dire qualcosa.
Questo brano procede con un andamento tipicamente orientale: i periodi si avvitano uno dopo l’altro per temi ricorrenti, ma con un centro, un focus, che è il v. 11, laddove Gesù dice: «Vi do la mia gioia; voglio che la mia gioia in voi sia piena». Non si tratta di euforia psicologica o di chissà quale emozione; non è altro che il riverbero in noi della grazia, del rapporto che Gesù va stabilendo con ciascuno. Mi dispiace quando il cristianesimo viene presentato come qualcosa di triste, mortificante, negativo. Sono necessari anche i predicatori che a volte ci richiamano, ma l’annuncio è sempre un annuncio pasquale, di gioia, come dice papa Francesco: «Gesù è vivo, è vicino e ti salva».
Questi temi Gesù li aveva già anticipati nei versetti precedenti, adoperando la metafora dell’agricoltore, della vite, dei tralci, della potatura… Questa volta l’allegoria prende la forma dei rapporti interpersonali: l’amore, l’amicizia. È molto bello che, per parlare del mistero di Dio Trinità d’amore, il Signore adoperi questo linguaggio umanissimo. Gesù ci presenta l’esemplarità del suo rapporto con il Padre. Il Verbo è totalmente ascolto, in relazione col Padre, si fa “vuoto” perché il Padre possa autocomunicarsi a lui. Il comandamento a cui allude Gesù non è altro che questo, cioè l’essere per, un’apertura infinita, smisurata, divina appunto. Ebbene, Gesù dice che siamo stati pensati, voluti, creati, perché a nostra volta possiamo vivere questa relazione con lui. Poi aggiunge: «Amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi». Ci si aspetterebbe che Gesù dicesse: «Come io ho amato voi, voi amate me». Invece è: «Amatevi tra voi…».
Gesù pronunciò il discorso che stiamo leggendo la serata dell’Ultima Cena: parole importantissime, come un testamento, come le ultime parole che si pronunciano quando si sta per partire e si danno le ultime raccomandazioni. Pensate, ad esempio, a quando si parte per un viaggio internazionale e si entra all’aeroporto; dopo aver fatto il check-in si è dall’altra parte della frontiera e si rivolge l’ultimo saluto. Così queste parole di Gesù sono preziosissime. Dovremmo ascoltarle come le ha ascoltate l’evangelista che ce le ha riferite: Giovanni appoggiava il suo volto sul petto di Gesù. È da quella postazione che vogliamo gustare quelle parole.
Un’altra sottolineatura. Gesù adopera più volte in questo brano la parola “come”: «Come il Padre ama me, così voi…; come io amo voi, così…». Quel “come” non indica una quantità – noi non possiamo amare come ama Gesù, non abbiamo le sue viscere di amore – ma la qualità del nostro amore. Dimorare in Lui significa fare nostro questo stile.
Riferisco un passaggio di una lettera che mi ha scritto una ragazza che ha avuto molti sbandamenti e travagli nella sua vita, una ragazza in cerca di senso. Ad un certo punto mi dice: «Dove lo trovo Dio? Non riesco a vederlo nella persona che parla con me, non lo vedo in una chiesa vuota… E parlo con Lui, urlo verso di Lui e gli dico: “Sono qui, guardami, ci sono anch’io… Tu dove sei?’”». Parole che fanno riflettere. Ci sarebbe da augurarsi che quella ragazza possa incontrare una persona che sappia amarla senza pretese, in modo disinteressato, senza giudicarla… Questo non sempre può accadere. Tuttavia, ci sono nelle nostre giornate dei gesti, dei segni, delle suggestioni, ad esempio alla lettura di un libro o persino quando si guarda un film, che fanno percepire che tu ci sei in quell’amore di Dio; allora capisci che non è qualcosa che si merita, che si conquista, che si guadagna, ma qualcosa nel quale ti ci trovi: rimanere in questo amore.
Ho saputo di un collega che ha iniziato un’omelia nelle carceri, rivolgendosi alle detenute presenti con queste parole: «Voi siete qui perché Dio vi ama». Una frase che sorprende… Lui intendeva dire: «Siete qui perché vi ha punito la giustizia umana, ma, nella vostra condizione di sofferenza, di disperazione, il Signore vi incontra». Anche noi dobbiamo avere questa capacità di essere accanto all’altro nel momento della sua difficoltà. Chi può dire di amare così? Il Vangelo si conclude con questo invito: «Se rimanete in me, potete chiedere tutto quello che volete e il Padre ve lo concederà». Chiediamogli allora di saper amare così. È la preghiera che faremo questa settimana: «Signore, fa’ che sappiamo amare con lo stile, con la qualità del tuo amore».


Dogana (RSM), 9 maggio 2021

At 10,25-27.34-35.44-48
Sal 97
1Gv 4,7-10
Gv 15,9-17

Sapete qual è uno dei punti critici della Chiesa di oggi?
Ci troviamo ad essere cristiani senza mai aver deciso di esserlo. Non sempre la consapevolezza di essere cristiani è chiara dentro di noi ed è frutto di una scelta personale.
Il sacramento della Confermazione è l’occasione per dire con forza: «Voglio essere cristiano».
Inizierò il rito della Santa Cresima con domande a cui ognuno, personalmente, deve rispondere. Chiederò di rinunciare a Satana e alle sue opere e poi chiederò se credete nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo.
A volte qualche genitore o qualche collega sacerdote pensa che pochi capiscano veramente cosa stanno facendo, cosa significhi, in realtà, la Cresima. Gesù, durante l’Ultima cena, ha iniziato a lavare i piedi agli apostoli. Pietro si è sottratto dicendo: «Signore, non sono degno che tu lavi i piedi a me, non lo voglio». Gesù ha risposto: «Pietro, tu adesso non sai quello che sto facendo, lo capirai…». Come un rotolo che viene disteso, adesso ci viene fatto un dono straordinario: lo capiremo vivendo. Stendo le mani su questi ragazzi, insieme a don Raymond, un gesto antico, che erano soliti compiere i primi cristiani. È un gesto simbolico con cui si chiede allo Spirito di Gesù di scendere su loro. Poi, cari ragazzi, compio su voi un gesto che considero come un bacio: il Signore Gesù, baciandovi sulla fronte, vi comunica il suo Spirito d’amore. Ungerò la vostra fronte con un olio profumato e parlerò di un sigillo. Se parlassi con un linguaggio moderno potrei quasi dire che è un segno che si imprime in voi come un tatuaggio, che non si può più rimuovere: anche se il sigillo della Santa Cresima è invisibile rimane per sempre. Si può contare sempre sulla presenza dello Spirito di Gesù. Lo Spirito, invisibile ma presente, dà la forza di Gesù, l’amore di Gesù. Domani mattina, quando vi sveglierete, pensate a questo bacio che Gesù ha impresso sulla vostra fronte. Il bacio è la cosa più muta che ci sia, come lo Spirito Santo che non si vede, non si tocca, non si abbraccia, ma nello stesso tempo è anche la cosa più eloquente. Quando dai un bacio autentico ad una persona, gli stai dicendo che gli dai la tua anima, che lei è vita della tua vita.
Infine, il Vescovo dovrebbe dare un piccolo schiaffo – in realtà è una carezza – che sta a significare: «Caro ragazzo/a, adesso tocca a te! Devi esprimere con la tua vita quello che hai dichiarato di voler essere».
Sansone è un personaggio della Bibbia, un uomo forte e gigantesco che, volendo dare il colpo definitivo ai Filistei, i nemici che avevano sempre tormentato gli Ebrei, catturò delle lepri e le mise in un serraglio. Alla coda di ogni lepre legò una torcia a cui diede fuoco. Le lepri, spalancato il serraglio, corsero nei campi di grano e di orzo dei Filistei, incendiandoli. Così i Filistei furono sconfitti da Sansone. In un certo senso, oggi Dogana ha delle lepri che porteranno un incendio compiendo atti concreti di amore (non si vuole bene con il pensiero, ma con delle decisioni). Dico a voi, ragazzi: potete cominciare già da adesso. Mi state ascoltando: è già un atto di amore. Dopo andrete a casa e sarete festeggiati: lasciatevi amare, parlate con i nonni e gli zii, anziché mettervi subito a giocare con il cellulare. Anche questo è amore. Ed è quello che propone Gesù: Dio è amore, non è uno spirito solitario che vive in una noia eterna. Dio è la danza di tre Persone che nominiamo nel Segno della croce: il Padre, quando sfioriamo la fronte, il Figlio quando ci fermiamo con la mano sul cuore, lo Spirito Santo quando tocchiamo le spalle. Un unico Dio in tre Persone. Abbiamo dovuto smentire il politeismo di altre religioni, ma, insistendo molto sul monoteismo, abbiamo dimenticato che Dio è Trinità di Persone, di amore. Ad un certo punto, questo circuito d’amore si apre e veniamo chiamati a far parte di questa Trinità d’amore.
Gesù ci dà il suo “comandamento”. A volte facciamo molta confusione tra comandamenti, precetti… Anche gli Ebrei avevano ricevuto i comandamenti (mitzvot) e li avevano specificati così minuziosamente che erano diventati 613. Tutta la giornata era sotto la legge. I precetti erano come un campanello che ricordava che tutto quello che facevano era sotto il segno di quell’amore. Il primo comandamento (tutti gli altri non erano altro che conseguenze) è: «Ricordati che ti ho voluto bene, che ti ho liberato dalla schiavitù dell’Egitto, che ho fatto alleanza con te, che ti amo immensamente». Gli Ebrei ebbero questa grande intuizione: mettere sotto il segno dell’amore tutta la giornata, ogni azione: prima di alzarsi, prima di mangiare, prima di lavorare…
Gesù, per rispondere all’equivoco che fa diventare farisei, ipocriti, ci ha detto che non vi sono 613 precetti, ve n’è uno solo. Sant’Agostino diceva: «Ama e fa’ ciò che vuoi». È il comandamento dell’amore. «Chiedete nel mio nome quello che desiderate di più»: il nostro cuore non desidera altro che amare, perché siamo stati pensati e costruiti così. Ecco perché viene la gioia.
Ho avuto la fortuna di fare il postulatore della causa per un sacerdote santo, don Dario Porta. Ora la causa è arrivata a Roma. Avrei tanti episodi da raccontare. La sua vita è stata scoppiettante di gioia. I santi sono le persone più felici di questo mondo. Ho avuto la fortuna di incontrare di persona madre Teresa. Era l’ultimo anno della sua vita; camminava curva e il suo volto era solcato di rughe, ma aveva uno sguardo che nessun influencer di oggi saprebbe battere. Era diventata amore.
Sia lodato Gesù Cristo.

Omelia nella V domenica di Pasqua

#FlashdiVangelo, 2 maggio 2021

At 9,26-31
Sal 21
1Gv 3,18-24
Gv 15,1-8

«Rimanete in me e io in voi». Tempo fa ho saputo di un ragazzo di buona famiglia che ha combinato dei guai e si è trovato in carcere. Oltre al dispiacere per sé, soffriva molto per aver disonorato la sua famiglia. Ha pianto, ha chiesto perdono e di tanto in tanto scriveva ai famigliari chiedendo: «Mandatemi un segno che mi avete perdonato». Una volta arrivò una lettera. La aprì. Era molto emozionato. Vide che dentro c’era una fotografia di famiglia e si accorse che da essa era stata ritagliata la sua immagine… Quel ragazzo, in seguito, ha avuto molti problemi per il senso di abbandono che provava. Dio non elimina nessuno dal suo cuore. Siamo scritti sul palmo della sua mano, come dice il profeta Isaia (cfr. Is 49,16). Siamo parte di lui e tutto quello che siamo viene da lui, da quella linfa vitale che da lui fluisce dentro di noi, come tralci di una vite.
Mi indispettisco, talvolta, perché mi sembra di non farmi capire quando parlo della bellezza di essere tralci uniti alla vite che è il Signore Gesù. Ad esempio, parlo di vita di fede e si capisce “pratica religiosa”, oppure insisto nel dire “dimensione spirituale” e si capisce qualcosa che cava fuori dal tempo, dallo spazio, dalla vita normale di tutti i giorni; oppure parlo di portare frutti buoni e subito si pensa alla morale. Invece, vorrei far capire di più questo dono che chiamiamo grazia, grazia perché non è merito nostro. Gesù sottolinea: «Senza di me non potete far nulla». È lui che ci porta. In un’altra parabola il Signore dirà: «Che dorma o che vegli il seme cresce da sé, per la forza che ha dentro» (cfr. Mc 4,27): stando all’allegoria della vite, per la linfa che scorre nelle radici e nel tronco. La grazia è un dono straordinario che ci fa persuasi che siamo davvero figli, ma non per modo di dire, perché siamo creature: abbiamo veramente contratto una figliolanza. Gesù è fratello. Lo Spirito vive in noi. Tutto quello che facciamo, in qualche modo, è come se fosse fatto dal Signore. Solo una cosa può toglierci da questa dinamica di vita: il peccato. Ma, proprio perché il Signore non cancella il nostro volto, abbiamo sempre la possibilità di ricominciare. Mi piace molto, in questa allegoria, l’immagine di un Dio contadino che lascia da parte il suo scettro e prende in mano la zappa per farmi crescere. Non sta sul trono, ma si siede sul prato e guarda la sua vite, i suoi tralci, con fierezza. Mi piace pensare che in Gesù quel vignaiolo si è fatto vite, è una cosa sola con me. Allora penso che non devo aver paura di lui, anzi devo essere fiero: lui crede in me.
La potatura non è amputazione. Si pota per purificare, si pota per rafforzare. Il Risorto sogna che la sua vite si espanda sul mondo intero, lo abbracci intero e vuole che ogni tralcio porti dei segni di amicizia, di condivisione, di giustizia.
Racconto un episodio semplice, come è gran parte delle nostre giornate, ma vale soprattutto per le decisioni più importanti. Ieri una persona mi ha accompagnato in auto a Novafeltria. Arrivati ad un semaforo, ho visto che quella persona ha frenato ed è andata un po’ in dietro. Mi sono lamentato perché avevo molta fretta. Aveva visto un’auto che stava per immettersi sulla via principale e ha pensato di fargli posto, visto che c’era una lunga fila al semaforo. Il guidatore, quando ha capito che gli era stato ceduto il posto, si è illuminato. Avrà pensato che la sua giornata era cominciata bene… Tanto buonumore è stato liberato da un semplice atto di amore. Se restiamo in Gesù, se restiamo innestati come tralci nella vite, faremo tantissime esperienze di questo tipo. «Rimanete in me»: dobbiamo proporci di rimanere nella sua Parola, ascoltarla, maturarla dentro. «Io in te, Gesù, tu in me»: una cosa sola.


Perticara (RN), 2 maggio 2021

At 9,26-31
Sal 21
1Gv 3,18-24
Gv 15,1-8

S. Cresime

Una di voi, Martina, ha letto una pagina molto appropriata sulla Cresima: c’è la storia del vostro cammino fino a questo giorno, grazie al vostro parroco e grazie alle vostre catechiste; poi c’è il vostro presente, con quello che accadrà fra poco: lo Spirito Santo scenderà su di voi e imprimerà il suo sigillo (oggi si direbbe il suo tatuaggio!), un segno indelebile e invisibile, ma che tocca e rimane nella struttura profonda della vostra persona.
Ammaestrato dagli antichi Padri della Chiesa preferisco parlare di un “bacio”, perché un bacio dice tutto, più di una enciclopedia: dice l’amore di Dio per ciascuno di noi. Del resto, lo Spirito non è raffigurabile se non attraverso delle metafore o delle allegorie. Un bacio è muto: quando baci non puoi parlare; nello stesso tempo il bacio è eloquentissimo, perché con esso dici: «Tu sei vita della mia vita, respiro del mio respiro».
Oggi il Signore Gesù, presente risorto in mezzo a noi, vi dona il suo Spirito. E lo Spirito effonde su di voi i suoi sette doni, ma, in realtà, si tratta di un unico dono con sette diverse sfumature. Come avete giustamente raffigurato voi, l’unica fiamma, l’unico amore, ha sette riverberi diversi. L’amore è sapienza in senso etimologico, cioè è ciò che dà sapore, gusto al nostro vivere. Quando facciamo le cose per amore, anche le più ardue, oppure quelle noiose e ripetitive, sono riscattate. L’amore riscatta fatica, noia, stanchezza, frustrazione, dà sapore. Il dono dell’intelletto è l’amore che va in profondità, che non si ferma a quello che appare esternamente. Il dono del consiglio è l’amore che sa scegliere quello che è più giusto, più utile, più necessario. Il dono della scienza è l’amore che sorregge nella fatica di imparare, che rende curiosi di sapere. Il dono della fortezza è l’amore che sa resistere, che va all’attacco con una sana e giusta aggressività, intraprendenza, coraggio davanti alle difficoltà, e che è anche pazienza. Il dono della pietà è l’amore che sa manifestarsi. L’evangelista Giovanni, nella Seconda Lettura invita ad amare non «a parole, ma con i fatti», potremmo dire “con i muscoli”, compiendo cose concrete. Un esempio. Ieri una persona mi ha accompagnato in auto a Novafeltria. Avevo molta fretta e c’era una fila infinita ad un semaforo. Questa persona, dopo avere frenato dietro le altre auto, ha inserito la retromarcia ed è andata indietro… Lì per lì mi sono lamentato perché temevo di perdere tempo. Non mi ero accorto che aveva visto un’auto che stava salendo da una strada laterale e si è preoccupata che, a causa della lunga coda di automobili, non riuscisse ad immettersi nella strada principale. L’autista dell’auto che saliva dalla strada laterale, quando ha capito che gli era stato ceduto il posto, si è illuminato. Avrà pensato che la sua giornata era cominciata bene… È stato un atto d’amore. Dunque, la pietà è l’amore che si manifesta concretamente. Infine, c’è il dono del timor di Dio, che non è la paura di Dio, ma l’amore che non vuole perdere l’Amato.
A proposito di amore e di Amato, riprendo il brano di Vangelo proclamato poco fa. Si tratta di un’altra allegoria che Gesù adopera per dire chi è Lui. Domenica scorsa ci aveva detto che è il Pastore vero, ora dice: «Io sono la vite, voi i tralci». Gesù dice questa allegoria durante l’Ultima Cena, quando sta per congedarsi dai suoi discepoli. Dunque, sono parole da ascoltare profondamente, come le ha ascoltate colui che ha reclinato la sua guancia sul cuore di Gesù, l’evangelista Giovanni, il più giovane del gruppo. Da quella postazione speciale ha sentito queste parole: «Rimanete in me». Nella pericope evangelica, appena otto righe, per sette volte incontriamo il verbo rimanere. Di lì a poco Gesù sarà abbandonato da tutti, persino da Pietro che gli aveva detto: «Ti seguirò dovunque tu vada…» (Lc 9,57). E Gesù: «Quando il gallo avrà cantato due volte, mi avrai già rinnegato tre volte». È stato così.
«Rimanete in me». Rimanere, dimorare, indica dove si può restare e “fare casa” con una persona. Già all’inizio del Vangelo due dei discepoli avevano chiesto: «Dove abiti? Dove dimori?» (cfr. Gv 1,38). Come dire: «Dove vai a dormire?». «Rimanete in me, come tralci uniti alla vite». È la linfa che unisce il tralcio alla vite. La linfa, che non è frutto del tralcio, è puro dono: è la grazia. Essere nella grazia significa essere nell’amore, nella linfa; essere una cosa sola con il Signore. Da notare: il tralcio da solo non può far frutti, ma neppure la vite. La vite ha bisogno dei tralci! Sembra che il Signore dica che ha bisogno di ognuno di noi, vuole che siamo tutt’uno con lui, che dentro di noi accada l’alchimia che trasforma la linfa in frutti. Il Signore vuol dirci: «Ho creato un mondo e vorrei che fosse nell’armonia e nello splendore». Si completerà nel cielo, ma fin da adesso deve essere «in terra come in cielo». Il Signore dice a ciascuno: «Tralcio, porta frutti! Ho bisogno di te. Trasforma il dono che ho messo nel tuo cuore in possibilità di altra vite». Il Signore vorrebbe che la sua vigna abbracciasse il mondo intero.
Cari ragazzi, quand’ero bambino volevo fare il missionario perché ero cresciuto con questa idea: Gesù doveva essere conosciuto da tutti. A quel tempo si parlava molto della Cina come continente promettente di una nuova fioritura di cristiani. Facevo per loro tanti piccoli sacrifici. Ero felice quando ero in grazia di Dio. Qualche volta venivo sorpreso dal pensiero: «Sono un tralcio di Gesù!». Ricordo che di tanto in tanto ero sorpreso da questo pensiero: quello che sto facendo è come se lo facesse Gesù. E se qualche volta accadeva di fare un peccato, ero triste. Allora andavo da Gesù e tornava la gioia.
Vi auguro di essere sempre luminosi come oggi, pieni della linfa del Signore, perché portiate frutto. Anche un bicchier d’acqua offerto per amore davanti a Dio diventa una cosa grande. «Voglio rimanere in te, Gesù. Tu in me e io in te». Così sia.

Omelia nella Festa patronale di San Giuseppe Lavoratore

Gualdicciolo (RSM), 1° maggio 2021

At 9,26-31
Sal 21
1Gv 3,18-24
Gv 15,1-8

Oggi in Cattedrale a Pennabilli è stato aperto l’Anno giubilare di San Giuseppe, sposo di Maria, padre legale (putativo) di Gesù e si è dato inizio al “mese di maggio” dedicato alla Madonna con una grande supplica per la fine della pandemia, secondo l’indicazione di papa Francesco: trenta Santuari sono coinvolti nella staffetta di preghiera che si concluderà il 31 maggio nei giardini vaticani. Oggi si apre a Roma, in San Pietro, con sessanta giovani (uno di loro è di San Marino!).
Nel 1955 papa Pio XII istituiva la memoria liturgica di San Giuseppe Lavoratore per testimoniare l’importanza del lavoro nella visione cristiana.
Oggi non si può celebrare la memoria di san Giuseppe Lavoratore senza tornare alle parole di papa Francesco nella Lettera Apostolica Patris Corde, a lui dedicata. Il lavoro di san Giuseppe «ci ricorda che Dio stesso, fatto uomo, non ha disdegnato di lavorare. La perdita del lavoro, che colpisce tanti fratelli e sorelle e che aumenta negli ultimi tempi a causa della pandemia dev’essere un richiamo a rivedere le nostre priorità» (PC 6).
Un carisma, quello di san Giuseppe, che si riassume nella capacità di essere “custode” di un tesoro prezioso, perché – spiega ancora il Papa – egli ci insegna che il lavoro è «partecipazione all’opera stessa della salvezza, occasione per affrettare l’avvento del Regno, sviluppare le proprie potenzialità e qualità, mettendole al servizio della società e della comunione».
È la seconda volta che celebriamo la festa di san Giuseppe Lavoratore in pandemia. La sofferenza si è fatta più forte; dall’inizio dell’emergenza, in Italia ci sono 900mila occupati in meno. E, se anche ci dicono vi siano timidi segnali di ripresa (a marzo), la disoccupazione giovanile tocca il 33%. Anche i Vescovi – nel loro Messaggio – denunciano la preoccupazione per le disuguaglianze e chiedono di abitare una nuova stagione economico-sociale. «Nel mondo del lavoro si sono aggravate le disuguaglianze esistenti e create nuove povertà».
Perché lavoriamo? Molti possono rispondere dicendo che si lavora per portare il pane a casa. Verissimo. Ma forse lo scopo più vero e più profondo del lavoro dovrebbe essere quello di trovare il modo di esprimere noi stessi. Nel lavoro ci si percepisce utili e significativi. La mancanza di lavoro, invece, è come un’amputazione alla dignità della persona. Molte volte la mancanza di lavoro getta nella più profonda depressione.
San Giuseppe è conosciuto come un lavoratore, un artigiano. Gesù sarà chiamato «il figlio del falegname» (Mt 13,55). È certo che san Giuseppe avrà insegnato il suo mestiere anche a Gesù. Il Figlio di Dio ha lavorato come ogni uomo al mondo. Ma anche chi ha un lavoro non è detto che lo viva come qualcosa che lo renda felice e lo gratifichi. Infatti, a volte si fanno lavori che non vorremmo fare e li facciamo solo per necessità. Così il lavoro non è più il luogo dove io esprimo me stesso, ma è il luogo dove accumulo frustrazioni. Tutto questo, però, può essere capovolto attraverso una conversione dello sguardo: il lavoro ci gratifica e ci santifica non solo quando ci aiuta ad esprimerci, ma quando lo facciamo “per amore”! Allora anche la cosa più noiosa o stancante diventa bella, quando sai che la stai facendo “per amore” di chi ami. San Giuseppe è illuminante per questa logica del “fare per amore”.

Quanta luce, quanta ispirazione ci viene dalla meditazione sul Vangelo che abbiamo appena ascoltato. Gesù ci propone una nuova allegoria. Viene presa dal mondo del lavoro agricolo: la vite, i tralci, la potatura, il contadino… Gesù segnala la necessità di «portare frutto». Voi direte “frutti spirituali”… E non sono frutti spirituali il bene che si fa per la propria famiglia e il proprio Paese? E praticare un lavoro ed una professione in modo onesto non è testimonianza? Ed essere in grazia di Dio non è – per il lavoro che svolgiamo un produrre come se Gesù operasse per mezzo nostro? Noi in lui e lui in noi, uniti insieme, portiamo frutti di santità. Tutto quello che un discepolo fa unito a Gesù acquista un valore aggiunto. Si tratta di un valore di santificazione, di redenzione, di costruzione del Regno di Dio.
Conseguenza: anche il lavoro più semplice e più nascosto non perde in preziosità; anche la sofferenza per il non-lavoro (malattia o condizione di anzianità) è, in qualche modo, “lavoro”: inazione, ma lavoro interiore di santificazione. E c’è il lavoro verso la nostra crescita umano-cristiana, il lavoro-preghiera e la preghiera-lavoro.
Solo il peccato ci stacca dalla vite: allora la linfa non arriva a noi, allora il tralcio – che siamo noi – non produce frutti soprannaturali di grazia.
«Senza di me non potete far nulla!». E quello che facciamo senza di lui (il nostro attivismo) è soltanto paglia!
In questo è glorificato il Padre: che siamo discepoli di Gesù e che portiamo frutto.

Omelia nella celebrazione del 1° Maggio

Pennabilli (RN), Cattedrale, 1° maggio 2021

Gen 1,26-2,3
Sal 89
Mt 13,54-58

1.

Motivi di preghiera in questo 1 maggio: apertura solenne diocesana dell’Anno giubilare dedicato a san Giuseppe, sposo di Maria, padre legale (putativo) di Gesù; ricordo grato, e per altri versi preoccupato, del mondo del Lavoro, con la presenza di una rappresentanza di lavoratori della Val Marecchia; inizio del “mese di maggio” dedicato alla Madonna con una grande supplica per la fine della pandemia, secondo l’indicazione di papa Francesco: una staffetta di preghiera per ogni giorno di maggio, da un capo all’altro del mondo, da un Santuario mariano all’altro. A questi motivi di preghiera ognuno aggiunge i suoi personali, con la certezza che il Signore ci ascolta e ci esaudisce come ritiene sia meglio, certezza accompagnata dal desiderio di una vita più santa, a partire da oggi (“fare bene il mese di maggio”). Facciamo tesoro della grazia che ci è data e delle ispirazioni al bene che sorgono in noi.

2.

Nella odierna liturgia ci è dato di rileggere alcune battute della grande sinfonia della creazione. La Parola potente di Dio «chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono», mette ordine nella creazione e introduce in essa pace e armonia, luce e bontà. Fa sorgere gli esseri. Fa vivere. Questa è la sua vittoria! Dio è il creatore del mondo e il Signore della storia. Così ce lo presenta la fede cristiana. Allora tutta la creazione è buona, perché è fatta da Dio. Ed è buona perché Dio ama le sue creature, vuole la vita e non la distruzione. Tutti siamo partecipi della sua bontà.

3.

Il Signore affida all’uomo la creazione, lasciandogli il compito di portarla a compimento. L’uomo è il re del creato. Ma l’uomo deve fare il re nel modo di Dio, non secondo il suo capriccio.
Il passo che narra la creazione dell’uomo ha un carattere di profondo ottimismo. L’uomo è immagine di Dio: c’è un abisso tra l’uomo e il resto del creato. L’uomo è capace di conoscere e di amare; sa che Dio gli parla ed è in grado di rispondere. Questa è la sua dignità. Questa è la sua responsabilità.
L’uomo domina la creazione: ciò dimostra la sua superiorità. «Credenti e non credenti – afferma il Concilio Vaticano II nella Costituzione Pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (GS 12) – sono concordi nel ritenere che tutto quanto esiste sulla terra deve essere riferito all’uomo come a suo centro e a suo vertice».
Lo sviluppo della scienza, la conquista dello spazio, i progressi della tecnica possono e debbono essere una risposta all’invito del Creatore.

4.

Notate: ad un certo punto Dio sembra sospendere il ritmo vertiginoso della creazione. L’autore della Genesi introduce un misterioso dialogo, facendoci assistere ad una deliberazione e ad una solenne decisione di Dio: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza» (Gen 1,26). Questo plurale, interpretato in vari modi, sembra alludere ad un misterioso dialogo. La dignità dell’uomo è grande e grande la sua responsabilità: come Dio, l’uomo ama, conosce, domina. Ma di fronte a Dio dovrà rispondere di queste sue facoltà.

5.

Caliamo questi pensieri nell’attualità. Oggi assistiamo a modelli socio-economici che contrappongono sviluppo da una parte e sostenibilità dall’altra; si vuole lo sviluppo a tutti i costi, passando sopra al rispetto dovuto all’ambiente, alla salute, ecc. Così pure la dimensione globale, governata da grandi poteri, va contro l’autonomia locale delle persone che responsabilizza. È nostro compito riaffermare la dignità dell’uomo nella sua interezza, con il suo diritto alla salute, al lavoro e alla tutela del creato.
Si terrà nell’ottobre prossimo, a Taranto, la 49a Settimana Sociale dei Cattolici Italiani. In questo grande convegno – a cui parteciperà anche una delegazione della nostra Diocesi – si intende dare un contributo concreto per sostenere ed orientare un nuovo modello di sviluppo capace di ridefinire il rapporto fra economia ed ecosistema, ambiente e lavoro, vita personale ed organizzazione sociale.
Come dicevo, l’uomo è re del creato, ma non alla maniera del despota: usa della natura e dell’ambiente, ma non ne abusa. Tutto orienta al bene comune. Dopo questi mesi di pandemia ci siamo persuasi ulteriormente di come tutto sia connesso. Ora dobbiamo prenderci cura di un grande ammalato: il nostro pianeta.

6.

Il Vangelo riporta questo interrogativo dei nazaretani. «Non è costui il figlio del falegname?» (Mt 13,55). È certo che Giuseppe avrà insegnato il mestiere di falegname anche a Gesù. Il Figlio di Dio ha lavorato come ogni uomo al mondo.
Perché lavoriamo? Molti possono rispondere dicendo che si lavora per portare il pane a casa. Verissimo. Ma forse lo scopo più vero e più profondo del lavoro dovrebbe essere quello di darci l’occasione di esprimere noi stessi. L’uomo è un “piccolo creatore”. La mancanza del lavoro è come un’amputazione alla dignità della persona. Nel lavoro ci si percepisce utili e significativi. Si porta un piccolo contributo, ma importante. La mancanza di lavoro getta nella più profonda depressione. In questo senso, il tema del lavoro ha a che fare con la fede e con la santità.

7.

Ma anche chi un lavoro ce l’ha non è detto che lo viva sempre come qualcosa che lo renda felice, che lo realizzi. A volte facciamo lavori che non vorremmo fare, non ci piacciono del tutto e li facciamo solo per necessità. Così il lavoro non è più il luogo dove io esprimo me stesso, ma dove accumulo anche frustrazioni, fatiche, malumori. Tutto questo può essere capovolto attraverso una conversione dello sguardo: fare per amore! Per il pane, per la mia autorealizzazione, per il mio posto nella società, ma alla fine si lavora per amore, per amore di qualcuno. La vera domanda è se abbiamo capito che dovremmo trovare un motivo “per cui” lavorare, per cui fare le cose.
San Giuseppe è illuminante per questa logica del “per amore”!

Omelia nella IV domenica di Pasqua

Miniera (RN), 25 aprile 2021

At 4,8-12
Sal 117
1Gv 3,1-2
Gv 10,11-18

L’autore del IV Vangelo non solo è “aquila” che penetra il mistero del Verbo fatto carne, ma è artista, sapiente architetto, formidabile sceneggiatore: colloca il celebre discorso di Gesù sul Buon Pastore tra due grandi feste. Qualche capitolo prima è menzionata la festa ebraica delle Capanne, alla fine si fa riferimento alla festa della Consacrazione del Tempio. Poco dopo la festa delle Capanne Gesù ridà la vista ad un cieco dalla nascita. Quel cieco non solo ha recuperato la vista, ma “vede” in Gesù l’inviato di Dio, il Messia. Senza averlo conosciuto preventivamente quel cieco crede in Gesù: «Adesso ci vedo!» (cfr. Gv 9,25). Vede e crede. I farisei e le guide del popolo che, loro malgrado, constatano il segno di quella guarigione non vogliono credere e «restano ciechi». Si chiudono all’evidenza. Per questo Gesù è in aperta polemica con loro. Nonostante il vantaggio di cui dispongono per la conoscenza delle Scritture, sono «guide cieche». Nei giorni che precedono l’altra festa – quella della Dedicazione – nelle liturgie ebraiche si legge il capitolo 34 del profeta Ezechiele, dove si parla di Dio «pastore d’Israele», un pastore che si prende cura davvero del suo popolo. È inevitabile in quei giorni di festa fare memoria dei “cattivi pastori” che avevano permesso la profanazione del Tempio. L’oracolo di Ezechiele preannuncia l’invio di un altro pastore che esprimerà la premura del Signore, un pastore come Mosè, come Davide. Gesù annuncia che è lui quel pastore, quello vero. Notare l’enfasi su quel «Io sono»: già con questa espressione – nel Vangelo di Giovanni ricorre varie volte – Gesù proclama la sua origine divina. Dio, buon Pastore, si rivela in Gesù.
Gesù si presenta, dunque, come il Pastore “buono”, cioè vero. “Buono” qui non è inteso in senso morale o psicologico. Attenzione, sembra dirci Giovanni, a non sbagliare pastore, a non investire la propria fiducia in pastori che non sono tali.
Il testo greco – lo dobbiamo sottolineare per correttezza – parla di «Pastore bello». Semmai, proprio perché bello dentro, sarà anche buono…
Quel Pastore è bello perché ha uno stile ed una logica di vita che rendono bella la sua vita, perché caratterizzata dal dono di sé. Questa è pure la bellezza dei santi e di tutti quelli che continuano a spendersi e a donarsi senza riserve.
Nei pochi versetti proclamati nella liturgia di oggi viene ripetuta una delle più forti e affettuose dichiarazioni d’amore. Per ben cinque volte Gesù dice che «dà la sua vita». Non c’è dubbio, la preposizione adoperata nel testo ha un significato esplicitamente oblativo. Il Pastore bello dà la vita per le pecorelle, cioè a motivo di loro, perché hanno bisogno di lui; dà la vita per le pecorelle, perché si fa avanti al posto loro; dà la vita per le pecorelle, cioè a loro vantaggio. Egli redime, espia, salva.
In questa dichiarazione d’amore non è taciuto il sacrificio, il “fare posto” e l’umiltà di chi ama. Ma ancora una volta non viene tanto in rilievo il prezzo da pagare, ma il frutto e la fraternità che crescono attorno al sacrificio. Scriveva sant’Agostino: «Dove c’è l’amore, dove si ama, non si sente fatica e anche quando c’è fatica si ama questa fatica» («Ubi amatur iam non laboratur et si laboratur etiam labor amatur»). Non c’è altra bellezza che questa. L’allegoria del Pastore si evidenzia nel confronto col mercenario. Il mercenario ha sicuramente esperienza e professionalità, ma, rispetto al pastore, ha un’altra motivazione: è pastore per guadagnarsi da vivere. Le pecore non sono «le sue»; per questo si mette in gioco solo fino ad un certo punto: non gli importa delle pecore e, quando arriva il lupo, scappa. Il mercenario non è bello!
Durante una traversata sul lago di Galilea i discepoli, travolti dalla tempesta e dalle onde, hanno gridato a Gesù che dormiva sulla barca: «Non ti importa che moriamo?» (cfr. Mc 4,35-41). Gesù risponde con i fatti al loro grido: le pecorelle gli importano, eccome! Gli appartengono: chi le tocca, tocca lui. Gesù non fugge quando ci sono problemi nella nostra vita: resta accanto. Dice il Vangelo che non permette che le sue pecore siano «disperse»: un verbo allusivo alla morte che disperde e disintegra la creatura. Gesù è per noi sorgente di vita per sempre.
Il Pastore buono è bello e anche forte: vede arrivare il branco dei lupi e lo affronta. C’è bellezza nelle nostre comunità? Sì, quando c’è qualcuno che dà la sua vita. Di Gesù è detto che ha il potere di dare la vita: questo è l’unico potere di Dio. Donando la sua vita, la riprende: perché a chi dà, sarà data una misura pigiata, scossa e traboccante (cfr. Lc 6,38). Chi dà tutto, ha già ricevuto tutto!
Questa è l’interpretazione più azzeccata della dimensione vocazionale della vita. Oggi, “Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni”, chiediamoci: dove sono chiamato a dare tutto?

Omelia nella Festa della Madonna del Popolo, patrona della Diocesi di Cesena-Sarsina

Cesena (FC), Cattedrale, 18 aprile 2021

At 1,12-14
Salmo da Lc 1,46-55
1Pt 2,4-10
Gv 2,1-11

È suggestivo che la festa della Madonna del Popolo sia incastonata nel tempo pasquale e alla Pasqua facciano riferimento le letture bibliche e i testi eucologici. Nella preghiera di inizio abbiamo chiesto al Signore, per intercessione di Maria, di renderci sempre più consapevoli di essere popolo di Dio. In particolare, abbiamo chiesto di diventare un popolo che sa amare, che corrisponde alla sua vocazione. La Chiesa è costituita come realtà che partecipa alle gioie e alle sofferenze, alle tribolazioni, alle ansie dell’umanità, chiamata ad essere sacramento di unità del genere umano (cfr. GS 1).
Ho finito da poco la Visita Pastorale e mi è capitato varie volte, negli incontri assembleari di preghiera, di chiedere: «Sapete quando è nata la Chiesa? Se dovessimo festeggiare un giorno come compleanno della Chiesa quale sarebbe?».
C’è chi ha risposto: «Quando Gesù ha chiamato gli apostoli, le colonne della Chiesa». Qualcun altro: «La Chiesa è nata a Pentecoste, quando si sono spalancate le porte del Cenacolo e i discepoli sono usciti per proclamare la risurrezione di Gesù e la remissione dei peccati». Alcuni hanno individuato un altro momento molto suggestivo: «Il momento in cui Gesù in croce, rivolgendosi alla Madonna, dice: “Ecco tuo figlio”, indicando Giovanni, e poi a Giovanni: “Ecco tua madre”». «E la prese con sé nella sua casa…».
Il vero momento in cui è nata la Chiesa è quello dell’incarnazione del Verbo. In quel momento il Verbo ha assunto l’umanità e, nell’unica persona, le due nature − umana e divina − si sono unite. In quell’attimo è nata la Chiesa, è nato il popolo di Dio. Ecco perché è bello e opportuno considerare la Madonna con questo titolo: «Madonna del Popolo», Madre del Capo, madre delle membra.
Su invito del vescovo Douglas siamo qui questa sera per rivolgere una supplica alla Madonna per la fine della pandemia. Lo facciamo con fede, consapevoli d’essere chiamati ad “essere speranza” in questo mondo ferito. Vogliamo anche considerare la Madonna secondo una prerogativa che non si sottolinea abbastanza: la Madonna come sposa, sposa di Giuseppe.

«Per quanto bella una predica sulla santa Vergine, se si è obbligati tutto il tempo a fare: Ah!… Oh! Se ne ha abbastanza». Questo commento, piuttosto graffiante, è rivolto da un’anima insospettabile: santa Teresa di Lisieux. La piccola Teresa aggiunge: «Ella, la Santa Vergine, preferisce l’imitazione piuttosto che l’ammirazione, ma la sua vita è stata così semplice!». «Perché una predica sulla Santa Vergine mi piaccia e mi faccia del bene – continua santa Teresina –, bisogna che io veda la sua vita reale (noi diremmo “con i piedi per terra”), non supposizioni sulla sua vita; e sono sicura che la sua vita reale doveva essere semplicissima… Bisognerebbe mostrarla imitabile, fare risaltare le sue virtù, dire che viveva di fede come noi, darne le prove con il Vangelo, dove leggiamo: «Non capirono [Maria e Giuseppe] ciò che diceva loro» (Teresa di Lisieux, Novissima Verba, Opere complete, pp. 1080-1084).
Le parole di santa Teresa aiutano a superare la difficoltà di chi non si avvicina facilmente alla Madonna. In effetti, una certa enfasi può infastidire. La parola devozione, anche se nobile e carica di significati, appartiene ad un linguaggio desueto. Chi saluterebbe digitando al cellulare «suo devotissimo»? È preferibile parlare di rapporto, perché Maria è una persona viva. Il rapporto con lei si esprime nello scambio e nel dialogo, dialogo che a volte si fa preghiera, invocazione – come facciamo noi stasera – e, altre volte, canto pieno di gratitudine, ma soprattutto desiderio di imitazione. Una maestra spirituale del nostro tempo racconta che, davanti al tabernacolo, mentre lodava e ringraziava Gesù per la sua presenza, in corpo, sangue, anima e divinità, le veniva dal cuore la richiesta: «Perché, Signore, non ci hai lasciato qualche cosa di Maria?». E ha sentito nel cuore questa risposta: «Non ho lasciato niente di visibile di Maria perché la voglio rivedere in te». L’imitazione può arrivare fino a farci “essere Maria”.
Imitare non è copiare: ciò che va cercato non sono né la cultura, né lo stile di un’epoca, né i clichè con i quali è stata raffigurata la Madonna. Ma quando si hanno stima e amore per una persona si tende a fare e ad essere come lei.
Proviamo a vedere Maria a Nazaret. Nazaret è ai margini della geografia e della storia sacra di Israele: «Può mai venire qualcosa di buono da Nazaret?» (Gv 1,46), sentenziò con scetticismo Natanaele, poi chiamato da Gesù a divenire apostolo. Eppure, la vicenda terrena di Gesù, di Maria e di Giuseppe vi gira attorno. Gesù vive a Nazaret, viene da Nazaret, scende a Nazaret, a Nazaret dimora. Tra le stradine, i cortili e le siepi di quel povero villaggio è racchiusa per trent’anni la vita del Messia. Da Nazaret Gesù prenderà anche il suo secondo nome: Nazareno. Possiamo immaginare quanto gli fosse stata cara: volti, vicende, tradizioni, suoni, colori, profumi… tutto quanto si imprime nella fantasia di un fanciullo e nella memoria di un giovane.
Quando Gesù sarà nel pieno della missione ambienterà le parabole sullo sfondo dei suoi ricordi: la donna che spazza la casa per cercare una monetina caduta tra le fessure del pavimento, la massaia che impasta la farina col lievito, il datore di lavoro che va in cerca di operai, il figlio scapestrato che se ne va da casa, le sofferenze di una mamma nel parto, etc. Quando vorrà proclamare l’urgenza del Regno di Dio e quanto costa la radicalità necessaria ai discepoli, proporrà di «lasciare la propria casa» (Lc 18,29; cfr. Lc 9,58).
Entriamo ora nella casa della Santa Famiglia. Osserviamo i rapporti fra le persone che vi abitano: Giuseppe, Maria e Gesù. Questo tema è stato tratteggiato molto bene dalla Lettera del vostro Vescovo. Vi lascio solo qualche suggestione. Nella casa di Nazaret il più grande – che è Gesù – è obbediente al più piccolo, Giuseppe. Maria, la mamma, osserva e custodisce ogni avvenimento nel cuore. Giuseppe è premuroso custode di tutti. Maria e Giuseppe sono sposi a tutti gli effetti. Vivono nel rispetto reciproco, ma nella più piena unità. I loro giorni e i loro destini sono intrecciati. Matteo racconta l’annunciazione a Giuseppe, Luca l’annunciazione a Maria. Non c’è contraddizione: Dio parla alla coppia.
L’indirizzo che Maria e Giuseppe danno alla loro famiglia la rende aperta, ricca di relazioni. Partecipano ai pellegrinaggi e alle feste di paese. Salgono al tempio di Gerusalemme. Condividono le vicende di famiglia con i parenti e i conoscenti: si fidano, quando pensano che Gesù dodicenne sia al sicuro tra loro. Nel rimprovero che Maria rivolgerà a Gesù c’è tanta considerazione per il ruolo di Giuseppe: «Tuo padre ed io ti cercavamo…» (Lc 2,48.) Maria e Giuseppe – come abbiamo già visto – sanno affrontare le prove con coraggio e determinazione nell’amore e nella stima reciproca: dalla imbarazzante maternità al parto in condizioni difficili, dall’inseguimento della gendarmeria di Erode alla fuga in Egitto, dal rientro nella povertà di Nazaret al lavoro che procura sudore e calli alle mani.

Appena un accenno al brano evangelico. Troviamo Maria ad una festa di nozze; ce lo racconta l’evangelista Giovanni: una festa di paese, a Cana di Galilea, con tanti invitati. A Cana viene proclamato il Vangelo dell’amore sponsale: Maria è sposa! È attenta a quello che accade attorno a lei: spicca il suo senso pratico. I veri contemplativi sono “con i piedi per terra”. Maria previene l’imbarazzo degli sposi novelli. Anche qui c’è una parola della madre verso il figlio Gesù: «Non hanno più vino» (Gv 2,3). Sa che nella vita di ognuno l’amore può venir meno come il vino alle nozze. L’amore sulla terra è a rischio, lo sappiamo bene. La diminuzione, il venir meno, il tramontare sembrano una costante per le esperienze umane. Maria, a Cana, non si rassegna e sente che le cose possono andare diversamente: dal meno al più, dal debole al forte, dal poco al tanto, dall’acqua al vino. Gesù, infine, interviene. Sarà il suo primo miracolo. Aveva esordito dicendo: «Non è la mia ora». La Madonna sposta la lancetta sul quadrante del tempo. C’è una parola della Madre anche per noi: «Fate tutto quello che lui vi dirà» (Gv 2,5).
Di cosa parla la Madonna quando parla con Gesù? Parla di noi! E Gesù, a sua volta, a lei parla di noi.