Omelia nella festa di San Biagio

Piandimeleto (PU), 3 febbraio 2021

Eb 12,1-4
Sal
Mc 5,21-43

Se dovessi dare un titolo all’omelia metterei questo: l’incontro che salva. La situazione che stiamo vivendo da mesi ci porta ad implorare aiuto al Signore. L’epidemia ha segnato e segna tante famiglie. Pesano i distacchi, soprattutto quelli delle persone care; angoscia la prospettiva dei vuoti con i quali dobbiamo fare i conti. Si può dire, in ognuno che ci lascia, che è tutto un mondo che scivola via. Anche la partenza di una persona anziana, soprattutto se è cara, lascia rimpianti, nostalgie, ricordi. Si prega, si chiedono preghiere, e ci si accontenterebbe anche che il Signore rinviasse di una settimana, un mese, un anno, la partenza di uno dei nostri cari.
Poi vengono domande di altro genere: «Serve pregare?», e domande più radicali: «Che è questa vita a cui siamo irresistibilmente attaccati, se poi è destinata a finire, tante volte sul più bello?». Ci fosse anche una guarigione, non sarebbe per sempre. Ci saranno altri distacchi, altre partenze.

Nella pagina di Vangelo appena proclamata incontriamo Giairo che sa del potere taumaturgico di Gesù: in Galilea si è sparsa la voce che fa miracoli. Allora Giairo prega il Maestro di mettere il suo potere a beneficio della sua figliola, che è in fin di vita (non ne sappiamo il motivo). Giairo non ha ancora la fede in Gesù, ma ha fiducia nel potere di guarigione del Maestro. Quello che conta è aver incontrato Gesù, poter riporre in lui la più assoluta fiducia. Gesù non gli chiede nient’altro, gli dice: «Non temere, continua soltanto a fidarti». Lo invita a non lasciarsi accasciare dalla realtà della morte di sua figlia, così come gli è stata crudelmente comunicata attraverso una staffetta di persone che gli vanno incontro mentre rientra a casa. Gesù gli dice anche di non aver paura di apparire sciocco continuando ad aver fiducia in lui, di non far caso neppure a quello che dicono i suoi discepoli che lo allontanano per non fargli perdere tempo e nemmeno all’ironia dei presenti nel cortile. La fede non si esaurisce nella fiducia in una grazia materiale, ma può partire da questa per arrivare a capire in profondità che la vera fede è credere a Gesù come salvatore. La fede si innesta sul vivo delle speranze umane e la grazia divina erompe sull’umano.

Il seguito del racconto è permeato da tanti motivi pasquali, che sono qui anticipati. Per esempio, il pianto e la tristezza di fronte alla tragedia della morte, la parola di Gesù che interpreta quella morte come un dormire. I primi cristiani, mossi dalla fede pasquale nella risurrezione, hanno cambiato il nome della necropoli (etimologicamente “necropoli” significa “città dei morti”) in “cimitero” (che vuol dire “dormitorio”). Poi c’è il comando di Gesù: «Ragazza, in piedi (Talità kum in aramaico)!»; kum è l’equivalente dei verbi tipici della risurrezione: alzarsi e risvegliarsi. Qui il miracolo è la rianimazione di un cadavere, ma è da intendersi come un’anticipazione della risurrezione pasquale; infatti, la ragazza, restituita alla vita terrena, di nuovo è votata alla morte. Il miracolo è segno del potere che Gesù ha sulla morte. In questo racconto la parola di Gesù ha la stessa forza, lo stesso potere, della Parola di Dio, come nella creazione. «Dio disse e tutto fu fatto» (cfr. Sal 148,5): quindi la parola di Gesù è una parola efficace, che trasforma le realtà a cui è indirizzata. La parola di Gesù fa dello sconsolato Giairo un credente e della ragazza morta una vivente. Ahimè, si può anche resistere, non avere fiducia in quella parola di Gesù. Succede. Vedi l’ottusità dei discepoli, l’ironia della gente attorno a casa, il terrore degli astanti. La parola di Gesù non toglie il dolore, non è un anestetico. Però le parole di Gesù infondono speranza. Voglio fidarmi. Spero sia così anche per voi.

Faccio un breve accenno al “miracolo dentro al miracolo”: mentre Gesù va con Giairo a casa sua incontra una donna che soffre di perdite di sangue. Aveva speso tutti i suoi averi per trovare un rimedio. Anche lei ha avuto la fortuna di incontrare Gesù e di passare dalla stima di Lui alla fede in Lui. L’evangelista Marco indugia nel racconto di alcuni particolari: il caos della folla che stringe Gesù da tutte le parti, la donna che si allunga quasi strisciando per terra per toccare un lembo della sua veste… La donna viveva in situazione di morte, è una morta vivente (per gli antichi il sangue “dentro” è vita, il sangue che scorre “fuori” è morte) e si vorrebbe quasi lasciar morire dato che tutte le cure non sono efficaci. Ormai è buio nel suo cuore, ma in un impeto di stima per Gesù tocca la frangia del suo mantello e guarisce immediatamente. Gesù, nella sua misteriosa sensibilità spirituale, avverte che il suo potere salvifico è entrato in opera, ma non ne è irritato, anche se alza lo sguardo dicendo: «Chi mi ha toccato?». I discepoli, però, sorridono perché non capiscono come possa fare quella domanda visto che è pigiato da tutte le parti. Gesù vuole insegnare – e questo vale per me e per voi – che il semplice contatto fisico non basta, per questo volge lo sguardo tutt’attorno e cerca chi lo ha toccato. Cerca un incontro personale che superi la superstizione, il gesto magico, e consenta l’irruzione della grazia e della fede. È quello che accade. La donna non può resistere allo sguardo di Gesù, perché Gesù sa cavar fuori le fibre più nascoste dell’anima e proprio dalla stima per Gesù, dal gesto un po’ superstizioso, dalle sue paure, dalla sua nudità davanti a lui e alla gente irrompe la fede, la grazia. Gesù le dice: «La tua fede ti ha salvato. Va’ in pace e sii guarita». Da notare i due verbi: il verbo “salvare” e il verbo “guarire”. Sono due cose diverse: uno può guarire, temporaneamente, per cent’anni, ma la salvezza è una cosa più grande, più profonda. La salvezza è essere in comunione sempre con il Signore Gesù.
Dico a noi cristiani: dobbiamo guardare il paradiso! Non valgono tanto le prove scientifiche, ma la fede: «Gesù credo sulla tua Parola».
Una volta alla Certosa della mia città ebbi un’esperienza di grande buio spirituale. Era il mese di luglio e il sole picchiava forte; ero stato chiamato per un rito funebre. C’era un necroforo che stava riesumando i resti di una persona e con una cazzuola da muratore tirava via la terra dal teschio. Mi fermai un attimo a guardare. Dissi a Gesù: «Credo sulla tua Parola, perché tante volte ho fatto esperienza che la tua Parola è vera». Se Gesù dice che dobbiamo guardare il paradiso, che saremo con Lui, possiamo fidarci. Chiediamo di essere guariti, ma chiediamo soprattutto la salvezza eterna. Abbiamo una eternità smisurata di gioia e di vita davanti a noi. Così sia.

Omelia nella Festa della Presentazione del Signore

Pennabilli (RN), Cattedrale

Ml 3,1-4
Sal 23
Eb 2,14-18
Lc 2,22-40

1.

Celebriamo con gioia e gratitudine, nella Festa della Presentazione del Signore, la Giornata della Vita Consacrata. Gioia per i rapporti sempre nuovi tra di noi. Gratitudine per i «doni gerarchici e carismatici» (cfr. LG 4) che il Signore dona alla sua Chiesa per costituirla, per dirigerla e per arricchirla. Diocesani e religiosi sono uniti nella diversità: viviamo gli uni per gli altri. Nessuno qui è ospite. Tutti pellegrini. Tutti famiglia. Tutti protesi a costruire il “noi”, come ci ricorda spesso papa Francesco. Tutti consacrati nelle acque del Battesimo e nell’unzione con il santo crisma.

2.

Guidati dalla Parola di Dio e dai testi liturgici non possiamo che parlare di Lui, il nostro Sposo, il Tutto della nostra vita: il Signore Gesù! Non siamo qui per parlare di noi o dei nostri problemi, che sono smisurati in questo tempo. Siamo qui per mettere Lui al centro. Contempliamo e godiamo di Gesù Lumen gentium. La meraviglia che subito suscita in cuore e abbaglia è il mistero della luce: Gesù, Mistero di Luce!
Una luce che spunta da lontano, da quel primo “fiat”: «Sia la luce. E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona» (Gn 1,3). Una luce che avanza nei secoli dell’Antico Testamento, incendiando e avvolgendo ogni cosa (non sono divagazioni, è lectio divina): il roveto ardente (cfr. Es 3,2); il Sinai in fiamme (cfr. Es 19,24-40); il fulgore sul volto di Mosè (cfr. Es 34,28-35); la grande luce profetizzata da Isaia: «Un popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce…» (Is 9,1ss) e la profezia del “Terzo Isaia”: «Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te» (Is 60,1); il ritorno della gloria di Dio vista da Ezechiele: «La gloria del Signore entrò nel tempio per la porta che guarda a oriente» (Ez 43,4); l’angelo dell’Alleanza del profeta Malachia e il fuoco del fonditore (cfr. Ml 3,1ss), di cui abbiamo sentito nella Prima Lettura.

3.

Una luce che irrompe e divampa nel Nuovo Testamento con Gesù, il “tutto luce”! «Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (Gv 1,9). «Io sono la luce del mondo – dirà Gesù –; chi segue me non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita (Gv 8,12). «Finché sono nel mondo – dice – la luce risplende» (Gv 9,5).
È la luce che, alla fine, sarà totale e totalizzante. Così lo squarcio dell’Apocalisse: «La città non ha bisogno né della luce del sole, né della luce della luna, perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello» (Ap 21,23). «Non vi sarà più notte e non vi sarà più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole perché Dio li illuminerà e regneranno nei secoli dei secoli» (Ap 22,5).

4.

La luce – abbiamo sentito – illumina, accarezza, avvolge ogni cosa e la fa diventare luce, la trasforma in luce, luce riflessa, fosforescenza.
Nella processione abbiamo trasportato le nostre luci. Raffigurano la luce affidataci da colui che seguiamo: «Cristo luce» (cfr. Gv 9,5). Attingiamo a Lui nostra luce e camminiamo nel mondo come un fiume di luce. San Leone Magno vedeva i suoi cristiani che tornavano dai santi misteri come dei leoni “ignem spirantes” (leoni che emettevano fuoco, luce). Gesù stesso l’ha detto: «Voi siete la luce del mondo… Risplenda la vostra luce davanti agli uomini» (Mt 5,16). Tutti luminosi ci vuole il Signore, come lucerna che illumina col suo bagliore quelli che sono nella casa (cfr. Lc 11,36).
Oggi si legge nella liturgia un’antifona che allude alla luce, ma soprattutto all’incontro fra Cristo sposo con la sua sposa: «Adorna, o Sion, la stanza delle nozze. Accogli Cristo tuo Signore. Abbraccia Maria che è la porta del Cielo e porta il Signore della gloria. Ella, la Vergine, si ferma presentando nelle sue mani il Figlio nato prima della stella del mattino…». Questa antifona nell’ufficiatura della liturgia precede e segue il Salmo 44, il Salmo delle nozze del re. La luce: il dono che il Signore fa alla sua sposa… Il cero pasquale!
La luce, quale è tratteggiata nella sua storia (Antico e Nuovo Testamento), prefigura il Mistero dei Misteri: il Mistero pasquale. È il vecchio Simeone a profetizzarlo nel suo cantico. Il Bambino presentato da Maria e da Giuseppe sarà «segno di contraddizione… Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele».

5.

Nella presentazione di Gesù, accanto a Maria e a Giuseppe ci sono Simeone e Anna, due persone consacrate al Signore, dimoranti nelle strutture del Tempio, ciascuna con una grande attesa nel cuore, ciascuna con la necessità irrefrenabile di divulgare, col dono divino loro concesso, l’adempimento della salvezza per tutti.
I religiosi e le religiose qui presenti (insieme a quelli connessi online) continuano la missione incominciata da Anna e da Simeone, con una giovinezza inossidabile, che perdura anche nell’avanzare dell’età. Essi hanno avuto la salvezza e hanno avuto la chiamata ad annunciarla con la loro vocazione e missione. Sono stati chiamati dal Signore e consacrati per svelare la vita che ci aspetta dopo questa vita (quest’anno abbiamo avuto tante volte presente la realtà della morte, del passaggio «all’altra riva» (cfr. Mc 8,13). Essi operano nella Chiesa con una vita improntata ad una vita futura, quella del Regno: castità, povertà, obbedienza.
Un grazie per la loro testimonianza missionaria, per il lavoro che compiono accanto a noi e compiono per noi, oltre che per tutti gli uomini. E col grazie una preghiera, perché siano sempre più quello che devono essere: anzitutto segno del Regno di Dio.

6.

Oggi è festa di tutti. Nella Chiesa c’è diversità di carismi e ministeri, ma unità di missione (cfr. AA 2).
La festa di Cristo Luce, dunque, è per tutti. La festa dell’incontro, della comunione con la luce, è per tutti. La festa delle nozze, splendenti di luce, è per tutti! La festa della Pasqua – Passione e Risurrezione – per la quale e nella quale si diventa luce, è per tutti! Anche la festa della radicalità evangelica e dei suoi consigli e della loro realizzazione è per tutti!
La festa di oggi richiama al dovere della quotidiana conquista della dedizione al Signore. Convertirsi è tendere a Lui che ci attende: non è un gioco di parole. Convertirsi è una necessità per la nostra azione pastorale; abbiamo bisogno di ritrovare slancio, coraggio, audacia. In uscita. Dal centro alle periferie. Una conversione personale, umile, ma irrinunciabile: una luce, anche se piccola, si vede da lontano; e una conversione comunitaria: una Chiesa inquieta perché protesa a tutti, nella costante ricerca del dialogo, come una madre che non si dà pace per i suoi figli, che cerca senza sosta, che sa mettersi in discussione, che fa fatica, ma ricomincia sempre.
Alla fine del nostro incontro verrà dato a tutti i religiosi e le religiose un piccolo dono: un quaderno, sul quale ognuno potrà, di tanto in tanto, segnare un’esperienza di missionarietà, una parola che gli richiama il dovere di espansione della luce. La luce non si mette sotto il moggio, ma sul candelabro! Ci sono tanti modi di irradiazione. In occasione dell’Assemblea diocesana del 22 maggio 2021 anche voi sarete collegati con la restituzione di questo quaderno. Sarà bellissimo riceverlo. Allora capiremo che non è stata la Diocesi che ha fatto un dono a voi, ma voi alla vostra Diocesi: uno scambio di doni, amore che va e amore che viene! Così sia.

Omelia nella IV domenica del Tempo Ordinario

San Marino Città (RSM), 31 gennaio 2021

Festa di San Giovanni Bosco

Ez 34, 11-12.15-16.23-24.30-31
Ger 31, 7b. 9b. 10. 20
Fil 4,4-9
Mt 18,1-6.10

1.

Se si dovesse leggere tutto intero il capitolo 34 del libro di Ezechiele – nella liturgia ne è stato proclamato solo un tratto – se ne ricaverebbe un grande senso di delusione: chi doveva vegliare sulla comunità e mettersi a servizio, finiva per pensare solo a se stesso, mentre la comunità era allo sbando. Su questo sfondo, però, c’è una bella notizia: Dio stesso si prenderà cura e si interesserà della sua gente. La comunità non è abbandonata, alla deriva. Nel brano si incontra una lunga sequenza di verbi (dieci verbi più uno alla fine), a cascata: sono i verbi della pedagogia di Dio e racchiudono tenerezza, attenzione e amore. Vanno capiti nello sfondo dell’allegoria del Pastore e delle pecore, un’allegoria un po’ desueta per molti di noi. Ecco i verbi del Dio Pastore usati dal profeta: cerca (da notare: un conto è il cercare e un conto è il ricercare), ha cura, passa in rassegna (uno per uno, quasi a tu per tu), raduna, conduce, fa riposare, va in cerca, guarisce, pasce, tiene conto della situazione (c’è la pecora stanca e c’è la pecora in gran forma). Dieci verbi. Su ognuno si potrebbe riflettere e pregare. Ma ce n’è uno ancora più forte. Dopo averci detto cosa fa Dio per noi direttamente, c’è la promessa (che è il motivo della nostra festa oggi): «Susciterò per loro un pastore che le pascerà…» (Ez 34,23). Ecco perché oggi, pensando a don Bosco, abbiamo riletto questa pagina antica. Don Bosco è stato una presenza del Signore in mezzo ai giovani.
Ogni volta che vengo tra voi per la festa di Don Bosco mi vien sempre da ricordare, guardando la sua immagine in fondo alla chiesa, che ci fu un periodo della mia vita in cui avrei voluto essere don Bosco. Non sono diventato don Bosco, però ho avuto una missione simile alla sua. I giovani hanno bisogno di amicizia e di persone che si dedicano e si spendono per loro.

2.

Nella Seconda Lettura c’è un invito alla gioia. Non è soltanto un invito, sembra piuttosto un’ingiunzione. Ma si può comandare la gioia? Si può essere felici “a comando”? «Siate nella gioia, ve lo ripeto, rallegratevi» (Fil 4,4). Quando san Paolo ha scritto queste parole era in prigione (le ha dettate ad un altro). Questa circostanza dà alle sue parole un tono particolare. La gioia di cui parla san Paolo è la gioia che dà il Signore, ma è anche la gioia che viene dal sapere che Lui c’è. Paolo, incatenato, non può fare un granché per i suoi amici, ma può svelare il segreto della sua serenità, della sua pace. In questa lettera, come nelle altre dette “della cattività” (scritte nel tempo della prigionia), Paolo confida: «Tracimo di gioia». Com’è possibile essere traboccanti di gioia in carcere, portando le catene ingiustamente? San Paolo dice: «Ho il Signore con me». Il Signore veglia su di me, veglia su di voi, veglia su coloro che sono i suoi amici. Noi lo preghiamo per chiedere ciò di cui abbiamo bisogno, ma non saremo mai inquieti, disperati. Anzi, come don Bosco dovremmo diffondere gioia, dare questa testimonianza che viene da dentro. Il Signore è qui.

Accenno ad una vicenda personale. Ho un fratello missionario che ultimamente ha avuto problemi di salute. Si è preso il Covid. Dopo circa un mese e mezzo sono riuscito, attraverso una mediazione ad incontrarlo.  Gli ho portato Gesù Eucaristia. Lui era contentissimo. Poi, chiedendo al Signore di prendersi cura di lui, gli ho dato il sacramento che si dà agli ammalati: la Santa Unzione. Ad un certo punto, quando l’infermiere è uscito, ho guardato negli occhi mio fratello, oltre la mascherina, e gli ho chiesto: «Silvio, hai paura?». Sottinteso, paura della morte. Mi ha risposto: «No! Perché paura?». E ha fatto un grande sorriso. Se una persona ha Gesù, è felice.

Abbiamo letto una stupenda pagina di Vangelo. Gesù dice che per essere “grandi” bisogna essere “piccoli” (cfr. Mt 18,3): ha scelto questa simbologia, non tanto perché i bambini sono innocenti (non sempre è vero!), ma perché hanno la caratteristica naturale dell’abbandono fiducioso, che noi adulti invece dobbiamo riconquistare. È l’abbandono fiducioso che Gesù viveva con Dio Padre, persino sulla croce. Gesù insegna anche a noi a fare come lui. Bisogna fare un bel cammino per diventare “grandi” tornando “piccoli”. Gesù l’ha detto una volta ad un sapiente, Nicodemo: «Vuoi vedere il regno di Dio? Devi tornare bambino» (cfr. Gv 3,4). Ma è impossibile tornare nel grembo della mamma – replica Nicodemo – quando si è adulti». Nicodemo non aveva capito cosa intendesse Gesù.
Chi è il più grande? Domanda ingenua che rivela come si pensi ancora il Regno di Dio come grandezza mondana, dove contano le gerarchie, le carriere, il potere, l’arrivismo. Nella risposta di Gesù c’è un grande acume didattico: chiama a sé un bambino e lo pone in mezzo ai discepoli. Nella futura comunità di Gesù, come nella nostra, ci vuole chi guida, chi prende decisioni, ma questi responsabili devono farsi piccoli e semplici come bambini, come faceva don Bosco, che stava in mezzo ai ragazzi in modo semplice, discreto, accogliente, senza vergognarsi di accogliere anche uno solo di questi piccoli, che fanno tante domande, che vogliono sempre giocare. Dice Gesù: «Guai disprezzarli! Guai allontanarli!». E poi ha una conclusione sorprendente: «State attenti, i loro angeli (gli angeli dei bambini) sono nel Consiglio ristretto di Dio, sono quelli che li difendono» (cfr. Mt 18,10). Buona festa a tutti voi e alla vostra comunità!

Omelia nella Festa di San Francesco di Sales

San Marino Città (RSM), 25 gennaio 2021

At 22,3-16
Sal 116
Mc 16,15-18

Mi sono fatto due domande. La prima: «Possibile che Gesù Risorto – così racconta il Vangelo che abbiamo proclamato – mandi in missione in tutto il mondo persone che fino ad un attimo prima dubitavano? Infatti, il v.14 parla della difficoltà dei discepoli a credere, a credere anche alle donne che erano testimoni dirette di Gesù Risorto. Eppure, Gesù dice che li manda «con i suoi poteri».
La seconda domanda è ancora più paradossale. Il Signore chiama san Paolo (Saulo era il suo nome, un nome che richiamava l’antico re d’Israele) ad evangelizzare i pagani, a diventare – per così dire – quasi il fondatore del cristianesimo, lui che era persecutore dei cristiani: com’è possibile?
Dunque, il Signore chiama un gruppo di pescatori «plebei e illetterati» (cfr. At 4,13) e dubbiosi e coinvolge Paolo, che era addirittura un persecutore, per il suo progetto missionario.
Penso che un po’ tutti proviamo difficoltà a considerare la sproporzione fra la chiamata che il Signore ci rivolge e le nostre povertà e inadeguatezze. Lui ci assicura che la sua grazia risplende pienamente nella nostra debolezza. Paolo scriverà: «Ho chiesto al Signore di liberarmi dalle mie debolezze e mi fu risposto: “Ti basta la mia grazia. La mia potenza si manifesta nella tua debolezza”» (cfr. 2Cor 12,9). Naturalmente c’è una condizione: dare fiducia allo Spirito di Gesù. Egli metterà parole giuste sulle nostre labbra, parole che possono toccare, servire, prendersi cura dei fratelli. Sarà accanto a noi nelle nostre delicate responsabilità. Auguro che ognuno possa dire come san Paolo, «non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me».

Discorso conclusivo del Convegno per i giornalisti

Qualcuno sostiene che la Chiesa non abbia detto parole significative in questo tempo di pandemia. In realtà, abbiamo la testimonianza del grande comunicatore che è papa Francesco. Per dire parole nuove, parole vere, bisogna vivere. Per quello che io sento, le parole nuove nascono dal Vangelo vissuto. Nella rivista diocesana “Montefeltro” abbiamo cercato il più possibile di trovare parole nuove. Alcune immagini ce le ha suggerite il Papa stesso. Ad esempio: «Siamo sulla stessa barca», «peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla»… Le parole nuove sgorgano dalla vita. Quello che ci è chiesto è la vicinanza alle persone. Occorre trovare le parole giuste, che diano fiducia. Vedo il male, la difficoltà, la disperazione. Oltre a denunciare ed evidenziare il male, è importante far vedere tutto il positivo che c’è in questo tempo. È compito di noi comunicatori portare alla luce quello che paradossalmente non fa tanta notizia: «Fa più rumore un albero che crolla di una foresta che cresce».
Grazie per essere venuti. Buona giornata a tutti!

Omelia nella III domenica del Tempo Ordinario

San Marino Città (RSM), 24 gennaio 2021

Domenica della Parola

Gio 3,1-5.10
Sal 24
1Cor 7,29-31
Mc 1,14-20

Ci fu un tempo in cui il santo libro della Parola di Dio andò smarrito. L’episodio è raccontato nel secondo libro dei Re (cfr. 2Re 22-23), al tempo del re Giosia, un re ragazzino (proclamato re a soli otto anni). Sotto il suo regno è in atto un programma di rinnovamento. Si comincia dal Tempio di Gerusalemme. Il re convoca architetti, artigiani, falegnami, muratori e c’è un gran lavoro attorno alla santa fabbrica. Il re raccomanda un riordino radicale e le squadre di operai scendono fino agli scantinati del Tempio. Viene riferito al re che sono state recuperate delle carte antiche, forse è il libro dell’Alleanza. Consultano una profetessa e lei certifica che si tratta proprio del libro dell’Alleanza. Quando il re viene informato con precisione, prende coscienza che la Parola di Dio è, per così dire, “finita giù per le scale di cantina”. Il re organizza allora un grande momento penitenziale a cui invita tutto il popolo. Si darà lettura ininterrotta del libro dell’Alleanza. Ci fu grande gioia per le Sacre Scritture ritrovate.
Che cosa ci chiede il Santo Padre, papa Francesco, nella Domenica della Parola?
Attenzione: mai nella Chiesa si è dimenticata la Parola di Dio. Tuttavia, può succedere che nel nostro cuore, nella nostra vita spirituale, nella nostra pastorale perdiamo il contatto con la Parola di Dio. Per questo papa Francesco, con l’indizione di questa Domenica, chiede di riappropriarci della consapevolezza di che cos’è la Parola di Dio e di quanto sia determinante per la vita delle nostre comunità.
Abbiamo il tesoro dell’Eucaristia e abbiamo il tesoro delle Sacre Scritture: dobbiamo custodirle, leggerle, pregarle, soprattutto viverle.
Nella mia esperienza ho trovato due generi di persone. C’è chi parte dalla vita con le sue interpellanze (prospettiva esperienziale) e le risolve chiedendosi: che cosa dice Gesù a proposito di questo? Cosa dice la Parola di Dio su questa cosa che mi accade? E obbedisce alla Parola. C’è poi chi parte dal testo sacro (prospettiva kerygmatica) e prova a declinarlo nelle situazioni di vita. Per far questo legge la Parola di Gesù, dei profeti e dei Salmi (preghiere che diceva anche Gesù), fa tesoro dei brani ascoltati nella celebrazione domenicale, sottolinea una frase in particolare e, durante la settimana, fa l’esercizio di averla presente: la rumina (in senso metaforico), la pensa, cerca di iniziare la giornata alla luce di quella Parola e di viverla. Ad esempio, Gesù dice: «C’è più gioia a dare che a ricevere» (At 20,35). Sarà vero? Non c’è altro da fare che accettare la sfida. Oppure Gesù dice: «Ero forestiero e mi hai ospitato» (Mt 25,38). Allora prova a credere che Gesù è presente nell’ospite e lo accoglie come accoglierebbe Gesù.
L’una e l’altra prospettiva si basano sulla convinzione che la Parola sia efficace, che abbia una potenza propria se accolta con fede. Potrei raccontare un’infinità di esperienze in tal senso. Della Parola di Dio si dice che è «lampada per i nostri passi» (Sal 119,105).
La Parola educa, fa crescere. Alcuni vedono la Parola come la lettera che il Signore ha scritto per noi. La lettera è cara, si conserva. Si dice di santa Cecilia che portava sempre il Vangelo nel suo cuore. Altri ancora pensano la Parola di Dio come un album di fotografie; lo sfogliano e vedono come Dio sia stato presente nella storia del suo popolo: vicende, personaggi, inseguimenti. E il Signore continua a fare così attraverso la Parola che viene letta: è Lui che parla.

Consideriamo le letture di oggi. La Prima Lettura ci parla di un profeta, Giona, che si rifiutò di andare a Ninive a proclamare la conversione: fuggì verso l’Occidente anziché andare ad Oriente; poi, pentitosi, tornò ad annunciare la conversione. Tutti si convertirono. Quando Giona si è deciso a credere a quello che il Signore gli proponeva, ha visto i frutti.
Nella Seconda Lettura san Paolo afferma che c’è un tale splendore nel Vangelo che tutto il resto appare relativo. Si trova la libertà, si trova una sana “indifferenza”, per cui non si è più aggressivi, “attaccati”, bisognosi di riconoscimenti, perché si è incontrato lo splendore del sole.
Nel Vangelo Gesù passa lungo le rive di Galilea e chiama. Gesù «vede» Simone e Andrea. Quante persone avrà visto, quanta gente ci sarà stata al mercato di Cafarnao o di Betsaida… Ma Gesù vede nel profondo e vede quello che Simone non immaginava assolutamente. Gesù gli cambierà il nome in Pietro, diventerà “la roccia”, lui che era uomo d’acqua, su cui si fonderà la comunità. Gesù «vede» Andrea che a malapena conosceva le rotte del lago e diventerà un grande evangelizzatore. Andrà verso Occidente a portare la Parola di Gesù. Gesù vede e dice: «Venite». Li chiama «perché stiano con lui» (Mc 3,15), come ha fatto con noi: ci ha chiamati perché stessimo con Lui. E loro lo trovano “affidabile” e proprio per questo lasciano tutto e partono. Allo stesso modo noi troviamo Gesù affidabile, gli diamo totale fiducia e lo annunciamo.
Poi Gesù aggiunge che li fa «pescatori di uomini». Domenica scorsa leggevamo in un’altra pagina di Vangelo che Gesù diceva a due dei suoi discepoli: «Che cosa cercate?» (Gv 1,38), cioè: «Quali sono i vostri desideri profondi? Mettete l’amo dentro il vostro cuore e pescate il vostro sogno, perché vi prometto di compiere quel progetto. Sono con voi». Qui, invece, Gesù dice che l’amo va gettato verso gli altri, vanno cavati fuori dall’acqua e portati al sole, alla luce. Pensate a tutta l’attività educativa, ma soprattutto alle relazioni, anche in questo tempo nel quale ci viene chiesto il distanziamento per salvare la società. Salvare le relazioni: questo il grande compito che ognuno di noi è chiamato a svolgere. Buona settimana a tutti. Vi invito a evidenziare la frase del Vangelo che preferite e a viverla. Sarebbe bellissimo trovare un momento di condivisione: raccontare cosa ha fatto la Parola di Dio in noi, perché è Parola veramente efficace: «Dio disse e le cose furono fatte» (Gn 1,3-24). Tra poco noi sacerdoti pronunceremo delle parole straordinarie di Gesù: «Prendete, mangiate: questo è il mio corpo». E accadrà il più sorprendente dei prodigi: Gesù si farà presente nel pane, nel vino. La Parola che scende su di noi, se la viviamo, ci fa diventare Chiesa di Gesù, suo mistico Corpo.

Omelia nella II domenica del Tempo Ordinario

Monte Cerignone (PU), 17 gennaio 2021

1Sam 3,3-10.19
Sal 39
1Cor 6,13-15.17-20
Gv 1,35-42

È cominciato il tempo liturgico che chiamiamo “ordinario”. Meglio sarebbe dire che inizia il nostro cammino “quotidiano” alla ricerca di Gesù. Ma come incontrarlo?
Giovanni Battista l’ha indicato ai discepoli con questa espressione: «Ecco l’Agnello di Dio!». La parola “Agnello” non indica solo “l’animale-simbolo”, ma nelle Scritture significa anche “servo”. Ecco, allora, un doppio richiamo: l’Agnello pasquale che salva, che può essere mangiato, che nutre (cfr. l’Agnello dell’Esodo); il Servo di Dio, cantato nei quattro “Carmi del Servo sofferente” di Isaia, soprattutto nel quarto («attraverso le sue piaghe saremo risanati» Is 53,5). Ecco chi è Gesù!

C’è tanta autobiografia nel Vangelo di questa domenica. Penso sia così anche per molti di voi. Giovanni Battista indica Gesù che passa, ma tutto il brano è fatto di continui richiami al movimento, agli sguardi, agli inviti, agli appostamenti, agli inseguimenti: è vita.
Si incomincia con l’inseguimento dei due discepoli del Battista: Andrea e il discepolo innominato (ma dal contesto del quarto Vangelo si evince che si tratta di Giovanni). I due vedono Gesù solo di spalle. Al lettore non sfugge il richiamo all’esperienza di Mosè (cfr. Es 33,18-23) che chiede di vedere il volto di Dio, ma questo non gli è dato: non è possibile a nessuna creatura umana. Chi vede il volto di Dio non resta in vita… Ma quando il Signore sarà passato davanti alla rupe ed avrà coperto con la mano la “fenditura nella roccia”, Mosè potrà vedere le sue spalle. Così anche “quei due” all’inseguimento di Gesù potranno conoscerlo solo dopo che Lui è passato. Questo accade anche a noi: lo conosciamo dopo che lo abbiamo seguito ed abbiamo visto quello che ha fatto nella nostra vita.

Ma qui c’è una novità, una “sorpresa”: Gesù si volta! In questo “voltarsi” è sintetizzata tutta la vicenda di Gesù: Dio si fa vedere! “Voltarsi” non significa solo “girarsi”, ma anche “farsi volto”. Gesù è Dio che si lascia vedere, guardare, “inchiodare” con la nostra osservazione: “voltandosi” si consegna, entra nel nostro limite… E tutto per incontrarci!

Gesù rivolge ai due una domanda: «Che cosa cercate?». È una domanda sul desiderio: «Qual è il vostro desiderio più profondo?». Gesù si propone come compimento del nostro desiderio. Dio non ci è nemico, non ci propone cose assurde, ma vuole partire dal meglio che c’è in noi. Nei Salmi si chiede: «Mostraci il tuo volto, Signore» (cfr. Sal 27,8; 31,21; 90,8; 17,5 ecc.). Questa la risposta dei due: «Maestro, dove dimori?». Non chiedono tanto un’informazione topografica, un indirizzo con tanto di numero civico, ma dove “dimora” e “rimane”.

Ancora una volta il lettore di tradizione ebraica non può non pensare al tempio, il luogo della “Dimora”. «Qual è, Signore, il luogo dove io posso stare con te?». Sappiamo che Gesù «viene da Nazaret», dove è vissuto fino ai trent’anni (cfr. Lc 3,23); ha abitato a Cafarnao nel tempo del suo ministero in Galilea (a Cafarnao paga le tasse per lui e per Pietro cfr. Mt 17,27) e a Betania in casa di Marta, Maria e Lazzaro (cfr. Lc 10,38,42; Gv 12,1-11), vicino a Gerusalemme. Nell’Ultima Cena dirà che la sua dimora è «nel seno del Padre», dimora alla quale invita i suoi discepoli (cfr. Gv 14,2-4.11.23, ecc.).

«Che cosa cercate?»: una domanda fatta sulle rive del fiume Giordano, dove Gesù ha appena ricevuto il Battesimo. Quella domanda ritornerà alla fine del Vangelo, nel giardino in cui si trovava il sepolcro di Gesù. Maria di Magdala si ferma, va verso Gesù, pensa che sia il custode del giardino e gli chiede: «Dove hanno messo il corpo del mio Signore?». E Gesù si volta, si fa volto, e le chiede: «Chi cerchi?» (cfr. Gv 20,15). Tutto il Vangelo sta incluso tra queste due domande: la prima ai discepoli lungo il fiume, l’ultima a Maria di Magdala nel giardino. Tutto il Vangelo è un cammino per cercare non “qualcosa”, ma “Qualcuno”.

Riferendomi alla Prima Lettura di questa liturgia, riesprimo così il desiderio di quei discepoli: «Signore, dove dormi? Dove vai quando è notte?». Samuele va a dormire e sente la voce: «Mi hai chiamato? Eccomi». «No, torna a dormire», risponde Eli (cfr. 1Sam 3,5). E il Signore lo raggiunge in quel momento. Anche noi viviamo giornate di buio e di prova. Il Signore ci aiuta a stare con lui. Ma dov’è la sua casa?
Come si vede nella replica di Gesù, non c’è una raccomandazione sul comportamento, sul galateo, ma un invito: «Venite e vedrete» (Gv 1,39)!

Da questo punto in poi c’è uno “spazio vuoto”: non viene detto dove sono andati, che cosa hanno visto, che cosa hanno sentito. È voluto. Giovanni chiede al lettore di fare la sua parte e di colmare – per così dire – quello “spazio vuoto”. Il testo è laconico: «Essi videro dove Gesù dimorava». Tutto qui. Dove Gesù li ha portati perché «stessero con lui» sarà la causa del loro entusiasmo e del fuoco contagioso che si sprigionerà da quell’incontro. È il fuoco della missione! È un incontro che custodisce un mistero.
Gesù conduce chi sta con lui dentro se stesso. Si tratta ancora di movimento, ma molto più di un “movimento locale”. Quando avremo fatto come i due discepoli il cammino verso la conoscenza di noi stessi, incontreremo veramente Gesù. Prendendo consapevolezza della nostra indegnità e della nostra inadeguatezza per stare accanto a lui, conosceremo la misura della sua misericordia e del suo amore. Il luogo dove il Signore ci invita ad abitare non è altro che la carità!
Giovanni, l’autore del quarto Vangelo, ricorda l’ora di quell’incontro: ha lasciato un segno indelebile nella sua vita. Il desiderio, l’incontro, quello spazio di tempo e… infine, il cambio del nome a Simone. Il tempo è dato per la nostra maturazione.
Vi invito a ritornare, durante la settimana, su questi interrogativi; quelli di Gesù: «Quali sono i tuoi desideri più profondi? Qual è il momento in cui mi hai incontrato?», e poi i nostri: «Signore, dove dimori? Dove dormi?». Voglio stare con te.
Buon cammino, buon tempo!

Omelia nella Festa del Battesimo di Gesù

Pennabilli (RN), Cappella del Vescovado, 10 gennaio 2021

Is 55,1-11
Da Is 12
1Gv 5,1-9
Mc 1,7-11

Siamo degli inguaribili egoisti, perché nella festa del Battesimo di Gesù ci viene da parlare del nostro Battesimo. In verità oggi dovremmo sforzarci di stare nella contemplazione del mistero di Gesù che scende nella valle del Giordano e si fa battezzare. Questo evento è di grande portata teologica.
Abbiamo lasciato da poco la capanna di Betlemme, con gli angeli che cantano la venuta del Salvatore (scena di una tenerezza infinita), con i pastori che sanno cogliere e riconoscere il segno di un Dio in un bimbo, con lo sfavillio del corteo dei magi che vengono a portare l’oro al re, la mirra al martire e l’incenso alla divinità. Questa volta nulla di tutto questo: Gesù ha trent’anni ed è noto solo ai nazaretani. Siamo nella valle del Giordano, dove un profeta rude chiama alla conversione, invita alla acque del Battesimo per il pentimento e, mescolato tra la folla – il Vangelo dirà: «In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete – Gesù fa la fila con i peccatori, con coloro che si sentono bisognosi di rinnovamento, e scende nell’acqua. Dobbiamo fare di questa “discesa” una lettura che va al di là della cronaca. Ricordate la preghiera dell’Avvento: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi…». Questo è un tratto della discesa di Gesù: l’incarnazione nel grembo di Maria, il nascondimento nella casa di Nazaret, poi la venuta alla valle del Giordano e la discesa nelle acque. Un giorno lo contempleremo mentre discende nel profondo degli inferi per recuperare coloro che giacciono nell’ombra della morte. In questa immersione Gesù porta tutta la nostra umanità ferita dal peccato e lontana da Dio.
È un momento molto solenne della vita di Gesù e noi ne godiamo. I cieli si sono aperti e si ode una voce che dice: «Ecco il figlio mio, l’amato, colui nel quale ho posto il mio compiacimento». È il momento in cui viene dichiarata la vera identità del figlio del carpentiere: è il Figlio di Dio, il Signore! In Gesù ora la nostra umanità risale dalla sua condizione. Le parole che il Padre rivolge a Gesù sono una solenne dichiarazione alle sue creature.
Gesù è disceso nelle acque ed è risalito dalle acque: ha fatto il passaggio. L’antico popolo di Israele ha vissuto una vicenda analoga passando attraverso le acque verso la libertà. Gesù indica il cammino della liberazione dal peccato.
I cieli aperti su Gesù, oltre al dono della voce del Padre, offrono il dono dello Spirito che aleggia, proprio come aquila che cova e fa nascere vita nuova, come accadde nel momento della creazione: «Lo spirito di Dio aleggiava sulle acque» (cfr. Gen 1,2). Ora nell’umanità di Gesù sboccia la nuova creazione.
Dicevo che siamo degli inguaribili egoisti perché pensiamo al nostro Battesimo, ma pensarci non è del tutto sbagliato. C’è molto più di un’analogia tra il Battesimo che Gesù riceve da Giovanni e quello che riceviamo noi. Gesù vuole che venga ripetuto sui discepoli, ma sarà un Battesimo nello Spirito, un rinnovamento, una nuova creazione. Se mi consentite la metafora, il sacramento crea e svela la nuova condizione dei credenti in Gesù: è come aprire una conchiglia e vedere la bellissima sorpresa di una perla. La perla che troviamo in noi è il dono della vita nuova. Anche su di noi il Padre pronuncia nel Battesimo le parole dette a Gesù: «Tu sei figlio mio», abbiamo un Dio per papà; «l’amato», abbiamo un Dio che ci ama; «in te ho posto il mio compiacimento», siamo motivo della sua gioia. A volte affrontiamo la vita come una gara, ci confrontiamo con gli altri, siamo preoccupati del nostro livello di prestazioni, mentre invece la nostra vita non è altro che un andare verso un papà che ci accoglie e ci ama immensamente. Essere consapevoli di questo ci dà gioia purissima: con Gesù abbiamo “affogato l’uomo vecchio” e nasce “l’uomo nuovo” (cfr. Rom 6).

Omelia nella II domenica dopo Natale

Talamello (RN), 3 gennaio 2021

Sir 24,1-4.12-16
Sal 147
Ef 1,3-6.15-18
Gv 1,1-18

È come trovarci su una vetta altissima; l’orizzonte si allarga, davanti a noi uno squarcio di cielo! Giovanni, l’aquila, fissa il mistero del Verbo incarnato, Gesù Cristo, e accompagna anche noi in questo abisso di luce.
Il brano che è stato proclamato è il Prologo, introduttivo al quarto Vangelo. È composto di sette strofe che, come onde successive, si allargano e poi ritornano, e ripresentano il tema precedente approfondendolo. È un inno ed una professione di fede. Come l’ouverture di un’opera sinfonica contiene i temi musicali che verranno svolti, così nel Prologo sono concentrati e anticipati i contenuti di tutto il Vangelo.
Giovanni (prendiamo per buona la Tradizione) è a Efeso, una grande, raffinata e affascinante città dell’Impero. Lì c’è una piccola comunità ebraica a contatto con il mondo e con la cultura ellenistica. Il Vangelo secondo Giovanni, e particolarmente questa prima pagina, è un testo missionario, attraverso il quale si annuncia Gesù Cristo. Per questo Giovanni fa proprie parole di quella cultura, come la parola Logos (che viene tradotta nel latino Verbum e in italiano Parola) o le contrapposizioni verità/menzogna, luce/tenebre, vita/morte, ecc.: concetti universali tipici della riflessione filosofica del tempo. Giovanni assume parole e concetti e, dall’interno, dà loro un significato nuovo. È un esempio di inculturazione. Ma il quarto Vangelo fa propri anche i sentimenti e il modo di pensare della comunità ebraica, soprattutto il concetto di rivelazione.
Provo a dare qualche spunto di meditazione.

1.

«In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio». Si noti l’incalzare ripetuto del verbo essere all’imperfetto, con tre significati diversi. Con la sfumatura dell’esistere, un’esistenza dialogica, cioè di relazione: è il Logos, che è “verso” il Padre. Poi, il verbo essere con la sfumatura del dimorare, perché il Logos abita nel Padre. Ho usato volutamente l’espressione Padre anche se qui viene usata la parola Dio (in questo contesto Dio è il Padre). Infine, la terza sfumatura: essere come l’essenza stessa. Giovanni esprime una profonda convinzione di fede: Gesù, Logos incarnato, è Dio! È unito al Padre in un soggetto personale unico e, in Lui, esiste da sempre, prima di tutti gli esseri creati. La sua conoscenza del Padre è immediata e personale.

2.

«Dio nessuno lo ha mai visto. Il Figlio unigenito che è Dio ed è nel seno del Padre, lui ce lo ha rivelato» (Gv 1,18). Il desiderio dell’umanità: vedere Dio, parlargli, fargli domande e – perché no? – protestare. Da ricordare, nei Promessi Sposi, l’esclamazione dell’Innominato alla ricerca di Dio: «Dio, Dio, se lo vedessi, se lo sentissi!» (cfr. A. Manzoni, I promessi sposi, cap. XXIII). Senza Gesù – dice Giovanni – il desiderio di vedere Dio rimane frustrato e la frustrazione porta a fabbricarsi idoli, cioè immagini distorte, sbagliate di Dio. Ecco, allora, l’immagine di un Dio che è geloso della felicità dell’uomo, che diventa addirittura nemico dell’uomo, giudice implacabile che lo spia e non ne sopporta le fragilità. Invece l’incontro con Gesù rivela il volto di Dio. Uno dei temi importanti del quarto Vangelo è proprio quello di Gesù, rivelatore del Padre.

3.

Nel Prologo è sintetizzato il percorso del Logos nel suo incontro con noi. Il Logos è in dia-logo (relazione, comunione) col Padre, ma è anche in dia-logo (relazione, comunione) con l’umanità. È mediante il Verbo che tutto viene creato e tutto esiste. Qualche autore ha scritto che Dio crea adoperando l’alfabeto, come a dire che il Verbo è il principio di intellegibilità di tutto ciò che esiste. Il Logos accompagna il popolo di Israele nel suo cammino; attraverso i sapienti si esprime, attraverso i profeti parla, ma il momento decisivo della storia è quando il Logos si fa carne: «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare (piantare la sua tenda) in mezzo a noi» (cfr. Gv 1,14). Giovanni vuole che il lettore sia persuaso che il Logos incarnato non è un’ombra e che la sua non è un’esistenza fumosa; il Logos non ha preso le sembianze di un uomo, ma si è veramente fatto uomo. La parola “carne” sta ad indicare la concretezza, ma anche la fragilità, dell’esistenza umana. Significativo questo testo di Guerrico d’Igny (1070-1157): «Poiché infatti Dio non poteva parlare a noi come ad essere spirituali, ma come ad esseri carnali, la sua Parola (Logos) si è fatta carne, affinché ogni carne potesse non solo ascoltare, ma anche vedere ciò che la bocca del Signore ha detto».
Ricordo una lezione di catechismo in cui si chiedeva: «Perché gli angeli si sono ribellati a Dio? Perché Lucifero si è fatto capo di una legione di angeli che hanno lasciato il paradiso?». La catechista rispondeva: «Perché era scandalizzato davanti al mistero dell’incarnazione, al fatto di adorare un Dio che è uomo». Ma questo è lo scandalo che ci salva!

4.

Un’ultima annotazione. Il Verbo fatto carne ci dà la possibilità di diventare figli di Dio. Non per una conoscenza estrinseca, ma facendoci partecipi della sua divina natura. Il Logos ha assunto la carne; la carne viene divinizzata, resa capace nel Logos di una relazione inimmaginabile con Dio. Anche qui un riferimento alla Genesi. I progenitori furono tentati dal serpente: «Diventerete come Dio se mangerete il frutto proibito» (cfr. Gn 3,4). Qui, invece, Gesù ci offre di essere partecipi della divinità: «Ha dato il potere di diventare figli di Dio» (Gv 1,12). In che modo? Mediante la fede in Lui, mediante l’amore che ci ha rivelato. Allora siamo anche noi partecipi di questa vita dia-logica (relazione-comunione), una vita secondo il Verbo.
A conclusione, preghiamo con le parole del Prefazio del Natale: «In lui risplende in piena luce il misterioso scambio che ci ha redenti: la nostra debolezza è assunta dal Verbo, l’uomo mortale è innalzato a dignità perenne e noi, uniti a te (Padre) in comunione mirabile, condividiamo la vita immortale» (Prefazio del Natale, III).

Omelia nella Solennità dell’Epifania

Maciano (RN), Convento Santa Maria dell’Olivo, 6 gennaio 2021

Is 60,1-6
Sal 71
Ef 3,2-3.5-6
Mt 2,1-12

Sono molti i temi di questa liturgia e tutti si concentrano sul Bambino. Non dico il Bambino di Betlemme, perché, secondo il Vangelo di Matteo, Gesù viene trovato dai magi sì a Betlemme, ma in una semplice casa.
Annuncio alcuni di questi temi solo con una pennellata, affidandoli poi alla meditazione di ciascuno.

1. IL PRELUDIO DELLA PASQUA
Gesù manifesta ai magi la sua vera identità di Figlio di Dio, Salvatore, Messia; identità che sarà veramente visibile solo con la sua morte e risurrezione. Per questo solitamente, nella Messa dell’Epifania, si canta la data della Pasqua, come a dire che tutto il tempo è centrato sul mistero di Gesù morto e risorto. La Chiesa vorrebbe abbracciare il mistero di Cristo tutto in una volta, tutto insieme, ma non è possibile… Allora quel mistero viene, per così dire, vissuto nel corso dell’anno e poi viene ripreso l’anno successivo, come in una spirale ascensionale, di luce in luce, di grazia in grazia.

2. IL TEMA DELLA LUCE
Una stella luminosa porta alla casa dove si trova il Bambino in braccio a sua mamma, una stella veduta dai magi, annunciata dall’oracolo di Balaam (cfr. Num 24,17). «Luce delle genti» (Lc 2,32), come dirà Simeone riferendosi a Gesù; «luce che vince le tenebre» (Gv 1,5), come canta il Prologo di Giovanni. Anzi, «la sua luce era la vita degli uomini» (Gv 1,4). E Gesù dirà: «Io sono la luce» (Gv 8,12). La Chiesa, nella sua professione di fede, lo proclama: «Luce da luce». Dunque, necessità della luce, bellezza della luce. Ecco il grande annuncio dell’Epifania: «Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te» (Is 60,1).

3. EPIFANIA, FESTA DEI BAMBINI
Gesù è il grande amico dei bambini e di ciascuno di noi, desiderosi di vivere l’infanzia spirituale, che vuol dire abbandono nel Signore e umiltà perché tutto riceviamo da lui. Questo lo diciamo contro gli Erode di turno che vedono i bambini come clienti interessati. Vogliamo dire ai bambini che li amiamo davvero, li rispettiamo, li ascoltiamo e vogliamo aiutarli. In questo giorno nelle famiglie si fanno doni ai bambini.

4. IL TEMA DEL CAMMINO
I magi vengono da lontano. Fanno un cammino non metaforico, ma reale. Hanno messo in moto piedi e gambe, mente e cuore. Ultimi ad arrivare al nostro presepio, preceduti da tanti altri che camminano verso Gesù: Giovanni ed Elisabetta, che danzano di gioia davanti alla madre del Signore che porta in grembo il Figlio dell’Altissimo, l’Emmanuele; Simeone e Anna, che prendono tra le braccia Gesù e lo proclamano Luce delle genti, gloria d’Israele; i pastori, che vanno a Betlemme per vedere il Salvatore, Cristo Signore. E ora i magi che lo adorano come Re Messia. Categorie di persone – quelle che popolano il presepio – per lo più disprezzate, tenute in nessun conto. Elisabetta è una donna sterile, Giovanni un profeta inascoltato, i pastori rozzi pecorai, i magi astrologi pagani… Ma hanno in comune il Cielo. Elisabetta e Giovanni, Simeone e Anna, riconoscono il Messia non perché colti, ma perché mossi dallo Spirito Santo. I pastori giungono a Betlemme non perché sono buoni e pii, ma perché obbediscono alla voce degli angeli. I magi non sono partiti dalla loro terra per spirito d’avventura, ma perché videro la stella e le sono stati fedeli. Al loro di mettersi in cammino corrisponde il farsi trovare del Signore. Il Signore si manifesta a quelli che lo cercano. La ricerca di Lui esige un esodo personale, faticoso, a tratti anche doloroso, perché bisogna mettere in questione se stessi, le proprie convinzioni, i propri pregiudizi, le proprie abitudini. Chi è che non trova il Bambino? Erode. Forse perché non lo cerca? No, lo cerca eccome! Consulta esperti, si documenta, incarica i magi di una missione ricognitiva: «Dove deve nascere il Messia?» (Mt 2,4). «A Betlem di Giuda» (Mt 2,5), gli dicono. Ma è troppo attaccato al suo palazzo, al suo trono. Lo cerca, ma è sconvolto dalla paura di dover cambiare. Si sente minacciato nel suo potere che lo fa ricco e rispettato.

5. LA MISSIONE
Nella Prima Lettura sentiamo di una carovana che sale fino a Gerusalemme: «Uno stuolo di cammelli ti invaderà, dromedari di Madian e di Efa, tutti verranno da Saba, portando oro, incenso e proclamando le glorie del Signore» (Is 60,6). I magi giunsero da lontano, da Oriente… Ma non è l’Oriente la terra di tutte le grandi religioni? Anche i popoli del centro Africa praticavano forme religiose, come anche i nativi delle Americhe, ma le grandi religioni, strutturate e configurate, con testi sacri ed organizzazione, per lo più sono nate nell’Oriente. I magi vengono a cercare il Re dei Giudei. Viene da chiedersi il perché: le loro religioni non li soddisfacevano? Evidentemente no. Eppure, le grandi religioni sono scrigni di saggezza, di spiritualità. Parafrasando il Vangelo dico che insegnano l’oro della compassione, del rispetto della vita, della “regola d’oro” («non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te»), l’incenso della meditazione profonda e della preghiera, la mirra del martirio, della fortezza nel dolore, della relatività dei beni terreni. Noi cristiani dobbiamo essere i primi a rifiutare l’intolleranza verso le religioni, i primi a rispettarle, a conoscerle in profondità, con simpatia, a batterci anche per il loro diritto ad avere i propri luoghi di culto. Dobbiamo evitare di incolpare tutta una comunità degli eccessi di una minoranza e prendere, anche unilateralmente, iniziative di dialogo, perché l’amore parte per primo. Penso all’incontro di papa Francesco con il grande Imam, Ahmad Al-Tayyib, avvenuto nell’università islamica di Abu Dhabi il 4 febbraio 2019 per esprimere fraternità, amicizia.

Perché, dunque, i magi fecero quel lungo cammino alla ricerca di Cristo? Perché il loro cuore si portava dentro un desiderio più grande; la loro saggezza e spiritualità davano sicuramente serenità ed armonia al loro cuore, ma non toglievano la loro sete di incontrare Cristo. Oggi noi, figli del relativismo, siamo tentati di pensare che tutte le religioni si equivalgano, che i loro adepti vadano lasciati in pace, che le missioni della Chiesa siano un’invadenza… Invece la stella della loro religione li ha guidati, la Scrittura degli Ebrei li ha annientati, ma solo l’incontro con Gesù li ha colmati di grandissima gioia. Come far sì che i pagani di oggi incontrino Cristo? Non con i metodi della propaganda o del proselitismo. «I magi, entrati nella casa (il luogo della quotidianità), videro il bambino e sua madre» (Mt 2,11). Una domanda provocatoria per la nostra meditazione personale: se dei “lontani”, dei “forestieri” entrassero nelle nostre case, nelle nostre parrocchie, nelle nostre comunità, troverebbero l’accoglienza? Troverebbero il clima di Betlemme, di Nazaret? Facciamo riti solenni, abbiamo le nostre tradizioni, ma alla fine quello che conquista è l’amore: «Il mondo sarà di chi saprà amarlo di più» (San Giovanni della Croce). Vivere il Vangelo, vivere Gesù: questo il messaggio che ci viene dalle festività natalizie. Così sia.

Omelia nella Solennità di Maria SS. Madre di Dio

San Marino Città (RSM), Basilica del Santo Marino, 1° gennaio 2021

Nm 6, 22-27
Sal 66
Gal 4,4-7
Lc 2,16-21

Stella maris. Iniziamo così il 2021: con lo sguardo rivolto alla Vergine Maria, stella del mare, madre della Speranza. Avanziamo nel cammino che è ancora difficile, penoso: siamo sulla stessa barca, in vista di un orizzonte incerto, ma con una bussola che ci orienta. È quanto papa Francesco ci ricorda all’inizio del nuovo anno con il suo Messaggio per la Pace, indicando a tutti un processo educativo per acquisire una cultura della cura basata su principi inalienabili, «come percorso di pace».
Permettete che anch’io citi il testo che papa Francesco mette nel suo Messaggio da un discorso che Paolo VI tenne in un parlamento africano: «Non temete la Chiesa; essa vi onora, vi educa cittadini onesti e leali, non fomenta rivalità e divisioni, cerca di promuovere la sana libertà, la giustizia sociale, la pace; se essa ha qualche preferenza, questa è per i poveri, per l’educazione dei piccoli e del popolo, per la cura dei sofferenti e dei derelitti» (Discorso ai Deputati e ai Senatori dell’Uganda, Kampala, 1° agosto 1969).
Il prendersi cura è l’opposto dell’indifferenza. Il primo schiaffo, il più bruciante e sonoro, che Dio ha ricevuto è stato quello di Caino che osò dire: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gn 4,9). Prendersi cura è atteggiamento indispensabile tra fratelli e necessario soprattutto in questi giorni di fragilità.
Papa Francesco nel suo Messaggio dedica pagine bellissime ad un percorso biblico attraverso il quale fa vedere come Dio creatore sia modello per tutti noi e come tutta la Bibbia non sia altro che il racconto del suo piegarsi amorevole sull’umanità. Nella Genesi, ad esempio, è messo in luce il rapporto fra l’uomo e la terra e fra gli uomini come fratelli. Dio affida alle mani di Adamo il giardino con l’incarico di coltivarlo e custodirlo. Ciò significa, da una parte rendere la terra produttiva, dall’altra proteggerla, farle conservare le sue capacità di sostentamento per la vita. I verbi “coltivare” e “custodire” descrivono il rapporto di Adamo con la sua casa-giardino, ma indicano pure la fiducia di Dio verso di lui, facendolo signore e custode della creazione. «In questi racconti antichi – scrive il Papa – ricchi di profondo simbolismo, era già contenuta una convinzione oggi sentita: che tutto è in relazione, e che la cura autentica della nostra stessa vita e delle nostre relazioni con la natura è inseparabile dalla fraternità» (LS 70). Allora il Creatore si china sui progenitori, perfino su Caino, dandogli un segno di protezione. Tutta la Bibbia è storia della tenerezza di Dio verso il suo popolo. Dall’istituzione dello Shabbat, il riposo festivo, per dire che l’uomo è libero, all’esodo, alla liberazione e all’invio dei profeti, che alzano la loro voce in favore degli ultimi. Dio si prende cura dell’umanità inviando il suo stesso Figlio, mandato a «portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione, ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi» (Lc 4,18). Tema ripreso, come avete sentito nella Seconda Lettura: «Ma quando venne la pienezza del tempo il Signore mandò suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli» (Gal 4,5). Al culmine della sua missione, il Figlio di Dio suggella la sua cura offrendosi sulla croce in redenzione. Così ha aperto la via dell’amore e dice a ciascuno: «Seguimi, anche tu fa’ così» (cfr. Lc 10,37). Questo prendersi cura dovrà essere distintivo dei discepoli di Gesù. I primi cristiani praticavano la condivisione perché nessuno fosse bisognoso tra loro. Ricorderete i due quadretti degli Atti degli Apostoli (cfr. At 2,42-48; 4,32-35). I Padri della Chiesa insistevano sul fatto che la proprietà andasse intesa per il bene comune e la miseria dei tempi suscitò tanti nuovi carismi, nuove forze al servizio della carità (pensate agli ordini religiosi, alla fondazione di ospedali, ricoveri, istituti di sollievo, di educazione e la pratica delle opere di misericordia corporali e spirituali).
Infine, papa Francesco enuncia i principi base per una cultura della cura. Dice che è un prezioso patrimonio, disponibile a tutte le persone di buona volontà, da cui attingere la grammatica della cura. Li enuncia semplicemente: la cura come promozione della dignità e dei diritti della persona, la cura del bene comune, la cura mediante la solidarietà e infine la cura e la salvaguardia del creato. Questi principi sono la bussola per imprimere una rotta veramente umana al processo di globalizzazione. Scrive: «Incoraggio tutti a diventare profeti e testimoni della cultura della cura, per colmare tante disuguaglianze sociali». Il richiamo poi diventa denuncia. C’è una pagina drammatica: «Purtroppo molte regioni e comunità hanno smesso di ricordare un tempo in cui vivevano in pace e sicurezza. Numerose città sono diventate come epicentri dell’insicurezza: i loro abitanti lottano per mantenere i loro ritmi normali, perché vengono attaccati e bombardati indiscriminatamente da esplosivi, artiglieria e armi leggere. I bambini non possono studiare. Uomini e donne non possono lavorare per mantenere le famiglie. La carestia attecchisce dove un tempo era sconosciuta. Le persone sono costrette a fuggire, lasciando dietro di sé non solo le proprie case, ma anche la storia familiare e le radici culturali». Dal richiamo alla denuncia, dalla denuncia ad una proposta coraggiosa, già formulata in un precedente messaggio: «Costituire con i soldi che s’impiegano nelle armi e in altre spese militari un “Fondo mondiale” per poter eliminare definitivamente la fame e contribuire allo sviluppo dei Paesi più poveri»! (Videomessaggio in occasione della Giornata Mondiale dell’Alimentazione 2020, 16 ottobre 2020).
La cultura richiede un processo educativo. La bussola dei principi sociali elencati dal Papa costituisce uno strumento affidabile per vari contesti fra loro correlati: la famiglia, la scuola e l’università, le comunicazioni sociali, le istituzioni religiose e gli impegnati nel servizio alle popolazioni e nel campo della ricerca. A questi e a tutti il Papa propone un patto educativo globale. Tutti siamo “artigiani della pace”, con grandi orizzonti, attenti anche alla cura delle relazioni interpersonali, quotidiane, e questo esige la conversione del nostro cuore, un cambio di mentalità per creare la pace e la fraternità. Così sia.