Omelia nella XIV domenica del Tempo Ordinario

Pennabilli (RN), Cappella del Vescovado, 9 luglio 2023

Zc 9,9-10
Sal 144
Rm 8,9.11-13
Mt 11,25-30

Questa pagina evangelica è chiamata “la perla del Vangelo di Matteo”. È un inno di gioia ed una grande preghiera di Gesù. Per comprenderla bene occorre collocarla nel contesto. Gesù si trova in un momento critico: le città del lago dove ha svolto la sua attività apostolica cominciano a prendere le distanze; i sapienti, l’intellighenzia, coloro che presumono di avere la conoscenza di Dio e delle Scritture sono in difficoltà con Gesù e Lui è in difficoltà con loro. Gli scribi e i farisei hanno la pretesa della conoscenza, ma non entrano in sintonia con Gesù; invece, con meraviglia, si trovano in sintonia con Gesù i piccoli, i semplici, gli umili. Cosa significa essere piccoli, semplici, umili? Gesù ha presente – anche se l’evangelista Matteo non lo dice esplicitamente (Matteo legge e racconta la vicenda di Gesù avendo l’Antico Testamento come background) – i testi dell’apocalittica e i testi sapienziali. Per quanto riguarda l’apocalittica, Gesù ha presente il libro di Daniele; Daniele è un piccolo che, insieme ai suoi compagni di cattività al tempo di Nabucodonosor, custodisce l’Alleanza. Nabucodonosor fa un sogno misterioso; convoca a corte i sapienti, ma non riescono ad interpretare e a decifrare il sogno. Sarà il piccolo Daniele a svelare a Nabucodonosor il suo significato. Ed è in quel momento che il profeta esplode in un inno di giubilo: non è la sua scienza personale che gli ha consentito l’interpretazione, ma quel sogno è stato rivelato in lui dalla sapienza di Dio (cfr. Dn 2,1-23): «Sia benedetto il nome di Dio di secolo in secolo, perché a lui appartengono la sapienza e la potenza».
Una cosa analoga accade a Ben Sira, autore del libro del Siracide, un libro sapienziale importante nella Bibbia, che parimenti si conclude con un inno di giubilo: «Il Signore mi ha dato in ricompensa una lingua con cui lo loderò. Avvicinatevi voi che siete senza istruzione, prendete dimora nella mia scuola. Ho aperto la bocca e ho parlato: “Acquistate la sapienza senza danaro. Sottoponete il collo al suo giogo, accoglietene l’istruzione. Essa è vicina e si può trovare. Si diletti l’anima vostra della misericordia del Signore; non vogliate vergognarvi di lodarlo» (Sir 51,22-30). Parole analoghe a quelle pronunciate dal profeta Daniele e riecheggianti nell’inno di giubilo pregato da Gesù.
Gesù entra in questa dimensione; allora comprendiamo il suo prorompere nella gioia: Gesù è felice perché il Padre gli ha rivelato i segreti del Regno; vede che attorno a lui ci sono tanti posti vuoti; gli han girato le spalle i presuntuosi, i sapientoni, quelli che pensano di sapere tutto. Quei posti vuoti adesso sono occupati dai piccoli che accorrono a lui.
Chi sono i piccoli? Che cos’è il giogo di cui stiamo parlando?
I piccoli non sono di per sé le persone semplici e popolane e non sono neppure i poveri in senso sociologico, ma sono coloro che davanti al Signore Dio hanno un cuore umile, aperto e disponibile. Sono i piccoli di cui Gesù ha parlato nelle beatitudini: «Beati i poveri in spirito, beati i miti, beati i puri di cuore…» (Mt 5,3). Il prototipo dei piccoli è Gesù, il piccolo per antonomasia, piccolo perché ha un cuore aperto, spalancato, alla conoscenza del Padre. Al tempo di Gesù c’era una corrente spirituale che veniva chiamata degli “anawim”, i “poveri di Jahvè”. A questo gruppo appartengono Zaccaria, Elisabetta, Anna, Giuseppe… e soprattutto Maria di Nazaret. Sono coloro che si aspettano tutto dal Signore e confidano in Lui.
Il giogo è uno strumento che viene usato anche nelle nostre campagne, dove i buoi si inerpicano sulle colline con l’aratro (ormai è raro vederli perché sono sostituiti dai trattori).
Quella del giogo è una metafora ambivalente. Per giogo si intende qualcosa di opprimente, che imprigiona le spalle e il collo e costringe alla fatica. Gesù l’adopera in questo senso negativo per riferirsi al legalismo dei sapienti del suo tempo, che imponevano leggi e precetti, che percorrevano la terra per fare proseliti e mettevano addosso ai fedeli pesi che loro non erano capaci di portare (cfr. Mt 23,15). Ma c’è anche un altro significato: il giogo come ciò che stanca. Stanca vivere con l’ansia di produrre performance spirituali; ti stanchi quando ti senti in gara, quando davanti a Dio rincorri la sua riconoscenza, quando ti confronti con gli altri e vuoi essere migliore, quando vorresti che la tua vita fosse più significativa della vita di un altro e, se vedi qualcuno realizzato, ti spunta nel cuore l’erba amara dell’invidia e della gelosia. Comprendiamo allora quando Gesù dice: «Prendete il mio giogo, il mio giogo è leggero… Mettetevi come me in relazione col Padre, diventate piccoli, non preoccupatevi delle vostre prestazioni, preoccupatevi invece che il vostro cuore sia aperto, umile, semplice, perché Dio non fa il computo ragionieristico degli atti obbedienti, vuole un cuore obbediente». Questo è riposante, questo è entrare nella mentalità di Gesù.

Riassumo il significato di questa pagina evangelica attorno a tre parole: gioia, rivelazione, riposo.
Gioia. Nei Vangeli non troviamo un Gesù che ride… però Gesù è gioioso. Oltre all’esplosione di gioia testimoniata in questa pagina di Vangelo: «Ti lodo, Padre, perché hai nascosto queste cose ai presuntuosi e le hai rivelate ai piccoli», incontriamo la gioia di Gesù quando partecipa al banchetto degli sposi di Cana, quando abbraccia i bambini, quando, nella casa di Simone il lebbroso, si fa profumare i piedi dalla donna peccatrice… È una gioia che viene da dentro e che viene dallo Spirito. In questo l’evangelista Luca è molto esplicito: è proprio nello Spirito che Gesù esulta ed è pieno di gioia. Come la preghiera di Gesù, la nostra preghiera dovrebbe aprirsi sempre con un inno di giubilo, perché ci è stato rivelato chi è Dio e chi siamo noi in relazione con lui. Lui è Padre e noi siamo figli. Si è detto più volte che la vocazione più grande – non si può pensarne un’altra maggiore – è la vocazione ad essere figli: ecco il motivo della gioia. Sapere che nulla accade – anche le cose che non ci piacciono, che ci fanno soffrire, che non sono giuste – senza il Padre: non sei solo, non sei abbandonato.
Rivelazione. Se io sono figlio e lui è il mio papà siamo nella luce; a volte il Signore permette anche il buio, per ingaggiare un gioco d’amore nel quale si nasconde per farsi cercare e darci di lui qualcosa di nuovo e di ancora più bello.
Riposo. Quando vivi la fede ed esprimi la religiosità in questo modo, non c’è niente di tetro, di chiuso, di inibente; il cuore si allarga e può riposare: «Solo in Dio riposa l’anima mia» (cfr. Sal 62,2).
Auguro a tutti, in questo periodo estivo, di vivere il riposo nel Signore.

Omelia nella XIII domenica del Tempo Ordinario

Pennabilli (RN), Monastero della Rupe, 2 luglio 2023

Celebrazione conclusiva della Summer school “Lab.Ora. Lavorare e Lavorarsi”

2Re 4,8-11.14-16
Sal 88
Rm 6,3-4.8-11
Mt 10,37-42

«Un giorno Eliseo passava per Sunem, ove c’era un’illustre donna che lo trattenne a mangiare». Anche noi siamo degli “intrattenuti”. Non solo perché le sorelle agostiniane ci hanno invitato a vivere questi giorni con loro, ma perché Gesù «ha preparato per noi una mensa di fronte ai nostri nemici» (cfr. Sal 22). È talmente grande il suo dono che dobbiamo rallegrarci e soprattutto ringraziare. Siamo degli “intrattenuti” a mangiare con il Signore! Rendiamo grazie per tutto quello che lui opera in noi. Circa tre settimane fa – lo dico per chi non appartiene a questa Diocesi – abbiamo fatto un grande convegno diocesano dove era bandito il “parlare di noi”: si poteva parlare di noi, delle nostre comunità, soltanto per raccontare quello che il Signore era andato facendo in ciascuno di noi e nelle comunità. Il Signore è un grande “operaio” e fa con la “materia” che ha, che siamo noi. Tuttavia, può fare dei capolavori: vedo della santità attorno a me!
Sono andato in una parrocchia in un pomeriggio molto caldo: in chiesa ho trovato un parroco giovane, che ha studiato a Roma, mentre pregava il Rosario con sei-sette persone. Mi ha commosso. Quel sacerdote giovane, che lavora molto, ha saputo sostare in preghiera con quelle persone. Aveva “scelto la parte migliore”, che non lo sottraeva, successivamente, agli altri impegni. Lavoro sì, ma senza esserne fagocitati. Lavoro e libertà.
Il brano evangelico proclamato oggi è durissimo. La redazione di Luca è ancora più forte. Ricordo che, a Ferrara, era venuto Rinaldo Fabris, un grande biblista morto alcuni anni fa. Era un sacerdote piccolo di statura, ma incantava quando faceva qualche lezione. Una volta aveva approfondito una pagina analoga, ma nella redazione dell’evangelista Luca. Ad un certo punto si alzò un professore universitario e disse: «Don Rinaldo, che genere letterario è questo?». Rinaldo Fabris si alzò in piedi – si fece un grande silenzio – e disse semplicemente: «Gesù ha parlato proprio così». Perché queste espressioni così dure? Penso a tanti fratelli sacerdoti che, questa mattina, nelle chiese cercheranno di dimostrare che Gesù non è contro gli affetti familiari, contro le relazioni, contro le esperienze che catturano la nostra vita, come il lavoro. Il lavoro ti prende, soprattutto se è un lavoro che ti piace, nel quale esprimi la tua creatività e se ti stanno a cuore le persone per cui lavori, che rendono bello e atteso il lavoro stesso. Il rapporto con Gesù si colloca all’interno di relazioni di questo tipo: Gesù parla volentieri del rapporto tra padre, madre, figlio, figlia, sposo, sposa, fratello, sorella… per dire che la relazione con lui non è una teoria o una cerimonia, ma una relazione vera. È chiaro che è un modo iperbolico di esprimersi: Gesù non chiede di amare “di meno”, ma “di più”. Ad esempio, nell’architettura della vita succede che una ragazza, che ama alla follia la propria famiglia, incontra un ragazzo che gli rapisce il cuore. Non è che non ama più la sua mamma o il suo papà, ma accade, in quella ragazza, qualcosa di diverso. Gesù approva l’amore per il fratello, la sorella, la mamma, i figli, un amore che induce a dare la vita: non chiede una sottrazione… Faccio un altro esempio: quando mio fratello Silvio, paraplegico, partiva per la missione in Congo era un momento straziante per la nostra famiglia. Noi eravamo “pieni” della relazione con Silvio; persino il postino era coinvolto: quando arrivava la lettera di Silvio dall’Africa, il postino veniva immediatamente a casa nostra. Ebbene, nell’architettura del Regno di Dio Gesù ha questa pretesa: vuole una relazione d’amore che comprende e allarga l’orizzonte all’infinito. Rinaldo Fabris direbbe: «Ha detto proprio così».

Poi Gesù aggiunge: «Chi non prende la propria croce…». Qual è la mia croce? Si possono dare un’infinità di interpretazioni… Alcuni esegeti pensano sia un detto che Gesù non possa aver usato (Erode il Grande aveva abolito la crocifissione; Gesù è stato crocifisso proprio nel momento storico in cui è stata reintrodotta questa forma di condanna). Forse è un detto della comunità primitiva per dire l’eventualità reale della persecuzione. Può essere che Gesù pensasse ad Isacco caricato della croce, cioè della legna sulla quale sarebbe stato immolato (cfr. Gn 22,6). Altri esegeti ritengono che Gesù pensasse al testo di Ezechiele (cfr. Ez 9,4) in cui si dice che, nel momento del grande giudizio, a Gerusalemme ci sarebbe stato uno scriba vestito di bianco che sarebbe passato con uno stilo per tracciare un “tau” sulla fronte di coloro che si sono mantenuti fedeli (il “tau” è una lettera dell’alfabeto ebraico a forma di croce). Gesù chiede al suo discepolo di prendere il “tau” dell’affidamento: «Signore, noi ci affidiamo, tu ci hai invitati alla tua mensa».
Penso alla croce anche in termini più personalistici: la croce è quello che non mi va di me, che mi fa vergognare di me, che vorrei scaricare dalle mie spalle, ma che fa parte di me. Gesù vuole che io vada dietro a lui con la mia croce, con quello che sono, come sono. Allora dico: «Va’ con lui, prendi la tua croce e seguilo. Se fai così, diventerai degno di lui».

«Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa». Un bicchiere d’acqua fresca che ristori. Tante persone ce lo offrono: dobbiamo avere gratitudine per chi lavora per noi. Anche le cose pubbliche sono un dono. «Grazie, Signore, per il bicchiere d’acqua che ci offri con la cultura, l’arte, il lavoro. A nostra volta prendiamo il lavoro come un atto d’amore. Si lavora per amore.

Discorso in occasione del 60° anniversario di ordinazione presbiterale di mons. Graziano Cesarini

Macerata Feltria (PU), 24 giugno 2023

Mt 10,26-33

«Voi valete di più». Sono parole che incoraggiano e invitano, o meglio comandano: «Non abbiate paura» (è un imperativo!). Mentre la prima parte del discorso missionario di Gesù ha il tono dell’esortazione, questa seconda parte, che abbiamo ascoltato or ora, è imperniata su tre imperativi (aoristo) che si possono tradurre così: «Che non incominciate ad avere paura!». I discepoli stavano facendo i primi passi e già il Maestro li stava inviando in missione. La prima cosa che veniva loro in cuore erano le paure. È umano avere paura: paura della persecuzione, paura della derisione, paura – una paura che abbiamo anche noi – dell’incoerenza nel sentire discordanza tra quello che si dice (la testimonianza evangelica) e quello che si fa: questo fa soffrire e qualche volta frena nel dire le parole di Gesù. «Non incominciare ad avere paura», ripete Gesù.
Questa sera sono qui con voi per fare festa ad un presbitero che non ha avuto paura, che non ha paura di parlare.
Quando uno parla può essere riconosciuto come maestro, ma può essere anche rifiutato, può accontentare e può scontentare. Però don Graziano si è messo davanti a Dio.
Qui avete un prete che non ha paura di essere se stesso. Tutto d’un pezzo. Un prete che non ha paura di essere spirituale, col rischio di apparire d’altri tempi. Si è messo davanti a Dio.
Qui avete un prete che non ha paura di riconoscere Gesù Cristo davanti a tutti, perché Gesù Cristo gli basta, anche se questo prete può apparire poco umano. Con l’età arrivano gli acciacchi, tuttavia questo prete ha il coraggio di rimanere sulla breccia. C’è, però, un tempo per prendere e un tempo per lasciare, un tempo per seminare e un tempo per raccogliere, un tempo per parlare e un tempo per tacere – riecheggia il libro del Qoelet: Dio solo resta. Cosa dice quel prete che si è messo davanti a Dio? «Sei tu, Signore, l’unico mio bene» (Sal 16,2). Ed è pronto a tutto.
«Nulla accade senza che ci sia il Padre» (cfr. Mt 10,29). Abbiamo sentito leggere così, parlando dei passerotti dei quali il Signore si prende cura, dei capelli del capo che non cadono a terra senza il volere del Padre. Però vediamo tante cose non belle che accadono… «Sei tu, Signore, che le vuoi?». La traduzione esatta sarebbe: «Nemmeno un passerotto cadrà a terra senza che ci sia il Padre accanto a lui». Pensiamo alle persone che sono nella prova, i bambini che vengono violati, i migranti che si inabissano nel mare. Tutto questo non accade senza il Padre, senza che ci sia il Padre accanto a loro nel mistero della sofferenza. Capita spesso di usare il proverbio: «Non cade foglia che Dio non voglia». No. Nulla accade senza che il Padre sia accanto a te, pronto a raccoglierti. Anche per i distacchi, l’oblio, la solitudine, se il cuore è innamorato, non c’è nulla da temere.
Dico a mio fratello, monsignor Graziano: «Non avere paura. Tu vali di più, perché il tuo cuore è innamorato del Signore. Tutto passa, tutto può crollare, ma il Signore non passa. Il Signore rimane sempre». Così sia.

Omelia nella XI domenica del Tempo Ordinario

Secchiano (RN), 18 giugno 2023

40° anniversario di ordinazione sacerdotale di don Sante Celli

Es 19,2-6
Sal 99
Rm 5,6-11
Mt 9,36-10,8

Caro don Sante,
cari parrocchiani,
non poteva esserci pagina più bella di questa per comprendere la bellezza del prete missionario e la missionarietà di ogni discepolo di Gesù.
Il Vangelo ci presenta il Signore nell’atto di scegliere coloro che devono continuare la sua missione. Qual è il motivo che lo spinge a chiamare nuovi missionari? «Vedendo le folle» Gesù intuisce in loro il bisogno profondo di Vangelo. Lo sguardo di Gesù è uno sguardo di amore infinito, che conosce le esigenze e le sofferenze della gente. Solo l’amore conosce veramente.

1.

Gesù volge lo sguardo attorno e vede la folla. Nel testo originale (nella parlata propria di Gesù) “folla” va intesa nel senso di “folla disordinata”, “folla ammucchiata”. Gesù vuole fare il passaggio da una “folla disordinata” di persone ad una comunità. Chiederà, poi, agli apostoli e ad ogni discepolo di “essere costruttori di comunità” (è il tema del Programma Pastorale 2022/23!). Dio è comunione e non desidera altro che siamo una comunità di fratelli, un “cantiere” dove tutti sono impegnati, ognuno al suo posto, nei diversi ambiti di vita.
Gesù fa nascere la comunità col suo sguardo: questo è il perché della Chiesa. Ho incontrato persone che sono innamorate di Gesù Cristo, ma non vogliono la Chiesa… Ciò non è possibile! Se segui Gesù, non puoi non riconoscere la sua Chiesa come un corpo organico con tanti ministeri e tanti carismi.

2.

Il Vangelo dice che Gesù prova un sentimento di commozione che attraversa “le sue viscere” (il verbo usato descrive il fremere tipico del grembo materno). Caro don Sante, anche tu come Gesù, proprio qui in questa chiesa, nei momenti in cui preghi per la tua gente condividi con Gesù lo sguardo amorevole che coglie il bello che c’è nella tua gente e la sua compassione viscerale per le fragilità e le debolezze.
Come viene descritta la folla? Abbiamo sottolineato che viene presentata come una “folla disordinata”, lacerata, dispersa, afflitta dalla stanchezza. Oggi si parla molto della stanchezza esistenziale, che non è la stanchezza fisica, ma il riverbero di una stanchezza più profonda. Che cosa ci rende stanchi? È il non poter contare su relazioni in cui possiamo riposarci. Il cuore di ogni persona riposa nella pienezza di una relazione di amore, di accoglienza, nella quale c’è dono reciproco. L’essere lontani da questo tipo di rapporto rende stanchi nel cuore. Non è una novità di oggi, era così anche al tempo di Gesù. Si ha bisogno di fidarsi di qualcuno. Quando sei in una relazione in cui ti puoi fidare, il cuore si riposa: puoi essere te stesso. Altrimenti devi sempre difenderti, conquistare posizioni, avere prestazioni che ti facciano accreditare dagli altri (invece con la propria mamma non si ha bisogno di manifestare chissà che cosa per essere amati). Questa è la stanchezza che tu, don Sante, devi soccorrere per «essere costruttori di comunità», affinchè ognuno si senta bene, non si senta giudicato. In ogni iniziativa parrocchiale si esaltino le qualità di ogni persona, come in una famiglia.

3.

Il Vangelo aggiunge un’altra immagine. Gesù sente la folla che ha di fronte «come pecore senza pastore». È una frase che, alle orecchie degli ascoltatori era ricorrente, perché era una frase dell’Antico Testamento. La frase «erano pecore senza pastore» era sbocciata nel contesto storico dell’esodo, il periodo in cui gli ebrei erano schiavi in Egitto. Poi si mettono in cammino. Mosè cerca di fondere insieme le dodici tribù ed arriva alle soglie della terra promessa. Anche per lui si avvicina il tempo della morte e, guardando il popolo che ha messo in cammino, preso da un grande abbattimento prega: «Signore, chi continuerà dopo di me? Queste persone sono come pecore senza pastore». Allora, a Mosè viene indicato un successore: Giosuè (è lo stesso nome di Gesù, senza l’accento all’italiana). L’immagine delle «pecore senza pastore» viene usata anche in un altro passo biblico, quando gli ebrei sono a Babilonia durante il tempo dell’esilio. Hanno il terrore di scomparire per sempre come popolo: non hanno più il tempio, non hanno più la terra, non hanno più il sacerdozio, non hanno più profeti… Vivono nella terra tra i due fiumi, a Babilonia. Allora dicono al Signore: «Siamo come pecore senza pastore, scompariremo…». Invece, il Signore farà sorgere altri condottieri. Gesù prova lo stesso sentimento, la stessa urgenza. Eppure dice: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi… Pregate!». Questa risposta stupisce, perché Gesù non esorta anzitutto a darsi da fare per raccogliere e mietere, ma a pregare. Questa frase ci libera dall’ansia da prestazione; in fondo pensiamo che tutto dipenda da noi, dalla nostra attività, invece, secondo Gesù, l’apostolo, il vero evangelizzatore, deve sapere che non è lui che salva il mondo: è Dio che opera. Noi interveniamo, caro don Sante, nella fase finale: Dio fa crescere, fa maturare, opera nel cuore delle persone, a noi il compito di mettere in evidenza quello che il Signore fa. A volte la persona meno religiosa, meno praticante, compie atti d’amore, è sensibile, accoglie il sacerdote per la benedizione e fa domande… Il sacerdote ha la missione di far sbocciare il bene presente in germe, di evidenziare talenti, di avere lo sguardo di Gesù.

4.

Gesù ha chiamato a sé quelli che ha voluto come apostoli e dirà che li chiama «a stare con lui» (cfr. Mc 3,14): ecco cosa chiede al sacerdote (non invita tanto a corsi di aggiornamento, perché l’insegnamento è Gesù stesso, la sua persona, non una teoria). Poi Gesù esprime, con cinque verbi, cosa deve fare l’apostolo; da notare che con solo uno di questi invita l’apostolo a fare attività mediante parola, mentre con gli altri quattro verbi indica attività di carità, di servizio, di prossimità: «Strada facendo – cioè nello svolgimento della vita – predicate, dicendo che il Regno di Dio sta per venire (unico verbo che indica attività mediante parola), guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demoni». Non commento questi verbi, ma sottolineo che, per Gesù, i “demoni” sono anzitutto le immagini sbagliate di Dio. Ci sono persone che girano alla larga da Dio perché hanno paura, perché gli è stata trasmessa un’immagine contraffatta di Dio. Dio è ben diverso dai loro “fantasmi”; il Dio di Gesù è pieno d’amore, è lui che crea relazioni in cui non avanzi per i tuoi meriti e le tue performance. I prediletti di Dio sono le persone più fragili. Il cristiano deve fare esorcismi perché deve liberare l’immagine bella di Dio che è nel profondo del cuore di ciascuno: Dio è amore!

Giornata di preghiera e riflessione per i politici

Giovedì 22 giugno alle ore 21.00 presso la Casa San Giuseppe a Valdragone (RSM) la Diocesi promuove una tavola rotonda dal titolo “Pacem in terris? Attualità dell’enciclica di San Giovanni XIII”, come espressione dell’anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi alla pace.

Il 22 giugno la Chiesa ricorda San Tommaso Moro, avvocato, scrittore e uomo politico inglese noto soprattutto per il suo rifiuto di accettare la rivendicazione di Enrico VIII di farsi capo supremo della Chiesa d’Inghilterra. Una decisione che mise fine alla sua carriera politica e che lo condusse nel 1535 alla pena capitale con l’accusa di tradimento. Nel 1935 fu proclamato santo da papa Pio XI e nel 2000 patrono degli statisti e dei politici da papa Giovanni Paolo II, quale testimone della dignità inalienabile della coscienza.

La comunità diocesana celebra per l’occasione la “Giornata di preghiera e riflessione per i politici”, con lo scopo di far sentire la sua vicinanza a coloro che hanno scelto di servire il bene comune attraverso l’impegno politico e per riaffermare la considerazione che la Chiesa ha della politica quale alta forma di carità.

Quest’anno la Giornata focalizzerà il tema della pace in occasione della ricorrenza del 60° anniversario della lettera enciclica Pacem in Terris, stante la drammatica situazione di guerra nel cuore dell’Europa che si aggiunge ai molteplici conflitti che sul pianeta costituiscono la “terza guerra mondiale a pezzi” denunciata più volte da papa Francesco.

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Omelia nella Solennità del Corpus Domini

San Marino Città (RSM), Basilica del Santo Marino, 8 giugno 2023

1.
«I bambini domandavano il pane, ma non vi era chi lo spezzasse loro» (Lam 4,4). Gesù avrà pensato a questo grido del libro delle Lamentazioni quando si è trovato di fronte alla grande folla che lo aveva seguito affascinata dalla sua persona e dalle sue parole. Allora compie il segno della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Giovanni, l’evangelista, volutamente non lo chiama miracolo, ma segno; nel segno c’è della compassione, ma soprattutto c’è la sua autorivelazione: «Ecco chi sono io!». «Io sono il pane della vita, non come quello che mangiarono i vostri padri e morirono» (cfr. Gv 6,48).
Gesù è la risposta alla promessa – valida oggi come allora – del profeta: «Ecco, verranno giorni – dice il Signore – in cui manderò la fame nel paese, non fame di pane, né sete di acqua, ma d’ascoltare la parola del Signore. In quel giorno appassiranno le belle fanciulle e i giovani per la sete» (Am 8,11.13).
Quel giorno, sulle colline attorno a Cafarnao, si manifesta colui che sazia la fame e la sete esistenziale. Ma quella gente si ferma al dono, all’ammirazione per il miracolo – non si è mai sazi di miracoli! – e non va al Donatore. Se lo cerca, è per avere ancora di quei pani.
Evidentemente c’è un equivoco!
Sappiamo dal racconto evangelico che Gesù si sottrarrà a questa strumentalizzazione: «Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati» (Gv 6,26).

2.
Gesù riprende il discorso nella sinagoga di Cafarnao. Un discorso che sconcerta nemici ed amici. Un tratto di quel discorso l’abbiamo udito poco fa: «Mangiate la mia carne, bevete il mio sangue». Frase ripetuta almeno sette volte, accompagnata da una motivazione sempre più chiara, sempre più incalzante: «Per vivere, semplicemente per vivere, per vivere davvero»; la vita è il perno di tutta la spirale argomentativa di Gesù.
Gesù è consapevole di possedere qualcosa che può cambiare la direzione dell’esistenza; noi, talvolta, la sentiamo in discesa, verso il basso, verso il meno, verso il vuoto e la disperazione. Gesù non ci sta! Capovolge questo piano inclinato: «Mangia la mia carne, bevi il mio sangue per avere la vita». Qui sta la genialità del cristianesimo: «Dio viene dentro le sue creature come lievito dentro il pane, come pane dentro al corpo, come corpo dentro l’abbraccio» (E. Ronchi). Viene per dare speranza e senso, per dare capacità di amare, per dare una socialità aperta e nuova.
Gesù ci affida il compito di entrare nella sua ora: l’Eucaristia ci attira nell’atto oblativo di Gesù. Noi non riceviamo soltanto in modo statico il Verbo incarnato, ma veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazione. Ci attira dentro sé! «L’ammirabile conversione del pane e del vino nel suo Corpo e nel suo Sangue pone dentro la creazione il principio di un cambiamento radicale (…) nel più intimo dell’essere, un cambiamento destinato a suscitare un processo di trasformazione della realtà» (Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, 11).

3.
Oggi festeggiamo il Corpus Domini: una festa di luci, di ostensori raggianti, di tabernacoli aperti, di petali di rose che i più piccoli gettano al passaggio dell’Ostia consacrata. Ma centro e motivo della festa è il donarsi del Signore in quel pane spezzato in cui ha scelto di abitare: mistero della fede! Presenza, azione e donazione di Cristo.
C’è di più: festeggiamo il fatto che possiamo e dobbiamo mangiare questo pane se vogliamo vivere. Notate il verbo semplice, concreto, realistico: letteralmente masticare e quindi assimilare, assorbire, metabolizzare. Sorprendente e affascinante il dono che Gesù fa di sé quando prende il pane, lo benedice, lo spezza e lo dà… Ma ancora più grande il fatto che mangiamo quel Pane e lui viene in noi e noi diventiamo lui: oggi è la solennità del Pane preso e del Pane mangiato.

4.
Nel Pane preso e mangiato c’è un duplice frutto: il primo la comunione-dono con Cristo, il secondo, la comunità tra quanti si nutrono di lui. La Chiesa fa l’Eucaristia, ma è più fondamentale che l’Eucaristia fa la Chiesa e le permette di essere la sua missione, prima ancora di compierla. Questo è il mistero della comunione: ricevere Gesù perché ci trasformi da dentro e ricevere Gesù perché faccia di noi l’unità e non la divisione. Il primo effetto, diciamo, è mistico o spirituale. Il secondo effetto è quello comunitario: «Poiché vi è un solo pane – ci ricordava san Paolo nella Seconda Lettura – noi siamo, benché molti, un solo corpo» (1Cor 10,17). Si tratta della comunione reciproca di quanti partecipano all’Eucaristia. Siamo comunità, tutti nutriti dal Corpo e dal Sangue di Cristo. Non si partecipa all’Eucaristia senza impegnarsi in una fraternità vicendevole e sincera.

5.
È necessario, cari sammarinesi, che ci interroghiamo sulla qualità delle nostre relazioni sociali, sulle nostre responsabilità educative, sull’accoglienza della vita nascente e anche nei momenti della sua fragilità. Torno a ricordare che altro è ciò che è riconosciuto legale e altro ciò che è veramente morale. Abbiamo perso un’occasione per affermare la nostra originalità, la nostra significatività tra le nazioni. Dio non voglia abbiano prevalso condizionamenti esterni. Noi non possiamo pensarci fuori dall’Italia, fuori dall’Europa, ma partecipi essendo noi stessi, con la nostra originalità.
È importante per i fedeli una ripresa della partecipazione alla Messa domenicale.
È indispensabile per noi sacerdoti fare della celebrazione eucaristica il centro della nostra vita; non possiamo celebrare la Messa secondo i nostri gusti e il nostro individuale criterio, semmai è la liturgia a normare noi. Papa Francesco, con serenità e chiarezza, «ci guida alla comprensione dello sviluppo e dei cambiamenti liturgici dal post Concilio fino ad oggi, alla ricerca della comunione e dell’unità nella Chiesa. I libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II in conformità ai decreti del Vaticano II sono l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano» (DD 31).
Ai sammarinesi, ai fedeli, a noi sacerdoti la perseveranza nella preghiera perché il Signore doni degni ministri dell’Altare e a tutti uno stile di vita eucaristico. Così sia.

Omelia nella Solennità della SS. Trinità

Carpegna (PU), chiesa di San Nicolò, 4 giugno 2023

Sante Cresime

Es 34,4-6.8-9
Dn 3,52-56
2Cor 13,11-13
Gv 3,16-18

La pagina evangelica proclamata oggi conta solo due versetti. In questi due versetti mi soffermerò su tre parole. La prima è la parola “mondo”: ricorre ben quattro volte (è il perno del ragionamento dell’evangelista Giovanni). La seconda parola è il verbo “donare”: «Dio ha tanto amato il mondo da donare il Figlio». La terza parola è il verbo “salvare”.

Mentre facevo meditazione ho pensato all’universo nella sua immensità, nelle sue dinamiche, nelle molteplici forme che lo percorrono e lo abitano: viene da smarrirsi! di fronte alla sua infinità viene da smarrirsi. Giacomo Leopardi, nella poesia “L’infinito”, canta degli «interminabili spazi e sovrumani silenzi» e poi conclude: «Tra questa immensità s’annega il pensier mio e il naufragar m’è dolce in questo mare». L’universo è amato da Dio.
Nell’universo c’è un piccolo pianeta azzurro che è la terra (forse non è l’unico pianeta abitato). Il Signore ama questo mondo che, a volte, a noi non piace. Il mondo è come una foresta piena di sorprese, fa paura, mette ansia. «Dio ha tanto amato il mondo…». Nel mondo ha amato la terra, nella terra ha amato gli esseri umani. In che modo li ha amati? Li ha amati facendosi Lui uomo come loro. Gesù è il Verbo di Dio. Dio non dona “qualcosa”, perché in Dio «tutto è Lui». In Gesù si è dato all’uomo: Lui è la pienezza dell’essere.
Dio da sempre ha voluto l’uomo e l’ha creato capace di amare, di rispondere al suo amore. Rubo un’espressione a sant’Agostino: «Dio ci ha amato per amarci». Significa che Dio ama per veder accendere l’amore nella creatura che ama. Donando se stesso fa in modo che, liberamente e consapevolmente, l’uomo ami a sua volta. Se la creatura corrisponde all’amore, Dio può amarla ancora di più; se l’uomo si lascia prendere nel gioco di amore, Dio lo amerà infinitamente di più, come in una spirale infinita. Tutto in una reciprocità che ci sorprende e ci affascina. «Dio ha tanto amato il mondo», anche il mondo che a noi non piace, anche quello che a noi non piace di noi stessi!

La seconda parola è “donare”. «Dio ha tanto amato il mondo… da donare il suo Figlio». Il “tu” di Dio, il Verbo, si è fatto uomo, Gesù di Nazaret venuto in mezzo a noi. Dio l’ha donato a noi. La relazione più intima, più cara, più preziosa la partecipa a noi. Il dono di Dio è irrevocabile: è per sempre! È un dono totale: si dà tutto! È un dono gratuito: lo si accoglie stupefatti! È mistero, mistero grande. Ed è realtà, realtà che noi viviamo, che noi godiamo, che noi vediamo già grazie agli occhi luminosi e illuminanti della fede (cfr. Ef 1,18), grazie all’intelligenza che ci viene dall’amore, per cui crediamo e conosciamo (cfr. 1Gv 4,16) «finché egli, il Signore, ritorni» (1Cor 11,26).

La terza parola è “salvare”. Salvare non è semplicemente estrarre dalla melma o impedire la caduta nell’inferno. Salvare vuol dire custodire per sempre, conservare, mantenere; è un po’ come quando il computer ti chiede: «Vuoi salvare?». Quando si salva, quel file rimane, non va perduto, non cade nell’oblio.
«Dio ha tanto amato il mondo, ha tanto amato ciascuno di noi, per salvare, perché non vada perduto nulla». Ci vuole la fede: attorno a noi, vediamo realtà caduche e dimenticanze; vediamo la morte. L’annuncio della fede è questo: «Dio ha tanto amato il mondo da mandare il Figlio per salvare»: come? Assumendo tutto in sè.
Se scriviamo una serie di note su un cartellone restano mute, ma, se tracciamo il rigo musicale, quelle note segnate una dopo l’altra formano una melodia. La fede ci svela la melodia di questo mondo e la vocazione di questo mondo. Lodiamo il Signore, diciamo grazie. Vogliamo entrare in questo gioco d’amore: Dio è Trinità d’amore e da sempre ci ha pensati partecipi della sua vita.
C’è un momento della Messa che ogni volta mi emoziona: è quando alzo il calice con il vino e il piatto con il pane e pronuncio parole che sembrano uno scioglilingua: «Per Cristo, con Cristo, in Cristo, a te Dio Padre la lode». In quelle parole è racchiusa la nostra destinazione: essere proiettati nel seno del Padre. Figli nel Figlio ci avvolge una forza ascensionale: lo Spirito Santo. «Per Cristo, con Cristo, in Cristo, a te Dio Padre la lode nello Spirito Santo».

Cari ragazzi, tra poco riceverete il sacramento della Cresima. Verrete davanti all’altare e risponderete ad alcune domande. In questi anni vi siete preparati per rispondere in modo più consapevole. Poi stenderò le mani per invocare la discesa dello Spirito Santo su di voi e sulla comunità. Attraverso di me è Gesù che vi guarda negli occhi, vi vuole bene e vi dona il suo Spirito. Lo Spirito è raffigurato da un profumo, il crisma, con cui vi ungerò la fronte dicendo: «Ricevi il sigillo dello Spirito Santo». E voi risponderete: «Amen». Vi darò un piccolo schiaffo per incoraggiarvi: «Hai ricevuto lo Spirito, adesso devi essere un cristiano coraggioso».
L’olio profumato svanirà subito, ma il segno spirituale della Cresima si imprimerà in voi, rimarrà per sempre, molto più di un tatuaggio: rimarrà per l’eternità: appartenete al Signore.

57° Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali

Oggi, domenica 21 maggio, si celebra la solennità dell’Ascensione ed è anche la Giornata Mondiale delle Comunicazioni sociali. È una iniziativa nata con il decreto Inter Mirifica del Concilio Vaticano II.
Come Chiesa, siamo chiamati a pregare per gli operatori dei media, che svolgono un compito fondamentale nella nostra democrazia. Si tratta anche di sostenere i mezzi di comunicazione della Chiesa nel suo operare a dare cittadinanza a Dio nel continente digitale.
Cosa possiamo fare nel nostro piccolo ? Riassumo le nostre azioni in due verbi: seguire e abbonarsi.
Seguire i canali e le pagine social della diocesi:
Abbonarsi alla rivista diocesana:
5) Rivista diocesana “Montefeltro” al costo di 30€ o di 50€ per amicizia. Si può contattare il numero seguente : 0541 913 780 o l’indirizzo mail : ufficio.stampa@diocesi-sanmarino-montefeltro.it

Omelia nella VI domenica di Pasqua

Romagnano (RN), 14 maggio 2023

Cresime a Romagnano

At 8,5-8.14-17
Sal 65
1Pt 3,15-18
Gv 14,15-21

Una premessa. Ci troviamo nel Cenacolo. È l’ora nella quale Gesù annuncia che sta per lasciare i discepoli. I discepoli rimangono sbalorditi. Scende un velo di tristezza su tutti. Uno degli apostoli – l’abbiamo letto domenica scorsa –chiede a Gesù: «Dove vai? Come si fa a venire con te?» (cfr. Gv 14,5).
Nel Cenacolo è avvenuta l’Ultima Cena, la lavanda dei piedi, l’annuncio del “comandamento nuovo” («amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato»), l’istituzione dell’Eucaristia e la promessa della discesa dello Spirito Santo. Poi, nel Cenacolo, cinquanta giorni dopo la Pasqua, l’effusione dello Spirito Santo. Con la forza dello Spirito gli apostoli si lanciano sulla piazza e gridano a tutti: «Gesù è vivo!». La morte è stata vinta. Gesù aveva detto: «Vado a prepararvi un posto. Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi e là dove sono io voi vivrete per sempre» (cfr. Gv 14,2-4). Questa è la nostra fede.
La settimana scorsa ho celebrato il funerale di una giovane mamma. Eravamo tutti sconvolti. Lascio immaginare il dolore dello sposo, dei genitori, della figlia e degli amici. È scesa questa Parola di Gesù e abbiamo pregato: «Gesù, crediamo in te, ci fidiamo di te. Tante volte nel Vangelo hai detto parole che, vissute, sperimentiamo vere. Allora perché non dovremmo credere a questa che è la più importante: «Vi prenderò con me?».

All’inizio del Vangelo di oggi ci sono tre parole: amore, comandamento, Spirito Santo. Sembrano estranee l’una all’altra, eppure formano una sorta di costellazione.

Amore. Che cos’è l’amore? È un sentimento, che va e viene? È anche un sentimento, ma soprattutto è una decisione. Ad esempio, un fidanzato può dire alla fidanzata: «Ho trovato in te qualcosa di speciale, di unico, per cui decido di vivere per te e ti chiedo di vivere per me». Poi, nell’amore c’è senz’altro una evoluzione. Proprio perché una decisione, ogni volta che decidi di amare, decidi di scegliere: ogni volta che si ama, si sceglie di nuovo. Io sono un sacerdote, ho scelto di essere di Gesù. Lui mi ha sposato, è la pienezza della mia vita. Ogni giorno lo riscelgo, prendo la decisione di essergli sposo e ogni scelta è anche una Pasqua. La parola “Pasqua” in ebraico significa “passaggio”. Quando amo faccio spazio in me per accogliere l’altro, perché sia a casa sua in casa mia. Questo vale in tutte le relazioni, nell’amicizia, fra colleghi di lavoro… Il fare il vuoto perché l’altro si doni a me è un passaggio, c’è una Pasqua: c’è una morte e una risurrezione.

Comandamento. Cosa c’entra un comandamento con l’amore? Come fa Gesù, la sera in cui c’è tanta tristezza nel gruppo dei discepoli, a parlare di comandamenti? Eppure, senza comandamento non c’è amore, perché l’amore, per sua natura, chiede fedeltà. Allora si impone a se stesso, in virtù della decisione di amare, anche un “comandamento”. Il comandamento aiuta il cuore ad amare. C’è una circolarità fra l’interiorità e l’esteriorità. Si dice: «L’importante è il cuore, non sono tanto i gesti o le parole o i regali…». È vero, il cuore è il centro degli affetti, ma è pur vero che dobbiamo educare il cuore. Noi collochiamo i comandamenti nell’ambito della morale (i “dieci comandamenti”). Non sarebbe così. Gesù sapeva che i comandamenti rinviavano il pio israelita all’esperienza pasquale del passaggio attraverso il mar Rosso verso la libertà. Quando gli ebrei sentivano la parola “comandamento”, non pensavano anzitutto al dovere, ma all’evento della loro liberazione: «Io sono stato salvato da Dio; eravamo una tribù schiava d’Egitto e il Signore ci ha liberati, siamo un popolo libero e anche noi abbiamo avuto il dono di una legge, non più la legge del Faraone o di Nabucodonosor o di Hammurabi, ma la nostra legge». Quando un pio israelita osservava i comandamenti poteva dire: «Signore, credo che tu mi ami, che sei il mio liberatore, il mio Salvatore, sei il mio Tutto». Gli ebrei praticavano 613 precetti legati ai comandamenti, perché ogni momento della vita fosse sotto lo splendore della liberazione e dell’amore del Signore. Prima di pranzare, prima di dormire, prima di andare al mercato, prima di studiare, c’erano piccole osservanze che rinviavano all’amore di Dio.

Spirito Santo. Gesù lo chiama Paraclito, che significa Consolatore ed Avvocato. Lo Spirito Santo è Consolatore. «Non dire che sei solo, non lasciarti prendere dalla paura», dice Gesù. Puoi contare sullo Spirito, che viene dentro di te e sarà sempre con te. Lo Spirito Santo è Avvocato. Immagina di essere dentro ad un processo; c’è uno spirito cattivo, Satana, che parla contro di te, che ti suggerisce il pensiero che sei solo, che il Padre è lontano. Questi pensieri sono all’origine di ogni peccato. Lo Spirito, che è Avvocato, parla bene di te, parla in tuo favore.
Concludo con un’esperienza che ho vissuto alcuni anni fa. Sono stato convocato a Verona a fare da testimone in un processo. Appena entrato nell’aula del tribunale ho notato subito la scritta: «La legge è uguale per tutti». La mia causa veniva rinviata continuamente, perché non era ancora arrivato un altro testimone, così ho avuto modo di seguire vari processi. Ad un certo punto è entrato un giovane, con le manette ai polsi, accompagnato da due carabinieri. Vicino a lui si è seduto l’avvocato difensore. Dall’altra parte c’era il Pubblico ministero, l’accusa, e poi la corte che ascoltava. C’è stato il dibattito. La giudice si è ritirata con gli avvocati per formulare la sentenza. Finalmente, dopo trenta minuti, la corte è rientrata ed è stato proclamato il verdetto: «In nome della Repubblica, con i poteri conferitimi… dichiaro che il signor… è assolto per non aver commesso il fatto». Il giovane ha abbracciato l’avvocato difensore, il “paraclito”, e in fondo alla sala si è sentito un timido applauso (forse si trattava della sua mamma). Si è alzato in piedi e ha porto i polsi ai carabinieri, come per riprendere le manette per essere condotto fuori. Gli hanno risposto: «No, adesso sei libero!». Quando penso allo Spirito Santo mi sovviene questa esperienza: lo Spirito Santo è l’Avvocato difensore, che parla bene di noi. Allora portiamolo con noi, come amico, anche nei momenti della prova, del dubbio, quando ci chiediamo: «Faccio bene a parlare o è meglio stare zitti? Faccio bene ad andare o è meglio restare?». Sant’Agostino è arrivato a dire: «Ama e fa’ ciò che vuoi».

Assemblea diocesana di verifica

IL “POMERIGGIO DEL MAGNIFICAT”
Con stile sinodale

Da un pezzo sulle nostre agende è ben evidenziata la data del 27 maggio prossimo, vigilia di Pentecoste: l’Assemblea diocesana di fine anno pastorale è entrata finalmente nella nostra tradizione e nella nostra prassi ecclesiale. L’Assemblea è certamente uno spazio per la verifica, un tempo per rinsaldare rapporti, un luogo di convergenza ecclesiale. Ma è soprattutto riconoscimento grato per quanto il Signore è andato operando nella comunità e in ciascuno: dunque una celebrazione festosa e solenne. È invalso l’uso di chiamare questo appuntamento: “Il pomeriggio del Magnificat”.

Quest’anno l’Assemblea sarà caratterizzata dallo stile e dalla prassi sinodale. Infatti, un tempo significativo sarà dedicato all’ascolto in piccoli gruppi per il confronto sulle priorità emerse nel Cammino Sinodale.

L’invito è rivolto a tutti, con particolare considerazione ai giovani. Una parte di loro sta preparando la partecipazione alla Giornata Mondiale della Gioventù che questa volta si celebra a Lisbona in Portogallo con la presenza di papa Francesco. Sarebbe bello che i giovani potessero avere uno spazio, seppur breve, per partecipare a tutti il loro entusiasmo, per raccogliere l’incoraggiamento della Diocesi e “portarla” con loro.

L’invito, si diceva, è rivolto a tutti. I momenti diocesani unitari in fondo sono pochissimi e per questo particolarmente preziosi, da difendere gelosamente: la “domenica del Mandato pastorale” e il “pomeriggio del Magnificat”. Se nel giorno di apertura si lancia il Programma annuale, nel “pomeriggio del Magnificat” è necessaria la verifica. Il primo ambito di verifica sarà cogliere l’opera che Dio compie nel suo popolo, ma è necessaria anche la sosta per interrogarsi con schiettezza sui punti critici nel rapporto fra la società e la proposta cristiana. In particolare, questa volta ci si chiede: «Che cosa abbiamo imparato sul “camminare insieme” in questi due anni di Sinodo?». Verrà chiesto di condividere idee, proposte ed esperienze.

Dopo il Covid-19 torna l’invito ad una “cena frugale” in cui ognuno porta qualcosa (non solo dolci!) e il tutto viene “spezzato” e condiviso. Esperienza già effettuata in passato, riuscita e sorprendente, una sorta di “moltiplicazione”.
Dopo la “cena frugale”, spazio importante anche per rinsaldare conoscenze e amicizie, si vivrà il passaggio in chiesa per la celebrazione dell’Eucaristia della Vigilia di Pentecoste; un ritorno al cenacolo come spazio spirituale e atmosfera pasquale: comandamento nuovo, istituzione dell’Eucaristia, effusione dello Spirito Santo.

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Domanda-guida per il lavoro nei gruppi

Che cosa abbiamo imparato sul “camminare insieme” in questi due anni?
Elencare due aspetti rilevanti ed eventualmente una esperienza.

Scarica la lettera-invito del Vescovo Andrea

Visiona il videomessaggio