Omelia nella IV domenica di Pasqua

San Marino Città (RSM), chiesa di San Francesco, 3 maggio 2020

At 2,14.36-41
Sal 22
1Pt 2,20-25
Gv 10,1-10

«Eravate erranti come pecore – dice l’apostolo Pietro nella sua Prima Lettera –, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime» (1Pt 2,25). Sono parole dolcissime, parole di serenità, pace, tenerezza.
«Eravate erranti come pecore», adesso siete stati ricondotti al pastore, siete tutti sulle sue spalle: tutti siete chiamati dal pastore. Anche nell’omelia della Pentecoste, Pietro dirà: «Per voi, infatti, è la promessa e per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore nostro Dio».
Oggi il tema e l’esperienza dell’essere chiamati è centrale.
Abbiamo letto la bellissima pagina dal capitolo 10 di san Giovanni con l’allegoria del pastore. Non possiamo ignorare il contesto un po’ polemico. Questo scritto è come una bellissima rosa, ma ha le sue “spine”, perché l’allegoria che Gesù adopera è indirizzata ai pastori d’Israele che non compiono la loro missione. Gesù ha in mente il capitolo 34 del profeta Ezechiele, che veniva letto proprio in quel giorno – era la festa della Dedicazione – nella sinagoga e al tempio. Gesù, di fronte ai farisei che non accolgono e non si piegano neppure davanti al prodigio della guarigione del cieco nato, dice: «Siete ciechi. Siete briganti e ladri». La connotazione polemica viene subito temperata da immagini di grande tenerezza, che raccontano la qualità del rapporto che il pastore buono (o bello, come si potrebbe tradurre dal greco) ha con le sue pecorelle, con il suo gregge. La prima immagine che vorrei sottolineare è la voce. Le pecore si sentono chiamare per nome con quella voce riconoscibile fra mille e mille. Torna alla mente quella prima voce, che fu grido, all’inizio della creazione, quando Dio creò l’uomo: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza» (Gen 1,26). Soltanto che entriamo nel silenzio della nostra unicità, sentiremo l’eco di quella voce.
Ecco, il pastore chiama le sue pecore per nome. Così l’oracolo del profeta Isaia: «Il Signore dice: ti ho chiamato per nome, tu sei prezioso ai miei occhi» cfr. Is 43,4). Il Salmo 22 che abbiamo sentito cantare poco fa è tutto un inno alla premura che il pastore ha per la sua pecorella: «Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla». Il Signore conosce ciascuna delle sue pecore, se ne prende cura. La vita cristiana si radica nella consapevolezza di essere amati, conosciuti, pensati, voluti dal Signore. Questa mattina il Santo Padre ha esordito dicendo: «Questa è una domenica di serenità, di tenerezza, di pace, proprio nel bel mezzo delle sofferenze che stiamo vivendo». Accanto alla voce del pastore si alzano altre voci che ingannano e seducono. Ulisse si fa legare al palo dei suoi desideri, perché vuol sentire quelle voci.
Il Signore, facendo sentire la sua voce, ci invita a seguirlo. Non posso non ricordare pecore e pastori che venivano, in alcune stagioni, nel mio piccolo paese di campagna. Quando scendevano le greggi c’era tanta festa: era una novità per la cronaca paesana. Noi bambini rimanevamo incantati davanti a questa pacifica invasione. Per gli adulti era anche una benedizione, per il concime che le pecore lasciavano nei campi. Le groppe lanute delle pecore assomigliavano tanto alle onde del Po. Il pastore era inseparabile dalle sue pecore, sempre in piedi, un po’ selvatico, inimitabile nei suoi fischi (che noi tentavamo di imparare). Rovistando tra questi ricordi, mi verrebbe da qualificare l’atteggiamento del pastore con un sentimento che può essere visto negativamente, ma anche positivamente: la gelosia. Il pastore ci appariva così, sempre attento alle sue pecore, sempre all’erta. Anche il buon Pastore ha questo atteggiamento: sa cosa c’è nel nostro cuore e ci sta sempre appresso. Ci conosce, sa il nome di ciascuno di noi, ci tiene uniti. Non c’è sapone che può togliergli di dosso il nostro odore. Non sopporta indiscreti visitatori. Addirittura, finisce per identificarsi con la porta dell’ovile, anzi è l’ovile stesso, nel quale le pecore possono trovare riposo. Le chiama per nome una ad una e «la sua bontà le fa crescere» (Sal 18,36).

Omelia nella Festa del Lavoro

San Marino Città (RSM), sede di San Marino RTV, 1 maggio 2020

Gen 1,26-2,3
Sal 89
Mt 13,54-58

Terremoti, alluvioni, pandemie… Sono eventi che accadono sul nostro pianeta, piuttosto irrequieto. Accadono improvvisamente, rappresentano sempre un momento di crisi, segnano un trapasso nella storia e sono catastrofi per gli uomini.
Che cosa fa l’umanità? Qual è la sua prima reazione? Si fa bambina: si sente piccola, impotente, smarrita. Corre tra le braccia del Creatore. È un atteggiamento spontaneo, immediato, semplice. E il Creatore che fa? L’accoglie, l’ascolta, gli infonde coraggio. Ma soprattutto la educa. Va oltre le coccole e le chiede di affrontare la realtà; va anche lui con lei e la rende convinta dell’enorme potenzialità che ha in sé. Le ha dato intelligenza, volontà, immaginazione, cuore… per dissodare, per costruire, per mettere briglie e domare, per stringere altre mani e altre braccia e fare rete. Permettete una metafora, il cowboy ha un puledro da domare: è difficile restare in sella nel rodeo. Poi, col suo coraggio e soprattutto con la sua caparbietà, riesce a domare quella che diventerà la sua inseparabile cavalcatura.
Oggi ricordiamo san Giuseppe Lavoratore. Ci piace pensare che l’aureola che lo avvolge incoroni il lavoro e i lavoratori. Tutti i lavori, tutti i lavoratori. In questi giorni abbiamo considerato con ammirazione soprattutto l’impegno dei ricercatori, dei medici, degli infermieri, del personale che, a vario titolo, si spendono per gli ammalati, anche con un servizio umile, ma indispensabile, preziosissimo, determinante.
Festa del Lavoro. Sappiamo come è nata questa ricorrenza, da quali sofferenze, da quali tensioni. La Chiesa ha visto nella questione operaia un segno dei tempi (kairòs) ed ha avviato un dialogo importante per lei e per ogni lavoratore. La Chiesa ha ripreso a sfogliare il “Vangelo del lavoro”, segnato dal peccato e poi redento dal Signore, il figlio del carpentiere: così chiamavano Gesù.
Oggi si fa festa al lavoro. In questi giorni lo apprezziamo ancor di più. Il lavoro, benché costi fatica e sudore, ancorché debba misurarsi con la resistenza che gli fa la natura, nonostante l’attrito della materia che non si lascia piegare facilmente, è per l’uomo possibilità di trasformazione del mondo, di modificazione della realtà, di esplorazione in ogni campo. Con l’onesto lavoro l’uomo produce quello che serve alla sua vita, traffica i talenti che ha ricevuto, trasmette cultura, prolunga le possibilità della comunicazione. «Dio disse – così le parole della Genesi – facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano sulla faccia della terra». La Genesi prosegue raccontando come il Creatore affidi all’uomo il giardino da coltivare.
Sì, nel lavoro, nell’iniziativa, nell’impresa l’uomo esprime uno dei profili che lo rendono “a somiglianza di Dio”, gran lavoratore! Come non festeggiare il lavoro? Come non metterne in evidenza, oltre alla necessità e utilità, la bellezza? Perfino i bambini quando giocano fanno mestieri. Conosco bambini ottimi camionisti e… bambini che giocano a fare il prete!
Una delle piaghe più gravi della nostra società è la mancanza del lavoro. La mancanza del lavoro offende la dignità della persona.
Anche nella Repubblica di San Marino siamo all’imminente riapertura di tante attività. Una ripresa da fare con molte precauzioni, purché siano garantite sicurezza, ingressi controllati e dispositivi indispensabili. Le ferite che ha subito la nostra comunità sono profonde. In linguaggio figurato: non basta una convalescenza, un passaggio in clinica, ci vuole “rianimazione”. Si parla di una crisi economica senza precedenti. Economisti, sociologi e politici promettono di fare del loro meglio. Il rischio di tensioni sociali è tutt’altro che remoto. C’è una parola che in questo giorno mi sembra importante. Ci riguarda tutti. È da mettere in luce: solidarietà. Siamo fratelli, i nostri destini sono intrecciati: posso stare bene se anche tu stai bene! C’è interdipendenza nei nostri destini. Penso al piastrellista che da tre mesi non lavora, al piccolo imprenditore che ha acceso un mutuo per pagare un capannone, al negoziante che ha tenuto chiuso ed è nella condizione di lasciare a casa collaboratori, all’operatore turistico in ansia per il futuro… Festa del lavoro, sì. Ma anche di intensa preghiera. L’intensità della preghiera è segno di responsabilità, solidarietà e partecipazione.
«Rendi salda, Signore, l’opera delle nostre mani»: così abbiamo pregato nel Salmo. Così sia.

1° maggio: affidamento a Maria del paese e dei lavoratori

Il 1° maggio, festa San Giuseppe lavoratore protettore dei lavoratori, cade in un momento molto difficile per il paese, caratterizzato dall’emergenza sanitaria Covid-19 e dalla preoccupazione per i rischi occupazionali legati alla conseguente emergenza economica.
L’annuale messaggio dei Vescovi per l’occasione, intitolato “Il lavoro in un’economia sostenibile”, accoglie questa comune preoccupazione evidenziando che l’epidemia ha reso consapevoli della fragilità e dell’interdipendenza degli uomini e della importanza della solidarietà e della capacità di fare squadra per affrontare le avversità. Nulla sarà come prima per le tante situazioni di difficoltà che il mondo del lavoro è e sarà chiamato ad affrontare per l’emergenza sanitaria, che si sovrappongo alle problematiche preesistenti dovute alla insostenibilità ambientale dell’attuale modello di sviluppo. Per questo i Vescovi sollecitano ad affrontare con consapevolezza ed urgenza la transizione verso un nuovo modello di sviluppo, che coniughi creazione di valore economico, dignità del lavoro e soluzione dei problemi ambientali. Si tratta di un cambiamento radicale che non può dipendere solo dall’impegno delle istituzioni ma che necessita di una partecipazione diffusa e dell’impegno di tutti a partire da nuovi stili di vita.
In questo momento di difficoltà il 1° maggio la Chiesa italiana affiderà il paese alla protezione della Madre di Dio come segno di salvezza e di speranza e, nella festa di San Giuseppe lavoratore, sposo di Maria Vergine, affiderà in particolare i lavoratori consapevole delle loro preoccupazioni per il futuro.

Commissione Pastorale Sociale e del Lavoro
Diocesi San Marino-Montefeltro

Omelia nella III domenica di Pasqua

San Marino Città (RSM), chiesa di San Francesco, 26 aprile 2020

At 2,14.22-33
Sal 15
1Pt 1,17-21
Lc 24,13-35

Quando si leggono i discorsi di Pietro dopo la Pentecoste, sorprende vedere la sua franchezza (parresia), la sua libertà di parola, mentre in tanti passi del Vangelo si è dimostrato timoroso. Dopo la pesca miracolosa Pietro esclama: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore» (Lc 5,8). Un’altra volta, quando Gesù preannuncia il suo destino di Passione e di croce, Pietro dice: «Signore, questo non ti accadrà mai» (Mt 16,22). E Gesù arriverà a dire: «Lungi da me Satana! Tu mi sei di scandalo» (Mt 16,23). Durante la Passione, Pietro è tra quelli che rinnegano Gesù… (cfr. Mt 26, 69-75). Come mai questo cambiamento? L’ha spiegato molto bene il Santo Padre qualche giorno fa nella Messa del mattino in Santa Marta. Il cambiamento è dovuto all’incontro con Gesù Risorto; è stata l’effusione dello Spirito Santo nel Cenacolo; ma il Papa sottolinea un altro motivo: Pietro è stato oggetto della preghiera di Gesù. Gesù l’aveva detto all’inizio dell’Ultima Cena: «Pietro, ho pregato per te; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli» (Lc 22,32). Gesù, davanti al Padre, prega per noi e mostra i gioielli più belli che ha: le ferite delle sue mani, segno imperituro del suo immenso amore per ciascuno di noi.
In una apparizione a santa Caterina, Gesù disse: «Credi siano i chiodi a tenermi attaccato alla croce? È il mio amore per te». Dobbiamo rileggere e meditare la Prima Lettura sotto questa luce di amore e di intercessione: così Pietro è diventato un annunciatore coraggioso, libero, pieno di entusiasmo, di Gesù Risorto.
Il nostro occhio si sposta ora su due viandanti che scendono da Gerusalemme verso Emmaus. Se la strada fosse un nastro magnetico ci riferirebbe i loro lamenti, le loro recriminazioni: sogni infranti e speranze deluse. Quei due hanno lasciato la città, Gerusalemme, per andare in un piccolo villaggio. Abbandonano la grande storia per tornare ad un quotidiano umilissimo e nascosto. Un personaggio si affianca a loro. Non lo riconoscono: è Gesù, che non disdegna di ascoltare le loro lamentele e cerca di farsi uno con loro, di entrare in quello che provano. Qual è la risposta di Gesù? Spiegando le Scritture dice che Dio non ci sta  al loro pessimismo e al loro rimpianto: c’è sempre un dopo. Al termine del dialogo, i “discepoli di Emmaus” intonano la più bella delle preghiere: «Resta con noi, Signore, perché si fa sera» (Lc 24,29). E Gesù rimane, si mette a tavola con loro e benché non sia la Cena pasquale, riprende gesti e parole che facilmente sono riconducibili alla Cena eucaristica. Dopo aver preso il pane e averlo donato, i discepoli lo riconoscono. Ma Gesù scompare. Quando lo vedono non lo riconoscono, quando lo riconoscono scompare, perché a prendere la parola è quel Pane. Quel Pane è Parola concretizzata di Gesù, è la sua vita offerta. Noi diciamo vita “eucaristica”: Gesù abita nel dono del Pane spezzato. Ricordo che un giorno, sfogliando una rivista, lessi una citazione di Gandhi che diceva: «Se mai un Dio dovesse venire sulla terra, prenderebbe la forma del pane, tanto grande è la fame dell’umanità». Senza saperlo Gandhi ha detto una cosa molto vera: Gesù prende la forma del pane. Tra poco sarà qui, su questo altare. Tutti voi che siete collegati attraverso la televisione state soffrendo per non poter ricevere sacramentalmente Gesù e per non poter godere della compagnia di una comunità così bella com’è la Chiesa. Ora facciamo la Comunione nel desiderio, speriamo presto nella realtà.
Concludo nel dare un pensiero che ci accompagni durante la settimana: ripetere di tanto in tanto «rimani con noi, Signore, perché si fa sera». «Si fa sera» perché nel cuore, a volte, ci sono ombre, dispiaceri, delusioni. «Resta con noi, Signore». Gesù non disdegna di camminare con noi.

Omelia nella II domenica di Pasqua

San Marino Città (RSM), chiesa di San Francesco, 19 aprile 2020

At 2,42-47
Sal 117
1Pt 1,3-9
Gv 20,19-31

Come si fa a non essere di buon umore in una domenica come questa?
Per prima cosa, siamo contenti per lo squarcio di Cielo che è il dono della Misericordia, poi per quello che ci dicono le letture. Domenica scorsa si diceva che usiamo il termine “vita eterna” per dire il suo prolungamento, la quantità smisurata di “vita” che oltrepassa e sconfigge la morte. È “vita nuova”, qualità di questa vita risorta. Nel quadro dagli Atti degli Apostoli ci viene raffigurato concretamente com’è la vita pasquale: i fratelli stanno insieme, spezzano il pane, ascoltano gli apostoli; attorno a loro cresce la simpatia e il numero della comunità; una comunità di questo tipo non può che essere attrattiva. Sicuramente c’erano anche le difficoltà… Come nelle nostre vite ci sono tanti motivi che oscurano il buonumore. Ma il buonumore di cui parlo è un dono dello Spirito, un buonumore soprannaturale, la gioia a cui alludeva Pietro nella sua Lettera: «Voi lo amate senza averlo visto e ora senza vederlo credete in lui, perciò esultate di gioia indicibile» (1Pt 1,8).
Questo tema viene ripreso dal Vangelo, dove Gesù dice: «Beati quelli che pur non avendo visto crederanno» (Gv 20,29). Noi di solito diciamo: «Vedere per credere». Gesù dice il contrario: «Fidati, credi: vedrai» (cfr. Gv 11,40).
Se il Santo Padre mi telefonasse e mi chiedesse com’è la Diocesi di San Marino-Montefeltro? Risponderei: «Santo Padre, la mia Diocesi è inginocchiata… ». C’è molta preghiera; pregano i piccoli e gli adulti, pregano i consacrati e i laici, pregano gli affezionati e le persone che non vanno tanto in chiesa. Dovrei anche dirgli che c’è chi chiede: «Prego tanto, ma dov’è il miracolo? Dov’è la fine di questo momento così tribolato?».
Rispondo, anzitutto, che la preghiera ci permette di continuare il cammino dentro al tunnel. Qualcuno dice che si intravvede la fine; io non ho competenze per dirlo, però assicuro che sono stati rinfrancati cuori, braccia e intelligenze.
La preghiera ci ha messo tutti nella verità, nella nostra condizione. Si dice: «Senectus ipsa morbus (la vecchiaia stessa è malattia)». Ma io direi piuttosto: «Humanitas ipsa morbus», la condizione di creature è segnata dal limite, dalla fragilità, per cui siamo malati di umanità. Umanità richiama “umiltà”, dalla parola “humus”, cioè terra: siamo fatti di terra.
La preghiera, soprattutto, ci mette davanti a Dio, al suo grande mistero e ci fa sentire il battito della vita nuova che dischiude l’involucro che la tiene prigioniera. Pensate al significato simbolico dell’uovo, un significato antico, precristiano: la vita nuova che pulsa spacca quell’involucro perché esca il nuovo modo di vivere.
La preghiera ci fa pensare al paradiso, al Cielo. Siamo “terra plasmata” per il dono della “vita nuova”, siamo fatti di Cielo, ma soprattutto siamo fatti per il Cielo. Le partenze sono molto dolorose, ma l’arrivo è sempre pieno di gioia, di abbracci, di festa. Ricordo quando mio fratello missionario partiva per il Congo dopo il periodo di riposo e visita alla famiglia. La mattina della partenza provavamo tanta tristezza; partiva per tre anni di missione. Una volta, all’aeroporto di Milano gli confidai quella tristezza. Mi rispose: «Penso a quando atterrerò con l’aereo a Goma (la città in cui era missionario): ci sarà tanta festa!».
È importante nella preghiera domandarsi: «Preghiamo bene? Quando siamo nella preghiera chiediamo cose buone? Siamo buoni quando entriamo nella preghiera?». Qualche catechista parla delle “tre B” della preghiera: chiedere bene, chiedere cose buone, essere buoni quando si prega. Un maestro di preghiera, che ascoltò il mio sfogo una volta in cui dissi che pregavo ma non succedeva niente, mi rispose: «Gliel’hai detto col Signore? Allora lascia fare a lui!».
In questi giorni la preghiera ci ha messo con le spalle al muro, come se il Signore ci dicesse: «Com’è la tua fede? Cosa pensi di Dio? Cosa pensi di te?». Essere messi con le spalle al muro: questo è accaduto a grandi oranti. Basta pensare ad Abramo, a Giacobbe, che ha lottato con Dio, a Giobbe, a cui è stato tolto tutto. C’erano persone attorno a Giobbe che si arrampicavano sugli specchi per difendere il silenzio di Dio, ma Giobbe fu l’unico ad accettare il rischio di stare di fronte al Mistero di Dio. Alla fine, Giobbe dovrà concludere: «Ti avevo conosciuto per sentito dire, adesso ti conosco veramente, perché sono passato attraverso la notte oscura della fede» (cfr. Gb 42,5). Gesù ci conferma: «Beati quelli che pur non avendo visto crederanno». Più o meno è quello che disse a Marta: «Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?». La parola di Gesù non è soltanto un invito a credere nonostante tutto, ma è un complimento a chi crede, non solo perché vedrà, ma perché godrà la prossimità con il Signore: «Beati quelli che pur non avendo visto crederanno». Gesù parla a noi e parla di noi. Come facciamo a non essere contenti?

Omelia nella Domenica di Pasqua

San Marino Città (RSM), Basilica del Santo Marino, 12 aprile 2020

At 10,34a.37-43
Sal 117
Col 3,1-4
Gv 20,1-9

Quel mattino del primo giorno della settimana è tutta la comunità, rappresentata da Maria, Giovanni e Pietro, che si reca al sepolcro. Quel giorno, attorno a quel sepolcro, c’è tanta agitazione. I personaggi che vanno al sepolcro di Gesù sono alla ricerca di lui, ma ognuno cerca a modo suo e ognuno ha una reazione diversa di fronte a ciò che vede.
Maria Maddalena, più che cercare il Signore, cerca un sepolcro sul quale piangere. Ha un bellissimo ricordo del Maestro, pieno di affetto, di venerazione, ma non spera di incontrarlo vivo. È andata con gli aromi per imbalsamarlo. Vede la pietra ribaltata, ma resta all’esterno, non indaga ulteriormente. Agitata e sconsolata, corre a dire agli altri che qualcuno ha trafugato il corpo di Gesù. Maria rappresenta il tipo del discepolo che si accontenta, si ferma sulla soglia. Per lei Gesù è un caro ricordo; si è chiuso il periodo di vicinanza e di prossimità con lui. Il Vangelo nota che «era ancora buio», di fuori, ma soprattutto nel cuore della discepola.
Poi arriva Pietro. Lui entra nel sepolcro, vede che è vuoto, ispeziona accuratamente; il suo vedere risponde alle motivazioni razionali, controlla tutto: ci sono i teli funebri, le bende… Capisce che Gesù non è stato trafugato e rimane perplesso. Il suo cercare è più profondo. Pietro rappresenta il discepolo razionalista, che ama approfondire personalmente la fede, ma che non comprende che la risurrezione non è la conclusione di un’indagine scientifica e perciò rimane ad arrovellarsi nelle sue ipotesi. In quel momento raffigura il tipo di “estimatore” di Gesù come Maestro, maestro di etica.
Giunge, infine, Giovanni. Entra nel sepolcro con Pietro, gli cede il passo, ma il suo modo di cercare è differente. Dice il Vangelo: «Vide e credette». Egli intuì che lì si era manifestata la potenza di Dio. Giovanni si apre alla fede; pur senza rinnegare le esigenze della ragione, «vide e credette». Si lascia guidare dall’amore, per questo apre i suoi occhi sulla realtà misteriosa della risurrezione. «Questo è il discepolo che Gesù amava». Il Vangelo vuol farci capire che c’è una progressione nella fede. L’evangelista ha a disposizione diversi verbi per significare la parola “vedere”. C’è vedere e vedere… Lo sguardo di Maria di Magdala è la semplice percezione oculare; è un vedere ben diverso dalla fede. Viene adoperato il verbo greco blepo (βλέπω). Nel caso di Pietro, viene usato il verbo tzeorein (θεωρειν) che significa “guardare con fascino”, con grande interesse. Non è ancora fede, ma è sicuramente la manifestazione di un animo ben disposto. Infine, per il verbo che esprime la visione profonda della realtà, la comprensione totale e risolutiva che è la fede, viene usato il verbo orao (οραω). C’è una progressione, una crescita. Vorrei che fosse così per tutti noi. Vorrei che corressimo tutti insieme, come i discepoli e le donne, al luogo dove Gesù era stato posto e lì avere la sorpresa di sentire Gesù che ci ripete: «Io sono con voi sempre».
C’è qualcuno che esita: vorrei prenderlo per mano. C’è qualcuno che è al buio, che attraversa molte prove. C’è chi ha un deficit di speranza e dice: «Adesso basta!». C’è anche chi al sepolcro va e ritorna e piange, vorrei dirgli: «Non è qui il Signore. È risorto, è vivo!». Non era necessaria, di per sé, l’ispezione e la comunicazione del sepolcro vuoto; Gesù l’aveva detto: «Il terzo giorno risorgerò». Giovanni sta a dirci che la fede si basa sulla Parola di Gesù.
Gesù vuol darci la sua vita. La risurrezione non è un fatto che riguarda soltanto lui, ma è il dono di una vita piena, che viene da Dio. Noi di solito parliamo di “vita eterna” intendendola nel suo prolungamento nell’al di là, con una connotazione “quantitativa”. In verità, se stiamo rigorosamente ai testi, soprattutto quelli di Giovanni, si parla di una vita piena, trasformante e trasformata, che comincia adesso. Si sottolinea l’aspetto “qualitativo”. Giovanni aveva a disposizione due verbi per dire “vita”: il termine bios (βίος), la vita fisica, e il termine zoe (ζωή), la vita che ha le qualità di Dio, senza termine di tempo, ma anche una vita piena adesso, ricca di senso e divina, anche quando deve attraversare l’oscurità, la sofferenza, la croce. Il Signore è con noi. Concludo con l’immagine evocata dal Santo Padre il 27 marzo, quando ha collegato il tempo che stiamo vivendo alla tempesta sul mare (cfr. Mc 4,35-41). Siamo tutti sulla stessa barca, tutta l’umanità. Abbiamo sperimentato sulla nostra pelle l’interdipendenza della famiglia umana, di tutti i popoli. E Gesù è qui con noi. Questa è la vita eterna, la vita nella risurrezione che ci avvolge e come un lievito la solleva. Chiamiamola “vita nuova”. Buona Pasqua!

Omelia nella Veglia pasquale

Pennabilli (RN), Cattedrale, 11 aprile 2020

Mt 28,1-10

È risorto! Quanto abbiamo pensato durante quest’anno alla Veglia di Pasqua… Ci aspettavamo fosse il momento clou della vita pastorale della nostra Diocesi. Apparentemente non lo è, ma lo è nel suo significato più profondo. È una Pasqua diversa, celebrata a porte chiuse, senza il concorso dei fedeli e in tono dimesso. E, per la celebrazione più laica, è una Pasqua senza lo scambio di abbracci e strette di mano, senza grigliate sulla spiaggia e gite fuori porta. Si celebra nella propria casa, trincerati a dispetto di una primavera che non si è mai vista così scintillante. Per quasi tutti, una Pasqua senza Messa, senza poter nutrirsi dell’Eucaristia. C’è chi ne patisce per davvero, perché non sente la Messa come una semplice tradizione: gli manca quel “Pane” che dà forza e coraggio per il cammino. Tutti abbiamo bisogno dei riti. I riti uniscono, rinsaldano l’identità, educano il desiderio e l’attesa. Le campane di San Marino e del Montefeltro suoneranno a festa e canteranno “Alleluia” a dispetto del virus che ci ha messo in croce.
Non ci stanchiamo di ripetere la gratitudine per chi è in prima linea: medici e infermieri, gente dell’informazione e gente della speranza (i miei preti e le mie suore), autorità e forze dell’ordine, impiegati e semplici cittadini. Questi ultimi tra i più importanti e decisivi protagonisti, con l’arma totale a disposizione: stare a casa!
Ho un sogno grande: so che nella preghiera può realizzarsi. Vorrei salissimo insieme al luogo in cui Gesù fu deposto dopo il terribile Venerdì Santo per rivivere lo stupore e la gioia delle donne e dei primi discepoli nell’apprendere che è risorto. «Non è qui. È vivo!». Vorrei stringere forte la mano di chi è in cammino ma esita, perché si trova in un momento di buio, di chi non ha speranza ed in cuor suo ha già detto «basta!». Ci sono momenti della vita che ci appaiono oscuri, nei quali non si vedono alternative. C’è chi sulla soglia del sepolcro ha già dovuto affacciarsi e vi ritorna piangendo. Ma, proprio lì, il dono inatteso. Dall’oscurità alla luce: «Io sono con voi – dice il Signore Risorto – tutti i giorni» (Mt 28,20). È davvero grande quello che è successo la mattina di Pasqua. È indispensabile per i cristiani del terzo millennio tornare alle radici della fede e dare solidità ad esse: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo?».
La risurrezione di Gesù – l’abbiamo detto tante volte con una metafora – è il Big Bang della fede cristiana: nei primi istanti ha messo in moto poche persone, ma una quantità smisurata di energia. I primi cristiani capivano che era successo qualcosa di indicibile. Alla fine del primo secolo tutto il bacino del Mediterraneo era costellato da migliaia di piccole comunità di credenti nel Signore Gesù. San Paolo, per portare l’annuncio percorse quindicimila chilometri (con i mezzi di allora!). Domani, nel racconto del Vangelo di Giovanni, vedremo com’è importante il tema della corsa. Tutti corrono, attorno a quel sepolcro vuoto, gridano che lui è vivo. La risurrezione di Gesù è un messaggio in espansione, una notizia che vuole raggiungere tutti e dare speranza. Particolarmente noi, in questi giorni di “Coronavirus”, dobbiamo portare questo annuncio.
Permettete un’altra sottolineatura: quando si dice “vita eterna” si pensa subito all’aldilà. C’è una restrizione del significato di questa parola che rischia di farne perdere il sapore pasquale, rinviando ai riti funebri, alla morte, a qualcosa che verrà dopo. Invece, la parola “vita eterna” ha molto a che fare col presente. La parola ebraica ‘olam significava l’insieme di tutti i beni possibili che rendono piena, ricca, significativa, l’esistenza. Sarà soprattutto nella teologia di Giovanni che emergerà come la vita sia “eterna” non solo nel prolungamento del tempo, che non finisce, perché Dio è eterno. Giovanni aveva a disposizione due parole della lingua parlata allora: la parola zoe (ζωή) e la parola bios (βίος). Ha scelto la parola zoe che dice la qualità della vita, più che la sua quantità in lunghezza. Noi riceviamo il dono della vita eterna: non pensiamo soltanto al prolungamento nell’aldilà, ma alla grazia del Battesimo che ci avvolge, ci rende figli di Dio. Giovanni puntualizzerà: «E lo siamo realmente» (1Gv 3,1), abbiamo la sua zoe, la sua vita. Preferisco allora parlare di “vita nuova”! La “vita nuova” ha subito la sua ricaduta, qui e ora, la sua espansione che si chiama santità, inseparabile dalla fraternità che unisce ontologicamente i figli di Dio.  Allora la fraternità fra noi non è una convenzione. L’uomo redento diviene dimora dello Spirito e già da adesso gode dei frutti della risurrezione. Auguri, buona vita! Che la vita di Gesù sia sempre con noi. Vi saluto con queste parole: gente di Pasqua! Alleluia!

Necrologio mons. Mariano De Nicolò

Il Vescovo di Rimini, Mons. Francesco Lambiasi, e il Vescovo di San Marino-Montefeltro, mons. Andrea Turazzi, unitamente al Presbiterio e alle Diocesi, affidano alla misericordia del Signore Risorto

Mons. MARIANO DE NICOLO’
Vescovo emerito di Rimini e di San Marino-Montefeltro

deceduto oggi, Sabato Santo, dopo lunga malattia, presso la “Piccola Famiglia dell’Assunta” di Montetauro.
Lo ricordano con affetto grato e riconoscente al Signore per il bene da lui profuso negli anni del suo episcopato.
Il rito di commiato si svolgerà in forma strettamente riservata presso la Cattedrale di Rimini, dove la salma verrà tumulata martedì 13 aprile p.v. alle ore 10.

Messaggio per la Pasqua 2020

“Gente di Pasqua”

Auguri vivissimi a tutti. È una Pasqua diversa: senza lo scambio di abbracci e strette di mano, senza grigliate sulla spiaggia e senza gite fuori porta. Si celebra nella propria casa, trincerati a dispetto di una primavera che non si è mai vista così scintillante. Una Pasqua senza Messa. C’è chi ne patisce per davvero perché non la sente come una semplice tradizione: gli manca quel “Pane” che dà forza e coraggio per il cammino. Tutti abbiamo bisogno dei riti. I riti uniscono, rinsaldano l’identità, educano il desiderio e l’attesa. Ve lo dico con le parole che Antoine Saint Exupery mette in bocca al piccolo principe: «“Che cos’è un rito?” disse il piccolo principe. “Anche questa è una cosa da tempo dimenticata”, disse la volpe. “È quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore”». C’è un rito, per esempio, presso i miei cacciatori. Il giovedì ballano con le ragazze del villaggio. Allora il giovedì è un giorno meraviglioso! Io mi spingo sino alla vigna. Se i cacciatori ballassero in un giorno qualsiasi, i giorni si assomiglierebbero tutti, e non avrei mai vacanza”».
Le campane di San Marino e del Montefeltro suoneranno a festa e canteranno “Alleluia” a dispetto del virus che ci ha messo in croce.
Non ci stanchiamo di ripetere la gratitudine per chi è in prima linea: medici e infermieri, gente dell’informazione e gente della speranza (i miei preti e le mie suore), autorità e forze dell’ordine, impiegati e semplici cittadini. Questi ultimi tra i più importanti protagonisti con l’arma decisiva a disposizione: stare a casa!
Ho un sogno grande: so che nella preghiera può realizzarsi. Vorrei salissimo insieme al sepolcro, dove era deposto Gesù, per rivivere lo stupore e la gioia delle donne e dei primi discepoli nell’apprendere che è risorto. «Non è qui. È vivo!».
Vorrei stringere forte la mano di chi è in cammino ma esita, perché si trova in un momento di buio, di chi non ha speranza ed in cuor suo ha già detto «basta!». Ci sono momenti della vita nei quali non si vedono alternative. C’è chi sulla soglia del sepolcro ha già dovuto affacciarsi e vi ritorna piangendo. Ma, proprio lì, il dono inatteso. Dall’oscurità alla luce: «Io sono con voi – dice il Risorto – tutti i giorni» (Mt 28,20).
Nei racconti pasquali, secondo quanto riferiscono i Vangeli, ritorna più volte il verbo “correre”: corre Maria di Magdala, corre Giovanni, corrono insieme Giovanni e Pietro. C’è tanto movimento attorno a quel sepolcro vuoto. Ma c’è anche chi è perplesso, dubita, si interroga. È davvero grande e incredibile quello che è successo la mattina di Pasqua!
È indispensabile per i cristiani del terzo millennio tornare alle radici della fede e dare solidità ad essa: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo?».
La risurrezione di Gesù è il Big Bang della fede cristiana: nei primi istanti ha messo in moto poche persone, ma una quantità smisurata di energia. I primi cristiani capivano che era successo qualcosa di indicibile. Poi, di anno in anno, di secolo in secolo, fino ad oggi, tante persone sono state coinvolte in questo annuncio di fede che continua, inarrestabile, ad espandersi sulla terra. La risurrezione di Gesù è un messaggio in espansione, una notizia che vuole raggiungere tutti e dare speranza particolarmente noi, in questi giorni di “Coronavirus”. Noi: gente di Pasqua!

+ Andrea Turazzi

Omelia nella Liturgia della Passione di Nostro Signore Gesù Cristo

Pennabilli (RN), Cattedrale, 10 aprile 2020

Is 52,13- 53,12
Sal 30
Eb 4,14-16; 5,7-9
Gv 18,1- 19,42

Di fronte a Gesù, che patisce e muore sulla croce, c’è un interlocutore. È l’umanità che nell’orazione del lunedì santo ha pregato così: «Guarda, Dio onnipotente, l’umanità sfinita per la sua debolezza mortale». Umanità poi redenta. Questa umanità, tutta intera, come un sol uomo, è rappresentata dal malfattore che confessa il suo peccato e la gloria di Cristo e perciò riceve la promessa di essere con lui in paradiso: «Oggi». Notate: l’ultimo colloquio di Gesù sulla terra è con un malfattore. L’ultimo che parla, tra noi umani, al Gesù terreno è questo malfattore. Il racconto del “buon ladrone”, di per sé, è proprio dell’evangelista Luca; noi, invece, abbiamo ascoltato il racconto giovanneo della Passione, ma anche in esso non è ignorata del tutto la presenza dei due malfattori (cfr. Gv 19,18). È una sottolineatura – questa che ora mi accingo a commentare – della liturgia e della pietà orientali, che incentrano la meditazione su questo “compagno di via” che il Signore Gesù si è scelto. Egli è compagno sulla via della croce, e poi sulla via del Regno. L’ultima parola con la quale si chiude il racconto della crocifissione e si delinea l’attesa della risurrezione è appunto la memoria del ladro e la speranza di essere ricordato dal Signore nel suo Regno. «Ricordati di me, Gesù, nel tuo Regno» (cfr. Lc 23,42): questa esclamazione orante ritorna continuamente nella liturgia orientale, liturgia che proclama il ladrone come ladro fedele, ladro riconoscente, ladro teologo, ladro giusto. Quattro aggettivi che possono benissimo qualificare ciascuno di noi.
Ladro fedele. Come lui, anche noi – non per i nostri meriti ma per la meraviglia della elezione divina – siamo divenuti discepoli: i fedeli di Gesù. Il Signore ci ha raccolti fra i “rottami” di questa umanità nel momento della resa dei conti: ogni momento lo è, in qualche modo. Ce lo siamo trovati al nostro fianco e ci ha ammessi alla sua compagnia; egli fa delle nostre membra – se lo vogliamo – membra di redenzione con le sue.
Rimaniamo sempre molto stupiti da questa coincidenza: com’è accaduto l’incontro fra Gesù e il ladrone? Perché proprio in quel giorno, in quell’ora, in quel momento? Un caso? Una cosa così importante non può accadere per caso. È un dono!
Ladro riconoscente. Come il ladro, anche noi vogliamo essere riconoscenti per il dono che abbiamo ricevuto. Come il lebbroso risanato, torniamo sui nostri passi per dire grazie. Il profeta denunciava quanti non sapevano essere riconoscenti e grati: «Ho allevato e fatto crescere figli, ma essi si sono ribellati contro di me. Il bue conosce il proprietario e l’asino le greppie del suo padrone, ma Israele non conosce e il mio popolo non comprende» (Is 1,2-3). Questa è l’ingratitudine. Quel ladro è riconoscente. E noi?
Ladro teologo. È teologo perché sa vedere nel Crocifisso – ridotto come un verme, insanguinato, deriso, torturato – il Messia Re, il Signore. Penetra, intuisce il mistero salvifico della crocifissione; va oltre le apparenze ed entra nella verità di quella crocifissione. La liturgia orientale fa pregare così tutti i giorni all’Ora nona: «La tua croce, o Cristo, in mezzo ai due ladri fu come una bilancia di giustizia; l’uno fu trascinato nell’Ade dal peso della bestemmia, l’altro, alleggerito dai peccati, fu guidato alla conoscenza della teologia. O Cristo, Dio, gloria a te».
La liturgia orientale azzarda un confronto fra il ladro e Pietro. «Pietro – continua la liturgia – ti ha rinnegato, mentre il ladro gridava “Ricordati di me, o Signore, nel tuo Regno”». Questo confronto è molto illuminante. Pietro aveva ragione a fondare la sua fiducia sulla rivelazione del mistero di Gesù, che gli era stato svelato «non dalla carne e dal sangue, ma dal Padre» (Mt 16,17). Ma, fin da Cesarea di Filippo, Pietro aveva patito lo scandalo della croce. Eppure, non si può confessare autenticamente la divinità di Gesù senza confessare insieme il mistero della sua passione, morte e risurrezione. Pietro e gli altri amici fuggono e cadono, ma non tanto per viltà o per debolezza, quanto per lo scandalo della croce di Cristo, della sconfitta.
Ladro giusto. Compiuto l’atto di fede, il ladro ottiene la salvezza, la giustificazione, e diventa il tipo di tutta l’umanità salvata, non per le opere giuste da noi compiute, ma per la misericordia del Signore, attraverso il lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito nel sangue di Cristo. Oggi è finito l’esilio di Adamo, che era stato allontanato dal giardino. Oggi, nel compiersi del mistero pasquale, l’uomo peccatore – il ladro reso giusto – ritorna nel paradiso, capofila, dietro a Cristo di tutta l’umanità peccatrice, indegna. L’umanità redenta, partecipando ai patimenti di Cristo, confessando il proprio peccato e la sua gloria, incontra – sovrabbondante – la grande misericordia. Sono cose grandi… eppure sono proprio per noi!