Messaggio per la Giornata della Scuola

Messaggio per la Giornata della Scuola

4 ottobre 2015

Inizia un nuovo anno scolastico: quante sorprese, speranze, timori! Chi passa vicino ad una scuola ha l’impressione come di sfiorare un alveare, dove un leggero e continuo ronzio lascia intuire un intenso lavoro: «Fervet opus!» – direbbe Virgilio, il poeta latino. Alunni, insegnanti, personale della scuola, genitori: tutti impegnati in progetti di crescita, di informazione e di cultura.
Ed ecco il buon miele! Del buon miele si avvantaggia tutta la società che si attende “uomini nuovi”; la scuola ricorda che non si finisce mai di imparare e che si può essere maestri di vita gli uni per gli altri ad ogni età. La vita stessa è una scuola!
Anche la comunità cristiana è attenta alla scuola: una persona che si affina culturalmente è facilitata nella ricerca spirituale, giacché il sapere ha molto a che fare con la fede.
Ogni anno, il 4 ottobre, la comunità cristiana si avvicina alla scuola con particolare affetto e interesse. È una giornata… ma per risvegliare un permanente impegno di partecipazione. La Giornata “per la scuola” si è trasformata in una Giornata “con la scuola”. Nel rispetto dei suoi tempi e dei suoi spazi si entra in punta di piedi in quell’alveare per un breve incontro. Quest’anno si porta in dono un segnalibro con il messaggio del Cantico delle Creature di San Francesco d’Assisi.
Ai genitori e agli insegnanti si propone il 2 ottobre (ore 17.30 nel Teatro parrocchiale di Novafeltria e ore 21 nella Sala del Castello di Domagnano, RSM) una conferenza con dibattito tenuta dal Dott. Ezio Aceti sulla educazione affettiva.
Agli studenti delle Superiori si offre uno spettacolo teatrale che ha per soggetto la celebre vicenda di un gruppo di giovani che si oppose al nazismo (“La Rosa Bianca”).
Per la formazione culturale delle nuove generazioni sono necessari percorsi e strumenti di educazione alla dimensione religiosa che non può mancare in un umanesimo integrale. Sia nelle scuole della Repubblica sammarinese che in quelle italiane viene garantito l’insegnamento della Religione, come vera e propria materia curriculare a cui aderisce il 98% degli alunni (è possibile anche “non avvalersi”). Si insegna Religione Cattolica perché la nostra popolazione, nella quasi totalità, professa la fede cattolica e da essa sono profondamente e felicemente segnate le sue tradizioni, la sua cultura, le sue istituzioni.
Il corso di Religione Cattolica, svolto non come catechesi, ma come vero e proprio insegnamento scolastico, prevede nei programmi ampi spazi anche per la conoscenza delle Grandi Religioni e delle esperienze spirituali dell’umanità. Didatticamente il metodo del confronto, Religione Cattolica e Religioni, si dimostra utile per valutare e fare apprezzare le caratteristiche di ogni cammino dell’uomo verso Dio.
Poiché l’insegnamento di Religione è propriamente cattolico, si richiede a chi lo imparte una qualifica che viene normalmente rilasciata da un Istituto Superiore di Scienze Religiose con l’approvazione dell’autorità ecclesiastica.
Non resta che augurare a tutti un buon cammino pieno di sorprese e di incontri significativi.
Ci accompagnino anche quest’anno le cinque parole che ci siamo dette lo scorso anno “per una scuola che vorremmo”. Accoglienza: vorremmo una scuola in cui si è accolti e in cui si impara ad accogliere gli altri; un luogo nel quale ognuno è valorizzato come “persona”, al di là della performance, dove non si conta per i voti ma per quello che si è. Incontro: sogniamo una scuola capace di mettere in luce le risorse di ciascuno e di riconoscere e di rispettare i diritti dei più deboli, dove si provano lo stupore e l’incanto della bellezza. Scoperta: auspichiamo una scuola in cui si scoprano i propri talenti e la ricchezza racchiusa in ogni cuore e in ogni intelligenza; uno spazio educativo dove la luce e il clima che si respira fanno sbocciare e dischiudere i germi presenti in ogni persona. Impegno: ognuno va a scuola consapevole di fare una scelta libera di impegno nella convinzione che il sacrificio è un investimento per il futuro e per affrontare le sfide della vita. Cittadinanza: auguriamo alla scuola di essere un luogo in cui si impara a diventare cittadini, ad approfondire le ragioni della convivenza e la convivenza delle ragioni; dunque una scuola inclusiva, laboratorio di reciprocità e di accoglienza.

+ Andrea Turazzi
Vescovo di San Marino-Montefeltro

Omelia nella liturgia eucaristica per l’investitura dei Capitani Reggenti

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Basilica di San Marino (RSM), 1 ottobre 2015
 
Ne 8,1-4.5-6.7-12
Sal 18
Lc 10,1-12

Fratelli e sorelle,
un ringraziamento ed un augurio: buon lavoro ai Reggenti eletti; grazie ai Reggenti che passano il testimone. Nei sei mesi nei quali sono stati in carica hanno vissuto, con tutti noi, momenti particolarmente significativi come l’intervento all’ONU del 26 settembre scorso, la visita alla città di Arbe in Croazia a cui ci lega l’origine del nostro santo patrono e tanti altri incontri istituzionali (al principato di Monaco, all’Expo di Milano, ecc.). Ma non meno importanti gli incontri con la gente, con i ragazzi, con i giovani, con le persone ammalate e disabili, come nello scorso luglio a Loreto.
La prima Lettura ci riferisce di una solenne liturgia di popolo. Si rinnova l’alleanza Dio-Israele. Neemia, il brillante governatore, convoca in assemblea tutto il popolo e, insieme al sacerdote Esdra e ai leviti, dà lettura del Libro della Legge o del patto. E il popolo ascolta, partecipa e si commuove. Rinnova il suo “sì”. Le mura, ricostruite dopo l’esilio, non solo difendono la città, ma fondono insieme gli abitanti di Gerusalemme e ne fanno una cosa sola: «La nostra carne è come la carne dei nostri fratelli, i nostri figli sono come i loro figli» (Ne 5,5). Non è questa nostra assemblea simile a quella convocata da Neemia? Non siamo anche noi riuniti per una rinnovazione?
Mi prende questa mattina il desiderio di accompagnarvi, virtualmente, per le pendici del Titano. Poi vorrei sostassimo un attimo sui sagrati e nelle chiese sammarinesi che, come altrettante stelle di una costellazione, trapuntano il nostro territorio. Balza con evidenza quanto la fede cristiana abbia segnato la nostra storia, il nostro popolo, le nostre istituzioni. Sullo sfondo del tempo che corre inesorabile, le chiese rimangono come secolari sorgenti ancora fresche e zampillanti a cui tanti (adulti e giovani) attingono. Alcune chiese sono particolarmente vistose, altre umili e quasi nascoste nel groviglio urbanistico dell’antica Repubblica. In ognuna palpita il mistero che ci avvolge. Il cristiano vi ritrova i segni eloquenti della sua fede. Chi è di altra convinzione o cultura può godervi il silenzio e la pace necessari come il pane. La fede cristiana, con le sue radici e la sua chioma ancor verde e carica di frutti, si propone a tutti come un dono di amicizia. Dispiace quando una malintesa laicità non apprezza, o addirittura contrasta. In ogni chiesa ci si sente avvolti da pareti che abbracciano come pareti domestiche. E, in questi giorni difficili, qui ci si ritrova nei sentieri della preghiera, alla ricerca d’essere amati. Ci sarà qualcuno che ci vuole bene? Con le braccia spalancate esprimiamo il desiderio di non restare soli e nel contempo rivolgiamo l’invito ad ogni prossimo di sentirsi a casa sua in casa nostra. Perché figli dell’unico Padre. Si apre qui il grande tema dell’accoglienza che interpella coscienze e scuote la politica.
E c’è una casa più grande della quale siamo tutti inquilini, o meglio, nella quale siamo tutti fratelli, la creazione. Papa Francesco ha indirizzato la sua ultima lettera “Laudato si’” per rilanciare un appello: «Cosa sta succedendo nella nostra casa comune?». «In quali condizioni la vogliamo lasciare ai nostri figli?». Il Papa ci ricorda la centralità dell’uomo, la sua responsabilità e la sua dignità e, con molta schiettezza, ci segnala come spesso tocchi ai poveri pagare il conto – e un conto salato – di un dissennato uso della natura.
Per chiudere condivido con voi due affermazioni dell’Enciclica che mi hanno colpito: «trasformare in sofferenza personale quello che sta accadendo al mondo» (LS 19) e che «la sfida urgente di proteggere la nostra casa comune comprende la preoccupazione di unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale, poiché sappiamo che le cose possono cambiare» (LS 13).
Possono cambiare a partire dalla forza della preghiera. Preghiamo.

Omelia della XXVI Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Santuario B.V. Grazie Pennabilli, 27 settembre 2015 

Giornata unitaria dell’Azione Cattolica diocesana

Num 11,25-29
Sal 18
Giac 5,1-6
Mc 9,38-43.45.47-48

Ci sono strumenti che suonano anche fuori dall’orchestra. E suonano pure bene… Lo Spirito Santo, gran compositore, affida ad ogni persona che viene in questo mondo una partitura di cielo (ogni persona ha, anzi, è una parola originale da dire). Giovanni, l’apostolo prediletto, soprannominato «l’aquila», chiamato da Gesù «il figlio del tuono», è ancora figlio di un piccolo cuore: protesta perché c’è uno che fa miracoli pur non essendo dei nostri. Si sbaglia. Il suo errore, anche oggi e forse pure nella nostra comunità, è in agguato: si tratta dello spirito di gelosia, di intransigenza e di settarismo. “Non è dei nostri”, “non è iscritto”, “non la pensa come noi”…
Ci è stato ricordato (Concilio Vaticano II) che la Chiesa non esiste per se stessa, ma per servire l’uomo; e una delle forme  più squisite di servizio consiste nel far emergere l’azione dello Spirito anche oltre le istituzioni: il Regno di Dio è più grande dei nostri recinti. E’ un nostro compito mettere in evidenza “il Vangelo che c’è” nell’impegno di tanti fratelli della porta accanto.
Da quale azione viene diffidato lo sconosciuto capace di miracoli? Ha liberato un uomo dal suo demonio. Anche a Gesù è stata fatta una critica analoga: Non ti è lecito guarire di sabato. «Niente miracoli di sabato! Avete sei giorni per farvi curare…». E’ proprio vero che la legge è più importante della guarigione di un fratello? E’ così pericoloso creare un precedente? E’ cosa da poco che un malato ritrovi il sorriso? Gesù insegna che la persona vale più di qualsiasi valutazione. Chiunque dà un sorriso, un sorso d’acqua e fa del bene, è dei nostri! C’è chi è di Cristo e non lo sa; c’è chi accoglie angeli senza saperlo (Ebr 13,1); c’è chi lotta contro i demoni di oggi e dà vita, libertà, futuro alla propria gente, alla propria famiglia. Forse, ad uno soltanto… (la ricompensa non è proporzionata alla prestazione). Ci sono profeti anche fuori dall’accampamento (cfr Num 11,29)!
Ci può essere il caso di un occhio o di una mano che scandalizza. Gesù adopera un linguaggio estremo per ricordare la serietà della posta in gioco: è davvero possibile fallire la propria vita. La soluzione non è la mano tagliata, ma la mano convertita (E. Ronchi). Ad esempio la mano che porge un bicchiere d’acqua fresca a chi non è dei nostri! C’è chi non riesce a vedere nella nostra comunità una famiglia… San Giovanni della Croce risponderebbe: Non c’è amore? Metti amore.
Potremmo pensare, con un certo disappunto, che non serve essere cristiani, se basta amare. Rallegriamoci invece della infinita generosità di Dio che dona a tutti il suo Spirito, come auspicava Mosé (cfr la prima lettura).
Dobbiamo con questo lasciare ognuno tranquillo nella sua convinzione e smettere di promuovere la fede in Cristo, dal momento che ci si può salvare anche in altri modi? No, perché la missione non è riscattare un mondo interamente dominato da Satana, ma riconoscere le scintille di bene da chiunque compiute, incoraggiarle e soprattutto far loro scoprire la sorgente di ogni bene, del coraggio, della donazione.

Omelia della XXV Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Falciano (RSM), 20 settembre 2015

Sap 2,12.17-20
Sal 53
Giac 3,16-4,3
Mc 9,30-37

Gesù sta annunciando sommessamente, ma con schiettezza, il suo destino agli amici più cari, ma l’annuncio rimbalza come su un muro di gomma. Quegli amici, infatti, sono alle prese con le loro beghe: precedenze, carriera, classifiche: Chi è il più grande tra noi? Si aspettano allora che Gesù li sgridi. E invece Gesù non solo non proibisce né demonizza il desiderio di voler essere “il primo”, ma lo incoraggia. Solo rivela una via nuova e diversa per realizzarlo: non a spese degli altri, ma a favore degli altri: Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo e il servo di tutti. E Gesù dà un esempio: compie un gesto di sorprendente tenerezza e di delicata pedagogia. Mette un bambino nel mezzo, lo abbraccia e – possiamo immaginare – gioca con lui: “tutto il Vangelo racchiuso in un abbraccio” (E. Ronchi).
Pagina provvidenziale per l’inizio della vita pastorale in diocesi, nelle parrocchie, nei gruppi, dopo l’estate. In altra pagina del Vangelo – l’abbiamo letta nella settimana scorsa – troviamo Gesù, ancora una volta, alle prese con i bambini: li osserva attentamente mentre giocano sulla piazza e paragona i suoi ascoltatori a quei ragazzi che non si lasciano coinvolgere nel gioco dei coetanei. Mancano di accoglienza e disponibilità.
E noi siamo accoglienti? Partecipiamo al “gioco” che impegna la comunità o preferiamo starcene neghittosamente ai “bordi del campo” a guardare e, Dio non voglia, a criticare? La diocesi ogni anno aggiorna il suo programma, collega le iniziative ad un tema, ripropone cose di sempre e cose nuove. Anche se non è possibile prendere parte ad ogni proposta, portiamo tutto nel cuore e nella preghiera. Intanto facciamo il punto sulla nostra disponibilità all’accoglienza. Sono ormai trascorse un paio di settimane dopo l’invito di papa Francesco alle nostre comunità per farsi carico dei profughi: un movimento che di giorno in giorno si fa più travolgente, una questione che mette in crisi l’Europa. L’appello del papa ci ha scosso; ci si sta interrogando concretamente; si attendono linee d’orientamento.
Gesù ci chiama a “giocare” con lui, con lo slancio dei ragazzi. Giovanni, nel Prologo, annuncia che Dio: A quanti l’hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli. E di loro, in un altro passo, viene detto che accogliendo i fratelli, hanno accolto degli angeli senza saperlo (cfr Eb 13,2).
L’accoglienza è un atteggiamento concreto fatto di ascolto attento a chi parla, di disponibilità a comprendere e, soprattutto, di servizio gratuito: «il tuo problema è il mio problema; mia la tua gioia, mio il tuo dolore; sono con te…». Un programma irraggiungibile? Ci aiutiamo. Una persona mi confidava la sua delusione per non essersi sentita accolta e capita, proprio in parrocchia, nella sua parrocchia. Ho provato a minimizzare quelle disattenzioni come “scivolate”, semplici cadute di stile. Ma nel cuore ho esclamato: «Mio Dio, che la parrocchia non diventi una pista di pattinaggio!!!».

Omelia della XXIV Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Borgo Maggiore (RSM), 13 settembre 2015

Is 50,5-9
Sal 114
Giac 2,14-18
Mc 8,27-35

La vostra parrocchia oggi festeggia san Giovanni Bosco. Nel preparare il commento al Vangelo mi sono messo nei suoi panni: come aggancerebbe l’attenzione dei presenti? Credo partirebbe dall’esperienza per condurre tutti, giovani e adulti, ad un rapporto sempre più personale con Gesù. Ci provo.
M’è capitato di sfiorare una coppia in un momento di alta tensione. Ad un certo punto, tra i due, è partita, come una schioppettata, una domanda: «Ma allora… chi sono io per te?». Ammetto che questa esperienza ha condizionato la mia meditazione su questo passo del Vangelo.
Con Gesù, solitamente, ho un rapporto confidenziale. Ma improvvisamente è sceso nell’anima un velo di imbarazzante soggezione. Mi sono sentito messo alle corde nuovamente da lui: «Chi sono io per te?».
Come interpretare la domanda? Minaccia? Protesta? Denuncia di un rapporto troppo abitudinario? Richiesta di un serio esame di coscienza? Ho trovato verità in ciascuna di queste possibili interpretazioni. Poi ho riletto con più umiltà. Dal contesto ho realizzato che Gesù non si accontenta delle frasi fatte o dei “si dice”. Figuriamoci poi dei sondaggi d’opinione! Che cosa dice la gente di me? Gesù pone, in realtà, una domanda molto personale che fa vivere la fede scuotendola dal suo torpore, una domanda che risveglia l’amore: Ma voi chi dite che io sia? Come se dicesse: «Io sono importante per te?». Constato e rispondo a mia volta: «Allora anch’io conto per te, Signore!».
Torno alla domanda di Gesù. Una domanda – ha scritto un commentatore – da custodire e da amare, perché il Signore (è una costante nei Vangeli) educa alla fede attraverso domande: tu, con il tuo cuore, la tua storia, il tuo peccato e la tua gioia, tu cosa dici di Gesù? (Faccio notare come Gesù risponde a chi gli chiede quale sia il comandamento più importante: ama – dice – con tutto il tuo cuore, con tutte le tue forze, etc., dove l’enfasi è sul possessivo “tuo”, “tue”, etc.). Mi passano davanti i volti di Zaccheo, Nicodemo, Maria di Magdala, del discepolo sordomuto, i volti dei Dodici…. Talvolta aiuto i partecipanti alla messa – soprattutto se ragazzi – nel fare il ringraziamento dopo la Comunione: suggerisco parole che chiamo la preghiera del nome. Consiste nell’immaginare che Gesù mi chiami personalmente per nome; qualche minuto dopo, immaginare che io chiami Gesù per nome. La Bibbia è piena dei nomi del Signore: pastore, sorgente, acqua viva, luce, via, verità, fuoco, amante, amico… La teologia ne ha esplorati tanti altri; meno metaforici e più astratti. Ma Gesù è curioso di sapere come io lo chiamo, adesso e quale sia il nome che viene dal profondo del mio vivere e del mio cercare.

Omelia della XXIII Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Santa Maria d’Antico, 6 settembre 2015

Is 35,4-7
Sal 145
Gc 2,1-5
Mc 7,31-37

Chiedo venia per il tono un po’ autobiografico e simbolico di questo commento al vangelo (un tono del genere lo si ritrova in alcuni commenti patristici ben più autorevoli). Tuttavia più di un ascoltatore si ritroverà nella mia esperienza…
Ho trovato in questa pagina di vangelo l’antidoto per la mia povertà di parola: consiste nell’avere un cuore che sa ascoltare: lo chiedo al Signore. A volte, infatti, faccio l’esperienza di non sapere che cosa dire. Non solo al microfono, ma anche nei colloqui confidenziali. Sono un po’ come il sordomuto: non parlo perché non “sento”, non ascolto col cuore. C’è silenzio e silenzio… Qui alludo al silenzio imbarazzato e troppo presto riempito da “parole di circostanza” allorché non so fare “il vuoto” e non so entrare nel mondo dell’altro. “Non c’è tempo”, “ho in testa altro”… scuse! Gesù guarisce il sordomuto. Fa così: lo porta fuori dalla folla e dalla confusione. Stabilisce un rapporto personale, a tu per tu. Gli accarezza orecchi e bocca. Tutto avviene con un contatto corporeo: il Vangelo parla di saliva, dita della mano, orecchi, bocca… C’è un coinvolgimento empatico: sospiro, sguardo verso l’alto, grido. «Effatà!»: non è una formula magica come fa pensare il suono misterioso della parola, ma trascrizione dell’imperativo aramaico: «apriti!». L’effetto è immediato. Quell’uomo si mette a parlare correttamente. E’ stato restituito alla relazione. Gesù ha debellato una patologia, ma soprattutto ha abilitato un discepolo alla comunicazione, insegnandogli i passaggi necessari per il cammino più importante della vita. Di quel sordomuto guarito non si è saputo più nulla: non il nome, non la professione, non le frequentazioni. L’immagino, dopo quel fortunato incontro, uomo di rapporti profondi: Gesù gli ha insegnato ad ascoltare. Ad ascoltare col cuore. Lo penso desideroso di trattare gli altri come Gesù ha trattato lui. L’immagino missionario: capace di prendere la parola nella quotidiana trama dei rapporti e incapace di tacere davanti all’ingiustizia che colpisce i compagni di viaggio. L’immagino aperto: «Parla, sento!»… aperto verso il suo prossimo. Aperto verso il mistero di Dio che si è fatto visibile e corporeo in Gesù di Nazaret. Oso una domanda all’anonimo discepolo guarito: «Chissà com’era il sapore della saliva di Gesù…». Mi risponde sorridendo: «Quel sapore non l’ho più dimenticato, ma lo ritrovo ogni volta che mi accosto ai sacramenti. Soprattutto nel dolce sapore del Pane eucaristico».

 

Omelia XIX Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Dovadola (FO), 9 agosto 2015
Celebrazione in ricordo della Venerabile Benedetta Bianchi Porro

1Re 19,4-8
Sal 33
Ef 4,30-5,2
Gv 6,41-51

Stiamo leggendo un’altra pericope del lungo discorso sul pane della vita tenuto da Gesù nella sinagoga di Cafarnao (cfr. Gv 6). Gesù afferma chiaramente di essere il pane adatto e indispensabile per la fame dell’uomo. Una pretesa? Il pane che ha saziato i cinquemila è solo un segno della risposta alla nostra fame di senso, di futuro, di autenticità. Persino i vuoti di Dio (dubbi, inconsistenze, fragilità, peccati), se offerti umilmente come “ceste di fame” diventano vuoti per Dio che Gesù colma con sovrabbondanza (sono rimaste dodici ceste di pani avanzati!).
Ma gli ascoltatori sono scettici. Vedono Gesù come uno di loro, profeta – senza dubbio – dotato di poteri particolari (hanno assistito alla moltiplicazione dei pani), ma pur sempre un uomo. Ne conoscono le umili origini, il padre e la madre. Come può dire: Sono disceso dal cielo? Gesù tana il mormorio sommesso dei suoi ascoltatori: non mormorate, dice. La prima forma della mormorazione è il chiacchiericcio alle spalle di qualcuno come indisponibilità a fidarsi. Mormorazione (ed è quella cui fa riferimento l’evangelista) fu quella degli Ebrei nell’Esodo, scontenti persino del dono quotidiano della manna. Mormorazione è l’incredulità dei contemporanei di Gesù di fronte alla sua pretesa di venire dall’alto: una pretesa “eccessiva” a riscontro della sua così umile e normale condizione.
La manna è il dono di Dio che fa seguito alle proteste di un popolo dalla dura cervice; eppure questo dono ha permesso agli Ebrei di sopravvivere per quarant’anni nel deserto. Ma la manna non era che un’immagine del vero pane che viene dal cielo: dono totalmente gratuito di Dio. Questo pane è Gesù. Nutrirsi di questo pane vuol dire credere in lui, nutrirsi della sua Parola e della sua Eucaristia. Come la manna doveva essere raccolta e consumata in giornata, così ci è chiesto di nutrirci del pane di vita ogni giorno… anche nei giorni della vacanza!
Gesù sta parlando anche a noi ed alla nostra scarsa fiducia nel credere che lui veda, venga e possa cambiare le cose… Gesù invita alla fede: Credete in Dio e credete anche in me. Così dicendo, si colloca nell’ambito concreto della relazione e dell’amicizia, come facciamo anche noi quando, amando una persona, gli diciamo: io ti amo e so di amarti. Non ci sono prove “scientifiche”. Tutto si gioca sulla fiducia. La risposta di chi si fida è la gratitudine. Il salmo 32, che preghiamo nella liturgia di questa domenica, è uno stupendo rendimento di grazie sulle labbra di chi non è stato deluso. E’ la preghiera di un cuore colmo di Dio: Benedirò il Signore in ogni tempo, la sua lode per sempre sulle mie labbra… Gustate e vedete – continua – come è buono il Signore. È un invito a sperimentare il sapore di Dio attraverso la dolce energia che ci comunica, la pace che ci infonde. Affamati, siamo stati saziati. Saziati, gustiamo. Il Signore è buono! Buono come un pane fresco. Buono come un sorso d’acqua pulita. Buono come un’amicizia schietta e sicura.

Omelia XVIII Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di Pennabilli, 3 agosto 2015

Es 16,2-4.12-15
Sal 77
Ef 4,17.20-24
Gv 6,24-35

Sulle tracce di Gesù

Il Vangelo di questa domenica risponde in pieno alla nostra situazione di cercatori. Il racconto si apre con la descrizione della gente che va alla ricerca di Gesù. Si tratta di una vera e propria spedizione organizzata: una piccola flotta di barche affronta la traversata del lago.
La ricerca è l’atteggiamento tipico del discepolo.
Così fu per i primi. Gesù domandò: Cosa cercate? Maestro, dove abiti?, fu la loro risposta (Gv 1,30). Così a Maria di Magdala il mattino di Pasqua, davanti alla tomba vuota: Chi cerchi? (Gv 20,15). Al desiderio profondo che alberga in ogni cuore fanno riscontro le struggenti invocazioni bibliche: O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia (Sal 63,1). Con tutto il cuore io ti cerco (Sal 119,10). Cercate il Signore e la sua potenza, cercate sempre il suo volto (Sal 105,4). Alcuni anni fa i vescovi italiani hanno diffuso una nota molto bella sull’argomento. Una nota da rileggere: Lettera ai cercatori di Dio (13.5.2009).
Lo dico da cercatore: mettersi sulle tracce di Dio è, innanzitutto, una risposta al suo amore, che sempre precede. E’ lui che, per primo, s’è messo alla ricerca di noi. Dove sei? chiede ad ogni Adamo nascosto nel giardino (Cfr Gn 3,9). E Gesù per qual motivo è venuto sulla terra se non per cercare le pecore perdute? Donaci Signore di cercarti come tu hai cercato noi: Tu ci hai fatti per te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te (s. Agostino, Confessioni, I,1).
Non sorvoliamo su un dettaglio. Per trovare Gesù bisogna passare all’altra riva. Tra noi e lui c’è di mezzo il lago. Ci vuole coraggio e un po’ di azzardo. Gesù ha svelato la presenza di Dio ma anche la distanza di Dio. La folla ha compiuto la traversata, ma ha fatto il vero passaggio, il passaggio della fede? Voi mi cercate perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Ma il vero pane – continua Gesù – non è quello di ieri, né la manna. Il vero pane sono io! Gesù ci interpella sulla qualità della nostra ricerca: cerchiamo lui o i suoi doni? Amiamo lui o i suoi favori? Il libro “Imitazione di Cristo” dice: Gesù trova molti che amano il suo regno di gloria, ma pochissimi che vogliono portare la sua croce; molti che bramano le sue consolazioni, pochi che amano le tribolazioni; trova molti che partecipano al suo banchetto, ma pochi al suo digiuno; tutti bramano godere con lui, pochi vogliono per lui offrire qualcosa…

Omelia per la solennità di San Leo

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di San Leo, 1 agosto 2015

Prima caratteristica di San Leo, messa in luce dalla liturgia, è la provenienza lontana: Leo è un esule, un migrante a causa del Vangelo. Il Signore l’ha fatto uscire dalla sua patria (Arbe in Dalmazia, l’attuale Croazia) e dalla casa di suo padre. Il Vescovo di Rimini, Gaudenzio, lo invia sui monti dell’entroterra per portarvi l’annuncio di Gesù Risorto. Non facciamo fatica a vedere nella sua vicenda l’avventura spirituale di Abramo: «Vattene dal tuo paese, dalla tua patria, e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, diventerai una benedizione». Allora Abramo partì come gli aveva ordinato il Signore (Gn 12,1-4).
Noi, raggiunti dalla sua predicazione, siamo innestati nel popolo della benedizione che ha ricevuto da messaggeri del Vangelo la raccomandazione dell’affabilità verso tutti, della letizia che proviene dalla confidenza nel Signore, della preghiera di supplica e di ringraziamento, della ricerca di ciò che è vero, nobile, puro, amabile, onorato (cfr. Fil 4,4-9).
Chiediamo a San Leo di ottenerci tanti ministri, annunciatori miti e forti del Vangelo. Annuncio solennemente da questa Cattedrale l’ordinazione presbiterale di un nostro seminarista, il diacono don Pier Luigi Bondioni. Sarà ordinato sabato 3 ottobre alle ore 16 a Pennabilli.
A voi chiedo di pregare per lui e di fargli già posto nel vostro cuore (cfr. 2Cor 7,2). A lui ribadisco: qui non si ricercano posti in vista, carriera e, men che meno, sistemazione e ricchezza. Sarà un apostolato spesso itinerante, data la situazione. Caro don Pier Luigi, proponiti una vita apostolica, semplice, tra la gente, con preferenza per gli ammalati, per i ragazzi e per i giovani. Contribuisci a fare del presbiterio una sola famiglia col vescovo e a sentire gli altri preti non come colleghi ma come fratelli.
Il Vangelo di oggi tratteggia la figura del saggio architetto che costruisce la casa sulla roccia. Chi ha scelto questa pagina evangelica ha pensato certamente alla collocazione ardita di questa Cattedrale sulla pietra e all’opera di San Leo che fonda la comunità sulla solida roccia dell’amore di Dio.
Attualizzando, vorrei sottolineare l’urgenza di costruire la famiglia sulle solide basi degli insegnamenti del Signore, così corrispondenti, del resto, al sentire di una serena ragionevolezza. Vento e tempesta non sono risparmiate a nessuna casa, a nessuna famiglia. Fa la differenza su che cosa è fondata. È l’esperienza stessa di famiglia che va rilanciata. È il grande dono sacramentale del “principio” che va annunciato in tutta la sua bellezza: «Da principio il creatore li fece maschio e femmina e disse: per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne» (Mt 19, 4-5). Questo è il compito del prossimo Sinodo dei vescovi. Anche dalla nostra diocesi è stata significata la volontà di partecipazione. Sul mensile diocesano Montefeltro abbiamo lanciato lo slogan: “entriamo anche noi in sinodo”. Con il nostro interessamento, con il nostro contributo scritto, con la preghiera, siamo effettivamente presenti. Annuncio un’iniziativa: un segnale forte. Nel mese di ottobre chiedo ad ogni famiglia di pregare ogni giorno il Rosario o parte di esso. Il parroco individuerà un drappello di messaggeri che consegneranno ad ogni famiglia, con un breve saluto, il dono della corona del Rosario. Tutti in preghiera per la famiglia.
E tu, San Leo, prega per noi.

Omelia alle esequie di p. Adriano Somma

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Valdragone, 31 luglio 2015

Somma p. Maria Adriano dei Servi di Maria a Valdragone
Nato a Arta Terme (Udine) il 15 gennaio 1931
Ordinato sacerdote a Saluzzo (Cuneo) il 29 giugno 1956
Superiore del Convento Santa Maria dei Servi (Valdragone) dal 2005
Servizio pastorale domenicale a San Giovanni sotto le Penne

Is 25, 6-9
Sal 22
Gv 14, 1-6

«Vado a prepararvi un posto».

Permettete che apra questa meditazione con un racconto autobiografico.
Negli anni del Seminario, a ciascuno di noi studenti, veniva affidato un posto: un posto in cappella, in refettorio, a scuola, in fila, nello studio, ecc.
Gli educatori, di tanto in tanto dettavano “posti” nuovi (il cambio del posto era sempre un avvenimento).
L’unica eccezione era ammessa il sabato sera quando, nel teatro del Seminario, si assisteva alla proiezione di un film. Qui non c’erano “posti obbligati”. Erano liberi. Ricordo la gioia quando uno dei miei compagni “mi teneva il posto”. Mi capitava di sentire: “È occupato per Turazzi” (ci si chiamava, per lo più, per cognome). È un lontano ricordo, ma ne faccio uso per dire l’effetto che provo nel leggere le parole forti di Gesù: «Nella casa del Padre mio vi sono molti posti… vado a prepararvi un posto». C’è un posto che Gesù riserva per me; per ciascuno. C’è il posto che Gesù ha riservato a padre Adriano. Il “posto” di cui parla Gesù non è un luogo come noi intendiamo in senso spaziale. Noi veniamo collocati – per così dire – nella “cubatura” dell’amore ricco di misericordia del Padre. Un luogo di cui Paolo scrive nella Lettera agli Efesini e di cui vorrebbe dire «la lunghezza, l’altezza e la profondità…» (cfr. Ef 3,18).
Nel colloquio intimo della preghiera e nelle situazioni più svariate della vita, come di fronte a questa bara, lasciamoci toccare dalle parole di Gesù: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede in me».
Parole necessarie, per colmare le nostre solitudini… ma non è vero che siamo soli, perfino i capelli del nostro capo sono contati (cfr. Mt 10,30). «Io sono ancora con te» (cfr. Sal 138,18) – dice il Signore, e come ci assicura nel Salmo: «Se dovessi camminare per una valle oscura, tu sei con me» (cfr. Sal 22).
Parole utili, per curare le nostre fragilità; mi distolgono dall’inconcludente ripiegamento su di me, mi aiutano ad andare oltre le mie piaghe.
Parole belle, per il tempo della nostra Pasqua, del nostro passaggio: il giorno sconosciuto, ma non lontano, della nostre morte.
Gesù ha indirizzato queste parole ai discepoli per prepararli al distacco da lui. Sono parole pronunciate per ciascuno di noi, lette chissà quante volte da p. Adriano, come da noi sacerdoti per ogni commiato.
Permettete una sottolineatura, un dettaglio di straordinaria tenerezza e misericordia: Gesù sale al Padre, ma non prenota stanze all’Inferno, perché non sa immaginarsi senza di me, senza di noi…
Ognuno riascoltando quelle parole può dire: Gesù è andato a preparare un posto per me; mi aspetta nella sua casa; mi vuole con lui. Non gli basta l’esercito di angeli che sono nel cielo, l’assemblea candida dei martiri e delle vergini. Non gli basta! Sentite le parole che pronuncia il Signore per ciascuna delle sue creature: «Se dovrai attraversare le acque, sarò con te… se dovrai passare in mezzo al fuoco, non ti scotterai […], perché tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima ed io ti amo» (cfr. Is 43,2.4).
Non dubitiamo certo della possibilità reale dell’Inferno, ma anche la Chiesa nel suo millenario cammino di verità non ha mai canonizzato la discesa di qualcuno all’inferno, mentre mi chiede di credere che migliaia di santi e beati popolano il Cielo.
È una casa vera quella nella quale siamo attesi, luogo di intense relazioni, non un regno di ombre. Una casa bella, non meno di quella dove è tornato il figlio prodigo, tra buona musica e danze (cfr. Lc 15,24-25). La casa nella quale il Signore stesso prepara «un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati […]. Eliminerà la morte per sempre. Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto» (cfr. Is 25, 6.8).
Ho aperto una conoscenza confidenziale con padre Adriano, in modo piuttosto singolare. Ero venuto qui al convento per chiedergli perdono: avevo dimenticato di citare la famiglia dei “Servi di Maria” nell’elenco delle comunità di vita consacrata presenti in diocesi. Fu molto sorpreso e poi benevolo, per nulla indispettito. Incoraggiato dal suo modo di relazionarsi aperto e ironico, sono tornato più volte, anche per rinnovare l’invito a partecipare agli appuntamenti diocesani. Non è mai venuto… ma mi offriva il convento come luogo per i nostri incontri presbiterali. La confidenza mi ha incoraggiato a stringere un patto con lui, ormai morente. Questo il patto: il primo di noi due che morirà porterà il saluto dell’altro alla Madonna. Penso che padre Adriano abbia portato il mio e il nostro saluto alla Madre di Dio!