Omelia XXVIII Domenica del Tempo ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Convegno delle famiglie a Novafeltria, 12 ottobre 2014
 
 
Is 25, 6-10
Sal 22
Fil 4, 12-14.19-20
Mt 22, 1-14
 
 

È la terza parabola del giudizio (dopo quella dei due figli e quella dei vignaioli omicidi).
Il tragico rifiuto di Gesù da parte dei capi della nazione giudaica apre la strada al nuovo popolo di Dio, a motivo dell’adesione di fede in Gesù.
Il nuovo popolo di Dio, la Chiesa, è tale non più in forza di una determinata appartenenza etnica e politica (cf. Israele storico), ma unicamente per la fede in Gesù e per la “nuova giustizia” che lo manifesta. È perciò un popolo variopinto: giudei e pagani, capi del popolo ed umili artigiani, uomini di prestigio e poveri, aristocrati della virtù e peccatori… piccoli e anziani.
Nella parabola Dio è paragonato ad un re; il tempo messianico ad una festa di nozze per l’erede al trono (i primi cristiani lo identificano con Gesù); la nazione giudaica agli “invitati” per eccellenza.
Ma ecco il dramma: Israele rimane sordo alla chiamata ed oppone un secco rifiuto a Gesù, un rifiuto talmente ruvido che il Padre, sdegnato, punisce severamente la grettezza degli invitati. I pagani e i peccatori diventano, nella nuova economia di salvezza, gli invitati di diritto.
Originariamente la parabola si concludeva qui.
Matteo invece, sollecitato probabilmente da una interpretazione troppo larga e quietista della parabola, serpeggiante fra alcuni cristiani dei primi tempi, ribadisce che non è sufficiente appartenere alla comunità della Chiesa e poi dispensarsi dalle esigenze della “vita nuova” evangelica! Dunque Matteo rielabora la parabola con il particolare della veste nuziale che tutti indossano entrando al banchetto, eccetto uno degli invitati. È vero che la chiamata al banchetto del Regno è gratuita, ma non si pensi che non abbia delle esigenze. Anzi, anche i chiamati devono vivere gioiosamente la “nuova giustizia”. La fede in Gesù è inseparabile dalla nuova esistenza morale che essa comporta. Credere a lui è seguirlo sulla via della croce, è impegno fattivo di testimonianza, è imitazione del maestro che dà la lezione del servo. Questo è l’insegnamento centrale della parabola e della sua appendice.
Dopo aver accolto tale insegnamento suggerisco due esercizi pratici per la settimana che ci aspetta. Il primo esercizio consiste nel porci idealmente ad un incrocio di strada, o in una piazza, o in qualsiasi luogo dove c’è via vai di gente e considerare come ognuna di quelle persone sia personalmente amata dal Signore, candidata alla sua amicizia e affidata alla mia responsabilità.
Il secondo esercizio è simile al primo: considerare come il Signore – il Signore che sente perfino il pianto di un bambino nel deserto – mi ha visto, mi ha amato con amore di predilezione, mi ha fatto suo e mi invia ai miei fratelli («Va’ dai miei fratelli» cf. Gv 20,17).
Questo è l’invito che rivolge a ciascuno. Questo è l’invito che il Signore rivolge ad ogni famiglia, ad ogni famiglia che vuole essere veramente aperta!

Discorso all’ingresso di don Giorgio Bernal Rey a Carpegna

Carpegna, 12 ottobre 2014

Cari amici di Carpegna,
sono lieto di trovarmi con voi questa sera per il succedersi, nella comunità parrocchiale, dei vostri pastori.
A don Pietro Stukus va anzitutto il mio pensiero e il mio ringraziamento: ha svolto fra voi un generoso ministero a favore delle vostre anime.
Dio sa ricompensare in abbondanza d’amore l’opera da lui compiuta. Tutti sentiamo di dovergli tanto ed eleviamo per lui auguri di spirituali consolazioni e grazie.
In successivi incontri mi ha confermato di sentirsi interiormente chiamato ad una vita di più intensa preghiera.
A don Giorgio formulo voti per le attese che precedono la sua venuta, attese da parte del Signore, da parte vostra e mia: attesa di dedizione e di attività, attesa di spiritualità e di intercessione, in collaborazione con tutta la nostra Chiesa particolare.
Che cosa deve fare un pastore?
Prendo ad esempio la giornata di Gesù come ce l’ha descritta l’evangelista Marco, detta la giornata di Cafarnao (cfr. Mc 1, 29-31). Sull’esempio di Gesù il pastore divide la propria giornata nella cura degli ammalati o nell’esercizio delle opere di misericordia adeguate ai tempi, nel raccoglimento della preghiera, in ore opportune, per sé e per i fratelli, nelle esigenze della predicazione e dell’evangelizzazione, soprattutto verso i giovani, i ragazzi, i bambini (i più bisognosi di Parola di Dio, ma anche di prossimità).
«Guai a me se non evangelizzassi», scrive San Paolo (1Cor 9,16). E quale evangelizzazione più efficace di quella di una vita santa, una vita che assomigli sempre più a quella di Gesù povero, casto, obbediente?
L’assillo di un pastore – caro don Giorgio – è quella di “farsi tutto a tutti”; farsi servo di tutti, per guadagnare il maggior numero di fratelli (non a sé, ma al Signore); farsi debole coi deboli, per guadagnare i deboli; farsi piccolo coi piccoli per guadagnare i piccoli; farsi tutto a tutti… (cfr. 1Cor 9, 15-22).
Un pastore d’anime, dopo tutta la sua fatica, non deve attendersi nulla per sé, si considera servo inutile (cfr. Lc 17, 10). Un pastore non può agire che per Dio, Dio solo potrà soddisfarlo, e Dio solo dovrà essere il suo premio.
Questo il dovere di un pastore. E i fedeli che cosa devono fare?
I fedeli devono mettere ogni impegno per formarsi e vivere in comunità, in comunità compatta, ben connessa, ben articolata (cfr. Ef 4, 16), con la disponibilità ad offrirsi secondo le necessità in attività catechistiche (non solo per l’iniziazione cristiana, ma anche per la maturità cristiana dei giovani e la perseveranza degli adulti), attività liturgica (ministri istituiti, canto e animazione dell’assemblea, dedizione alla propria chiesa e agli ambienti parrocchiali, ministri straordinari dell’Eucaristia), attività caritativa (cura dei poveri, degli ammalati, degli anziani, dei bisognosi, ecc.), attività apostolica (gruppi adulti, giovani, giovanissimi, ragazzi…), attività di orientamento e di pratica del senso critico sul mondo che ci circonda con formazione permanente nello spirito della Dottrina sociale della Chiesa, per un giudizio sul momento presente. Il tutto in comunicazione e in comunione con l’intera diocesi e col Vescovo.
I fedeli di una comunità devono animarsi ed esprimersi con spirito di evangelizzazione e di missionarietà, e di farsi a loro volta tutto a tutti, per guadagnare tutti, con le risorse indispensabili dell’amore e della preghiera, del rispetto dell’uomo, della sua dignità e dei suoi diritti.
Vorrei a questo punto richiamare il dovere di una comunità di non dimenticarsi delle vocazioni e del seminario, dell’apertura alle missioni.
Una comunità ecclesiale è una comunità cattolica – che si vuole cattolica! – e che si fa carico dei problemi della Chiesa e dell’umanità.
Infine è una comunità di fedeli che deve additare l’eternità e le sue prospettive e testimoniare la ricerca della “città futura”, di essere, quindi, segno di speranza con un comportamento di distacco e di gioia in questo mondo. Speranza e gioia di cui gli uomini sono assetati.

Caro don Giorgio, il tuo vescovo è qui con te; ti accompagna; pensalo vicino in ogni tua necessità o preoccupazione. Lui ti vuole soprattutto impegnato nell’assomigliare a Gesù: è a lui che hai ceduto il tuo cuore, la tua mente, le tue braccia, le tue mani…
Sei una sua presenza! Non ci siano gesti, parole, atteggiamenti che contraddicano il tuo vero essere. Sempre come Gesù servo: ieri vicario parrocchiale a Mercatino Conca – oggi amministratore parrocchiale qui in Carpegna – domani dove il Signore ti vorrà.

Cari parrocchiani, accogliete don Giorgio a cuore aperto. Fategli dono della vostra unità. La Chiesa e, nella Chiesa, la vostra parrocchia è ricca di carismi. I carismi sono dati per l’utilità comune e non per le divisioni. Ognuno sappia stare al proprio posto con fede, mai per mettersi in mostra o per protagonismo. Coltivate pensieri di collaborazione e di accoglienza.
In conclusione: ecco la missione di un pastore per la sua comunità; ed ecco la missione dei fedeli con il loro pastore, per la propria comunità.
La tua giovane età ti induca ad ascoltare più che a parlare, a confrontarti prima di ogni decisione importante con i confratelli, con i superiori e con il vescovo (“nihil sine episcopo”).
La tua giovane età non impedisca ai parrocchiani di trattarti col rispetto che si deve ad un ministro del Signore.

XXVIII Domenica del Tempo ordinario Sante Cresime

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Montegiardino, 12 ottobre 2014

Is 25, 6-10
Sal 22
Fil 4, 12-14.19-20
Mt 22, 1-14

Cari amici, cari genitori,
questi ragazzi hanno terminato il percorso dell’iniziazione cristiana; sono adulti nella fede. Un grande maestro della Chiesa antica ci ha lasciato questa testimonianza: vedeva i cristiani che uscivano dalla chiesa come leoni con lingue di fuoco – “tamquam leones ignes spirantes” – per incendiare d’amore la città. Forse Leone Magno – così si chiamava quel maestro – aveva letto una pagina stupenda della Bibbia, quella del giovane Sansone che, per sconfiggere i Filistei, nemici di Israele, catturò trecento volpi; poi prese delle torce, le legò alle code delle volpi, le accese e le mandò nei campi di grano dei Filistei. La Bibbia dice che ci fu un grande incendio che si estese anche oltre i campi di grano (cfr. Giud 15, 4-6).

Ricevendo la Cresima, voi ragazzi diventerete come le nostre volpi lanciate alla conquista, una conquista di amore, di bontà. Voi direte: “Ma io sono solo un ragazzo, solo una ragazzina, che cosa posso fare?”. Invece noi vediamo e crediamo che la potenza del Signore scende su di voi (è per questo che oggi facciamo tanta festa per voi). Tra poco il Vescovo stenderà le mani su di voi come facevano gli apostoli; il Vescovo è un successore degli apostoli. Se siete uniti al Vescovo, siete uniti agli apostoli; se siete uniti agli apostoli, siete uniti a Gesù. Se uno pensa di essere cristiano benché disunito dal Vescovo è disunito dagli apostoli e quindi da Gesù. Come nel cenacolo il Vescovo invocherà la potenza dello Spirito Santo perché discenda su di voi. Poi, profumerà la vostra fronte con il Crisma, simbolo dello Spirito invisibile e impalpabile. La sua fragranza tuttavia colmerà di ebbrezza questo luogo e soprattutto le vostre persone.

Vorrei fermarmi su una parola del Vangelo di oggi. Racconta di un re che ha una grande sala e non tollera sia vuota; non gli piace far festa da solo. Invita delle persone, ma si rifiutano, che peccato!… Verrebbe da dire “peggio per loro”, ma lui non si rassegna e manda i suoi servi a cercare gente per la sua festa. Manda noi, manda voi cresimati agli incroci delle strade, fra la gente. Immaginate di stare ad una rotonda nella strada che sale verso Montegiardino, oppure di sedervi in un angolo di una piazza su in città, a San Marino. Vedrete l’andirivieni delle persone: anziani che passeggiano, ragazzine “a cui piace di piacere”, ragazzi in moto fermi al semaforo pronti a partire, alcune signore che vanno a fare la spesa, una mamma con il suo bimbo nella carrozzella, qualche studente con i libri sotto il braccio, un parroco… Tutta quella gente è amata, tutti sono candidati alla festa di nozze. Per quanto mi riguarda, vorrei estirpare dal mio linguaggio la parola “lontani”, per indicare quelli che non vengono in chiesa, quelli che non praticano, quelli che hanno altra convinzione. Vorrei strappare questa espressione perché, dicendola, sembra che io sia un vicino e loro i lontani, mentre solo Dio sa chi è vicino e chi è lontano. E poi, come posso considerare “lontana” una creatura per cui il Signore ha dato la vita, una persona per cui il Signore prepara questa grande sala per far festa? Quando mi capita di andare in grandi assembramenti mi sorprendo a pensare che ognuna di quelle persone è unica, speciale, amata da Dio… che cosa posso fare per loro? Non grandi cose, ma posso offrire un sorriso, un’attenzione; posso non sottrarmi ad un atto d’amore richiesto. Anch’io sono “uno della folla” che attraversa la piazza, percorre la strada, scivola via veloce per i suoi affari. Anche le mie giornate sono concitate e la mia agenda fitta di impegni. Il Signore mi chiede un appuntamento. Che cosa rispondo al suo invito? E voi? Abbiamo spazio per lui? Oppure siamo così ripiegati su noi stessi da non accorgerci di chi ci passa accanto?

Grazie Signore, perché ci inviti nella sala grande e bella delle nozze. É questa bellissima chiesa, ornata di fiori, tutta pulita e in ordine…È così perché siamo attesi ogni domenica. D’ora in poi verremo non per un obbligo (non si va ad una festa per obbligo!), ma perché sappiamo che ci sarà un incontro speciale. Ciò che fa bella la Messa è la certezza che in essa incontriamo la persona viva di Gesù. Veniamo per amore, con gioia!

XXVII Domenica del Tempo Ordinario – Sante Cresime

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Pietracuta, 5 ottobre 2014
Is 5,1-7
Sal 79
Fil 4,6-9
Mt 21,33-43

(da registrazione)

Compiendo su di noi il segno della croce e dicendo “nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” abbiamo iniziato la Santa Messa nel modo più semplice ma anche più ricco possibile. Abbiamo sintetizzato l’essenziale della nostra fede: noi crediamo che Dio è Padre, Figlio e Spirito Santo. Mentre eseguiamo questo gesto è come se Dio Trinità Santa ci avvolgesse, ci stringesse forte nel suo seno.
A volte si sente dire che i cristiani, i musulmani, gli ebrei hanno, in fondo, lo stesso Dio… Sì, Dio è uno, e uno solo e, chi lo nomina, nomina l’Altissimo; ma noi sappiamo che Dio, come ce l’ha presentato Gesù Cristo, è qualcosa di straordinariamente unico e originale. Dio è comunione: un Dio solo (non siamo politeisti!), ma in tre Persone, un grande mistero.
Invito ad immaginare un’intervista al Padre. Alla domanda: “Chi sei?”, sorprendentemente risponde: “Io non sono, sono vuoto di me; sono tutto rovesciato verso il «tu» che mi sta di fronte, quello che voi chiamate il Figlio”. Chiediamo la stessa cosa al Figlio e lui risponde: “Io non vivo per me, sono rivolto in uno slancio d’amore verso il «tu» che mi sta di fronte che voi chiamate il Padre” e lo Spirito Santo dice altrettanto: “Io non vivo per me, vivo per il Padre e il Figlio”. Il fatto che lo Spirito sia inimmaginabile, invisibile, sta a dire la trascendenza della divinità. Usiamo delle metafore, delle similitudini per parlare di lui, perché è necessario avere codice per raccontare. Gli antichi avevano inventato anche una formula; dicevano che ciascuna delle tre divine Persone non ha l’inseitas. Le tre divine Persone vivono una per l’altra, trovano la loro consistenza, l’inseitas, nella relazione. È il grande mistero dell’unità nella diversità delle tre divine Persone. Ebbene il Signore vuole introdurre anche noi in quella vita trinitaria. La vigna di cui abbiamo sentito il canto nelle letture è il grembo della Trinità santa.
Dopo aver visto i tramonti nel Montefeltro ho un’altra immagine per raffigurarmi la Trinità. Un giorno ero sulla rupe di Pennabilli all’ora del tramonto e ho visto il disco solare che, dopo il temporale, stava per scendere giù nell’orizzonte; è sparito pian piano, finché non l’ho più visto, ma i suoi raggi, sparati nel cielo, nel contrasto con le nubi, erano luminosissimi. Poi mi sono guardato le mani e le ho viste rossastre. Questa è una bella metafora della Trinità: il Padre, che è la prima Persona della Trinità (per questo lo chiamiamo Padre) – come il disco solare – si spegne nel «tu» che gli sta di fronte e il suo «tu» (che noi chiamiamo il Figlio) è lo splendore della sua gloria, della sua luce – i raggi sparati nel cielo – ed io mi sentivo avvolto da un’aura che mi colorava e trasfigurava (la terza divina Persona, lo Spirito Santo). Mi sento parte di questo mistero. Allora ho guardato il Padre – l’ho guardato con la fede – e gli ho detto: «Tu sei l’amante, colui che ama»; Dio non è altro che amore. Il Verbo, splendore del Padre, il riflesso della sua bellezza (quello che noi chiamiamo il Figlio), è l’amato; in lui noi siamo; siamo una cosa sola con lui, quindi amati dal Padre con lo stesso amore col quale ama il Figlio. Lo Spirito Santo è il bacio. Tra poco la vostra chiesa di Pietracuta diventerà un cenacolo dove la Trinità santa vi avvolgerà e il Padre e il Figlio imprimeranno sulla vostra fronte il Bacio. Vorrei che vi svegliaste domattina con questo pensiero: “A svegliarmi è la forza di questo Bacio; l’amore di Dio mi renderà capace di affrontare nuove sfide”. C’è una sorta di alchimia: il corpo cambia, si trasforma e cresce, si va forgiando il vostro io. Succede di assaporare la bellezza di essere liberi: la libertà “da”; volete emanciparvi. Guai se non ci fosse questa tensione centrifuga, ma scoprirete, per la forza di quel Bacio, che è lo Spirito Santo su di voi, che c’è una libertà “per” che vi porta ad impegnare tutta la vostra persona, liberamente, per un progetto di vita. Penso alla preziosità dello studio che vi impegna, alla vita di famiglia e di parrocchia che vi aspetta. Vi ricordo l’appuntamento della Messa domenicale: sceglierla! Non si è liberi perché si fa quello che si vuole, la libertà è volere quello che si fa.
Vi auguro di saper accogliere in voi la potenza dello Spirito Santo che vi conferirò compiendo alcuni gesti; con l’imposizione delle mani invocherò la discesa dello Spirito. Con la fede vedremo come una colata di lava che scenderà dal cielo e vi avvolgerà. Poi prenderò il profumo del crisma (profumo per indicare lo Spirito che non si vede ma riempie con la sua fragranza tutta la vostra persona). Vi darò infine un piccolo schiaffo (una carezza!) per dirvi che ora siete adulti, è finito il percorso dell’iniziazione cristiana; adesso andate! Andate come le volpi che Sansone aveva catturato per sconfiggere i Filistei. Fece così: prese delle torce, le legò alle code delle volpi, le accese e le mandò ad incendiare i campi di orzo e di grano dei Filistei che furono sconfitti. Voi siete le nostre volpi… finita l’iniziazione cristiana, andate ad incendiare il mondo… d’amore! Siete adulti missionari.

Insediamento dei Capitani Reggenti

Basilica di San Marino,

1 Ottobre 2014

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

 

Signori Capitani Reggenti, Segretari di Stato, Mons. Nunzio apostolico e Signori Ambasciatori, dignitari, collaboratori, vorrei tutti abbracciare con l’unica e più bella qualifica di fratelli e sorelle.

Abbiamo preso posto in Basilica attorno all’altare, in sostanza attorno ad una tavola. E subito siamo investiti da una profezia, quasi l’overture di una sinfonia, “la sinfonia del nuovo mondo”; qui c’è un bozzetto dell’umanità futura secondo il disegno di Dio: la famiglia dei figli di Dio riunita.

Permettete una confidenza; sei mesi fa fu la mia prima volta a presiedere questa liturgia.

Avevo preparato un breve commento alle letture bibliche (rigorosamente pertinente al testo sacro), ma elaborato a tavolino. Non avevo messo in conto quello che avrei visto e chi avrei incontrato: in Basilica erano presenti cinquanta ambasciatori provenienti da altrettanti paesi, dall’Europa e dagli altri continenti. Non ero preparato ad un simile spettacolo. Ed ogni sei mesi questa liturgia si ripete con immutata solennità; un rito antico e sempre nuovo, austero e festoso allo stesso tempo.

In questa circostanza torna a risuonare un appello in favore della fratellanza universale, appello a costruire ponti fra i popoli, fra cuori e cuori.

Il cammino è arduo, realisticamente. Eppure succede – ecco! – culture, interessi, convinzioni, progetti si incontrano. Il destino – o meglio, la Provvidenza – vuole che sia questa antica e piccola repubblica ad essere ospite e attore dell’evento.

La comunità cristiana sammarinese-feretrana si sente assai in sintonia con tutto questo. Il Concilio Vaticano II le ha ricordato la sua vocazione ad essere segno e strumento (“sacramento”) di unità per il genere umano (degli uomini fra loro e degli uomini con Dio). La Chiesa è a servizio di questo sogno. Ammaestrata dal suo Signore non pensa a sé, ma pensa se stessa per il mondo, mandata a radunare i dispersi figli di Dio in unità (cfr. Gv 11, 52) e a far sì che nessuno di questi piccoli vada perduto (cfr. Mt 18, 14). La missione a cui è chiamata non è altro che un atto di amicizia (non proselitismo). Il mio augurio è che ognuno si senta a suo agio attorno a questo altare, convivialità delle differenze (secondo una formula suggestiva). Sì, l’altare è tavola ed è anche ara. Sedersi qui attorno comporta fare spazio, far accomodare l’altro, cedere il passo; non solo per buona educazione e cortesia, ma per ascesi, liberazione da se stessi, dai propri interessi. L’ara richiama il sacrificio, il dono di sé. Qui abbiamo la rappresentazione – mistero della fede – di quanto ha detto Gesù: non c’è amore più grande di chi dà la vita (cfr. Gv 15,13). Nel cuore di questa liturgia sentirete risuonare nel silenzio le parole di chi si è fatto radicalmente dono di sé: «Prendete e mangiate, questo è il mio corpo… Prendete e bevete, questo è il mio sangue versato per voi» – dice Gesù!

Penso che ogni persona impegnata nel proprio paese per la coesione e per il bene comune riconosca che il perno su cui tutto si regge è questa misura alta della moralità (etica) basata sull’amore: fare agli altri quello che vorremmo fosse fatto a noi. La “regola d’oro”.

Mandato agli operatori pastorali

Cattedrale di Pennabilli, 28 settembre 2014
 

  1. Un regalo alla nostra Chiesa.

Un regalo bello, utile, variopinto. Davvero fortunata la nostra Chiesa a ricevere questo regalo!
Un regalo è sempre un segno d’amore; vorrei dire di più: attraverso il regalo il donatore dichiara la sua prossimità all’amato e il suo permanere nella prossimità.
Chi fa il regalo alla nostra Chiesa è il Signore stesso. Egli vuole esserle vicino e di lei prendersi cura.
Un regalo, una volta consegnato, non è più reclamato, è offerto per sempre!
Ebbene, il regalo che il Signore fa alla nostra Chiesa siete voi!
Voi catechisti: collaboratori per l’Iniziazione cristiana in sinergia con le famiglie dei bambini e dei ragazzi e con tutte le realtà della parrocchia (liturgia, carità, missioni); catechisti non solo per i piccoli, ma anche per i giovani e gli adulti, per un itinerario educativo al fine di raggiungere la pienezza della vita cristiana e una mentalità di fede.
Voi ministri straordinari dell’Eucaristia, che portate Gesù a chi è impossibilitato a riceverlo in Chiesa. Ci aiutate a tenere sempre alto l’amore per l’Eucaristia. Collaborate coi sacerdoti nell’accompagnamento dei fratelli e delle sorelle che sono nella sofferenza.
Voi operatori della Caritas: segno concreto dell’attenzione della comunità a chi è in difficoltà, mantenete viva, nella comunità e in ciascuno, il dovere della testimonianza della carità, il “fare tutto per amore”. Gli operatori della Caritas tessono una rete di amicizia fra le case della parrocchia, tengono contatti costruttivi e collaborativi coi servizi sociali.

 

Ci sono poi tante altre forme di ministerialità affidate ai laici che partecipano alla comunione ed alla missione della Chiesa: nel mondo della scuola e dell’educazione, del lavoro, della sanità, della famiglia, dell’animazione politica.
La nostra Chiesa riafferma la scelta dell’Azione Cattolica quale particolare forma di ministerialità laicale e associativa che, per il suo peculiare rapporto col Vescovo e con i presbiteri, assume stabilmente l’impegno della costruzione della Chiesa particolare e delle comunità locali.
La nostra Chiesa poi riconosce e accoglie le diverse aggregazioni ecclesiali che rispondono alla normativa canonica e ai criteri di ecclesialità indicati dai Vescovi italiani, valorizzando il loro apporto nel progetto pastorale diocesano e parrocchiale.
Un grande dono sono i ministeri istituiti: lettori e accoliti, rispettivamente a servizio del “libro” (la Sacra Scrittura) e dell’altare. Lettori e accoliti sono resi tali mediante una istituzione vera e propria, sancita da un rito, con una qualificata stabilità ed una “missio” canonica.

  1. Quanti doni! Quanta ricchezza! Che varietà!

Oggi – si potrebbe dire – è la festa dei carismi e dei ministeri. O meglio, si potrebbe dire che tutta la vita cristiana è ministeriale. Il servizio è una categoria ed uno stile che necessariamente configura i discepoli di Gesù. Consiste nel pensarsi “dono”; sì, dono gli uni per gli altri!
La ministerialità, il servizio, hanno caratteristiche qualificanti:
– l’umiltà; è bandita ogni presunzione, ogni aspirazione al “mettersi in mostra”, ogni forma di potere. Il Signore sa e conosce i nostri passi.
– la gratuità; non pretendere riconoscimenti, battimani, mance… “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”. Spargete buon umore!
– la gioia; il Signore ama chi dona con gioia. La gioia ha una radice profonda, talvolta ricoperta da strati di dolore, di sofferenza e di fragilità. È la gioia che viene dall’incontro con la buona novella di Gesù: Evangelii gaudium.

  1. Festa del rientro.

Sì, è festa perché è bello ritrovarsi. Davvero questa sera siamo in tanti!
Ho usato la parola “rientro”. Intendo rientro dalle vacanze, da una prolungata assenza, certo, ma qui il termine assume un più alto significato. Si “rincasa”. Si torna a casa dopo un viaggio. Si torna dopo aver compiuto una missione. Si torna – a volte – dopo aver “sbattuto la porta”… Metafora del nostro ritorno a Lui! Ed è festa grande.

Festa dei Santi Cosma e Damiano

S.E. Mons. Andrea Turazzi

Lunano, 26 settembre 2014

 

Mt 10, 28-33

Nel giorno in cui ricordiamo i nostri patroni Cosma e Damiano ritorna la parola di Gesù: «Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo… chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio». Testi e detti di Gesù che costituiscono un invito pressante di annunciare il Vangelo senza paura. Certo, la prospettiva del martirio fa paura: ci sta! Ma anche il semplice “rispetto umano” ci può ammutolire. Come la paura di apparire “retrò” e di essere canzonati da chi si ritiene moderno. Se non abbiamo queste paure, riconosciamo che si può restare muti per avvilimento: “Tanto quel che dico non conta niente! A che pro!!!” Se sapessimo il cammino che anche solo una parola può fare in un cuore! Anche Isaia, il profeta, fa l’esperienza del “blocco” davanti alla missione ricevuta di annunciare. Ad Isaia faceva problema la coscienza del suo peccato: «Ahimè, Signore, sono uomo da labbra impure» (cfr. Is 6, 5). Quando ci metteremo ad annunciare se aspettiamo ad essere puri come angeli? Non verrà il serafino a purificare le nostre labbra, ma una voce grida dal profondo del nostro cuore e l’incalza: “Che ne è del tuo Battesimo? Che te ne fai della Cresima che hai ricevuto? E dell’Eucaristia?”. Questi doni non sono sufficienti a togliere la paura per annunciare il Signore? Gesù proclama: «Io ho parlato apertamente al mondo… E nulla ho detto in segreto» (Gv 18,20).

San Giovanni Crisostomo dà una simpatica interpretazione di questo versetto. Egli vede la predicazione di Gesù come un sussurrare all’orecchio della gente dei piccoli villaggi di Palestina, perché poi a tutto il mondo arrivi il grido dei discepoli! E questi testimoni avranno la missione appunto di gridare dai tetti, cioè “in tutta sicurezza e libertà” (cfr At 28, 31). “L’amplificazione sonora” del Vangelo è adempimento della promessa di Gesù stesso: “Voi farete cose più grandi di me” (Gv 14, 12).

Giovanni Paolo II ci ha ripetuto molte volte con forza: “Non abbiate paura!”. No, non temiamo di annunciare Gesù; non rinchiudiamo nel segreto la nostra fede; sfidiamo la società che vorrebbe relegare la fede nel privato. La nostra fede è luce per il mondo… Ed una luce, pur piccola che sia, si vede da lontano.

XXV Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Pieve di Carpegna, 21 settembre 2014

Potremmo partire dall’atteggiamento “fastidioso” del protagonista della parabola che paga gli operai in modo così singolare.
È evidente che non si tratta di un insegnamento sulla giustizia retributiva. Allora è necessario, per capire il vero insegnamento, saper distinguere fra gli elementi funzionali al racconto parabolico – che non sono l’insegnamento – e il centro dottrinale della parabola stessa.
Per sé non è una parabola sulla vocazione alla fede e neppure su quella alla vita religiosa (del tipo “Dio chiama a tutte le ore”); infatti, la disputa tra gli operai non verte sull’ora della chiamata, ma sul salario accordato.
Non è un’affermazione di principio sull’eguaglianza di tutti davanti a Dio: ciò che balza agli occhi è proprio la loro diseguaglianza che riceve un identico trattamento.
Non è l’affermazione dell’arbitrio della Volontà divina (in realtà Dio appare “cristianamente misericordioso”), né una massificazione del Paradiso, poiché la parabola ha una chiara posizione “storica”, la vicenda infatti si svolge “al di qua”.
Piuttosto, la parabola illustra, in forma narrativa, il concreto e sorprendente agire di Dio nella storia, allorché, in Cristo e per mezzo di Lui, offre agli uomini la sua grazia, la sua prossimità.
Israele ben conosce la “stranezza” di Dio! (cfr. Is 55, 6-9). Dio non è coercibile dentro le nostre logiche e i nostri sistemi. È il completamente diverso!
Avrebbero dovuto saperlo gli ascoltatori di Gesù. Sembrano troppo attaccati ai loro meriti.
Matteo lascia intravvedere anche la reazione all’interno della prima comunità cristiana di provenienza giudaica, quando vede l’innesto nel nuovo popolo messianico di tanti pagani. La salvezza operata da Dio attraverso Gesù esclude ogni credenziale, primogenitura, diritto di anzianità di servizio…
Certamente Dio ha scelto di manifestarsi piano piano nella storia e lo ha fatto attraverso un popolo, un popolo eletto e teneramente amato (cfr. Is 43, 1-7); ma ora, attraverso Gesù, la grazia è per tutti, “pura grazia”, dono gratuito della libertà e sovranità di Dio.
Tale grazia non può che essere la stessa per i primi (Israele) come per gli ultimi (peccatori e pagani). Ciò che conta è aprirsi al dono. Lo devono fare i primi come gli ultimi, con la fede.
Ciò che conta è che il dono venga “convertito” in lavoro per la vigna. Per questa vigna il padrone esce sulla piazza per ben cinque volte!
Potremmo concludere soffermandoci sullo “sfogo” del padrone-protagonista della parabola: «Sei forse invidioso se io sono buono»?”
Che cosa risponderemmo? Da parte mia – peccatore e ultimo – rispondo: “Sì, Signore, io sono contento se tu sei buono! Sono contento che tu lo sia per me e che tu lo sia per i miei fratelli”. Non mancano – anche ai nostri giorni – dei cristiani che sembrano infastiditi dal messaggio della Misericordia; temono per il prestigio della loro virtù e del loro essere “in regola”.
“Signore, accolgo il tuo dono come un bambino”!

XXV Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Petrella Guidi

21 settembre 2014

È un giorno importante per il nostro borgo. Si fa festa per l’avvenuto restauro della chiesa, luogo dell’incontro fra noi per la preghiera, ma soprattutto luogo nel quale il Signore ci fa dono di una sua particolare presenza.
«Ma è proprio vero che Dio abita sulla terra? – pregava Salomone nel giorno della dedicazione del tempio a Gerusalemme – Ecco i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costruita! (…) Siano aperti i tuoi occhi notte e giorno verso questa casa, verso il luogo di cui hai detto: là sarà il mio nome! Ascolta la preghiera che il tuo servo innalza in questo luogo» (1Re 8, 27-29).
Quando Giuda Maccabeo, dopo la profanazione avvenuta con l’occupazione pagana, rientrò nel tempio lo trovò «desolato, l’altare profanato, le porte arse e cresciute le erbe nei cortili come in un luogo selvatico e gli appartamenti sacri in rovina», lui e i suoi uomini «si stracciarono le vesti, fecero grande pianto, si cosparsero di cenere, si prostrarono con la faccia a terra e alzarono grida al cielo». Allora coi suoi uomini e i sacerdoti restaurò, purificò e consacrò di nuovo il tempio. Ci fu grande gioia: «Tutto il popolo si prostrò con la faccia a terra e adorarono e benedirono il Cielo… celebrarono la dedicazione dell’altare per otto giorni e offrirono olocausti con gioia (…). Poi ornarono la facciata del tempio con corone d’oro e piccoli scudi» (1Mac 4, 36ss).
Da Gesù in poi si adora Dio in spirito e verità (cfr. Gv 4, 23). Bastano due o tre riuniti nel suo nome per godere della sua presenza (cfr. Mt 18, 20). Tuttavia, il luogo della preghiera, il luogo dove si celebra l’Eucaristia e – quando è possibile – con onore la si conserva, è santo.
Le pietre che lo formano sono il segno del tempio vivo che è la Chiesa e di cui noi siamo le pietre vive (cfr. 1Pt 2, 5), cimentate dal nostro comune riferimento a Cristo che è il capo e noi sue membra, riunite in fraternità.
Sì, in questa prospettiva la chiesa di pietra è anche relativizzata. Infatti «Del Signore è piena la terra» (cfr. Sal 119, 64). Il Signore abita nella nostra interiorità. Che dire poi della presenza del Signore nella nostra famiglia: la famiglia è la “piccola Chiesa domestica” (cfr. LG 11). E tuttavia, la chiesa di pietre (il tempio) è come un sacramento, cioè un segno efficace della grazia divina; segno efficace del suo desiderio di stare con noi e di attirarci a lui.
Il tempio è segno esterno, visibile, bello, aperto, accogliente, perché tutti sono candidati all’incontro col Signore. I nostri padri hanno voluto questo tempio, hanno scelto il luogo più attraente possibile, hanno impegnato risorse e, soprattutto, l’hanno frequentato con fede. Ce lo hanno lasciato perché sia un segno per noi, una eredità che ci responsabilizza. Questa chiesa sopravvivrà a noi e continuerà ad essere testimonianza. Ci sovviene una frase di Gesù non senza una qualche amarezza: «Quando il Figlio dell’Uomo verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8).
Che sia oggi per tutti noi una occasione per un riesame della nostra vita e delle nostre convinzioni. Che ne è della nostra fede? La nutriamo con la preghiera quotidiana? La fortifichiamo con la partecipazione domenicale all’Eucaristia, santificando il giorno del Signore? La approfondiamo facendo un serio cammino di fede (formazione e lettura della Parola di Dio)? Dal restauro della chiesa di pietra alla riforma della nostra vita cristiana.

Saluto al primo incontro de “I lunedì della politica”

Parrocchia di Borgo Maggiore, 15 settembre 2014

Saluto di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Grazie alle aggregazioni che hanno voluto la ripresa dei “Lunedì della politica”, presso la parrocchia di Borgo che ospita. Grazie soprattutto ai docenti e ai partecipanti. Auspico che una iniziativa come questa possa estendersi ad altri centri della diocesi: in Val Conca, Val Foglia, Val Marecchia… Ritengo tale iniziativa fondamentale per la nostra formazione. Con la Dottrina Sociale viene tracciato il quadro di un umanesimo integrale e solidale. Vi si affrontano, via via, grandi temi: la persona umana (suoi diritti e doveri), il principio del bene comune, il principio di sussidiarietà e di solidarietà, il lavoro, la vita economica, ecc… Quest’anno il grande tema della famiglia. Questa iniziativa dei “Lunedì della politica” è indispensabile se si vogliono far sbocciare nuove vocazioni alla vita politica, o meglio, “persone nuove” per la politica. L’urgenza di formare “uomini nuovi” viene prima dei programmi e prima della protesta (pur legittima contro il malcostume che anche in questi giorni è di scena). Molti cattolici considerano ancora l’economia, la politica, di non interesse immediato per la loro fede. Si lascia ad altri l’iniziativa. Occorre reagire: la diocesi, pur coi suoi limiti e l’esiguità delle risorse, si dà da fare per far crescere adulti nella fede, perché le ragioni della fede si facciano ragioni di vita. Non si tratta di suggerire militanza in questo o quel partito politico, ma di sostenere e formare cristiani capaci di operare nella città degli uomini con un forte senso morale e civile. Ai cattolici – si dice – non mancano idealità, ma a volte la competenza dell’agire sociale e politico. Per impegnarsi per gli altri, per il bene comune, si devono affinare concetti, acquisire strumenti di analisi, capire i meccanismi della società e poi intervenire in essi. In altre parole, tradurre le esperienze in “cultura” e “pensiero”. Non voglio rubare altro tempo. Considerato il tema di quest’anno, la famiglia, vorrei mettere davanti a tutti l’icona – sempre sorprendente – delle nozze di Cana. In particolare mi soffermo sul fatto che Maria, la mamma di Gesù, non ci sta che dal “più” si cali al “meno”. Quando s’accorge che sta per finire il vino, ottiene l’intervento di Gesù e il vino è ancora più abbondante dell’inizio e più buono! Di fronte al progetto di società al quale vogliamo contribuire noi siamo per un “di più”: una sessualità per la relazione d’amore, un amore che si apre alla reciprocità dei sessi, un amore che dice “sì” alla vita, che assume responsabilità… La famiglia come scuola di umanità, di socialità, di santificazione e grembo di vita ecclesiale. “L’avvenire dell’umanità passa attraverso la famiglia. Spetta ai cristiani annunciare con gioia e convinzione la buona novella della famiglia”. È una buona notizia!