Omelia II Domenica del Tempo Ordinario

Omelia S.E. Mons. Andrea Turazzi

Lunano, 18 gennaio 2015

 1Sam 3,3-10.19
Sal 39
1Cor 6,13-15.17-20
Gv 1,35-42

Ecco, io vengo, Signore… Mio Dio, questo io desidero (cfr. Sal 39,8).
Il racconto giovanneo della chiamata dei primi discepoli ci aiuta a “tanare” il modo balordo che talvolta abbiamo di gestire il rapporto con Gesù.
Cominciamo dalla domanda dei primi due discepoli: Maestro dove abiti? Non è semplice curiosità. La domanda riferisce il desiderio di poter stare a lungo con lui. Gesù li accontenta. Vogliono che Gesù parli delle Scritture? No, vogliono capire chi è lui.
Andarono. Quella giornata col Maestro fu decisiva. L’evangelista Giovanni lo evidenzia annotando due cose: era circa l’ora decima (le quattro del pomeriggio) e la gioia con cui Andrea annunciava la scoperta a suo fratello Pietro. A proposito: le quattro del pomeriggio sono scoccate nel quadrante della nostra vita? L’incontro con Gesù è tracimato in gioiosa testimonianza?
Abbiamo trovato il Messia: è il grido di chi ha scoperto un volto che dà senso all’esistenza. La fede è nata dal restare con Gesù. Venite e vedrete: eppure Gesù non ha una tana come le lepri, non ha una pietra dove posare il capo (cfr. Mt 8,20). Non promette altro che intimità: Rimanete in me e io in voi (Gv 15,4). Un giorno aggiungerà: dimoro nel seno del Padre; là vi desidero con me (cfr. Gv 17,5). Ma perché i discepoli capiscano propone una cosa concreta, una cosa da fare: venite e vedrete. E loro vanno, vedono, dimorano.
Nei racconti di chiamata in Marco, Luca e Matteo viene messo in rilievo il lasciare tutto per seguire Gesù; in Giovanni seguire è cominciare ad entrare nel mistero della persona di Gesù. Con-vivere con lui. E ciò cambia radicalmente la vita.
È detto che Andrea era uno dei due discepoli. Ma chi era l’altro? Il Vangelo non lo dice. Forse perché, dopo aver visto, non ha preso la decisione di seguire Gesù.
Due hanno seguito l’Agnello di Dio indicato dal Battista, il loro maestro. Due hanno cercato di scoprire dove dimorava Gesù. Due hanno passato la notte con lui. Ma uno solo ha testimoniato d’aver conosciuto il Messia e lui solo s’è messo realmente a seguirlo. L’altro, forse, è ciascuno di noi alle prese con la domanda “chi è Gesù?”. Gesù si mostra, ma ci lascia liberi di accoglierlo. Facciamo buon uso di questa libertà.

“I fatti e i giorni” dal 4 all’11 gennaio 2015

Settimana dal 4 all’11 gennaio 2015

“Fervet opus”

“Fervet opus”. Sono le parole con le quali il profeta Virgilio descrive il fervore dell’alveare. Non c’è metafora più azzeccata per raccontare la vivacità della diocesi nelle sue molteplici espressioni. La comunità è stata travolta dall’onda natalizia dell’amore misericordioso di Dio.
Tante le iniziative: momenti di preghiera, concerti, recite, presepi, presepi viventi, scambi di auguri, incontri…
L’anno liturgico, prima col tempo dell’Avvento e poi con quello del Natale, ha dato modo di rivivere un incontro ravvicinato con Cristo. Il clima natalizio ha contagiato città e borghi, ha riproposto i grandi temi della fede cristiana che – nonostante tutto – palpita ancora sotto strati di polvere e di ceneri, ha sottratto all’oblio tradizioni cariche di contenuti.
La notte di Natale è stata vissuta da qualcuno come la notte del censimento, come Maria e Giuseppe “scesi nelle proprie città per farsi registrare”. Ed è stato un ritorno alle proprie radici, un sentirsi a casa propria. Qualche altro si è ritrovato di fronte al “colpo di scena” di un Dio che “stanco” di millenari discorsi su di lui (dall’antica sapienza alla astrologia, dalla filosofia alla poesia) finalmente si fa vedere col volto di un bambino adagiato in una mangiatoia.
Per tutti è stato un ritrovarsi nuovamente davanti ad un mistero che stupisce, sorprende, incanta, converte, conquista.
Adesso si ritorna nel “tempo ordinario”. Sbaglia chi lo considera di basso profilo liturgico-spirituale. In realtà, il tempo ordinario è preziosissimo: educa a vivere in modo straordinario il quotidiano; insegna a dare solidità alla fede. Gesù ha trascorso quasi interamente la sua vita ordinaria a Nazaret: trent’anni su trentatrè!
Di solito la si chiama “vita nascosta”. In realtà Nazaret rappresenta la clamorosa manifestazione dello stile di Dio: annuncio del Regno già presente fra noi, prossimità “domestica” del Figlio di Dio, missione redentrice in atto. E questo è molto più che un tempo di preparazione per il Messia o del prologo al Vangelo: è rivelazione!
Realtà stupende! Ma noi siamo in cammino. Veniamo da una settimana tremenda.
La strage jihadista al giornale satirico Charlie Hebdo, a Parigi, ha causato 12 vittime e tanto smarrimento e insicurezza. Il tutto è accaduto in una modalità e con una efferatezza da farci sentire in trincea. Ma non possiamo permetterci di perdere la speranza. L’Islam inautentico dei terroristi vuole lo scontro tra “in-civiltà”. L’assassinio si accompagna non alla presenza, ma all’assenza di Dio, anzi alla sua negazione. L’intenzione è evidente: porre nel cuore dell’Europa la violenza senza legge. Ma l’Europa ha da mostrare che la speranza del mondo è l’integrazione. La sua missione è ricomporre i pezzi in un quadro di pace per tutti i popoli e tra tutti i popoli; nel rispetto reciproco tra religioni, culture, civilizzazioni.
È questa l’Europa che vogliamo. Il mondo che vogliamo.
Ci uniamo a quanti chiedono una esplicita e convincente condanna del terrorismo dal parte del mondo islamico, ma chiediamo anche rispetto per la fede di tutti e il rifiuto di ogni derisione.
Ma il sole sorge ancora sull’umanità.

Omelia Festa del Battesimo di Gesù

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di San Leo, 11 gennaio 2015

1. “Venite all’acqua”(Is 55,1).
Gesù ha un rapporto particolare con l’acqua! Scende al fiume per farsi battezzare da Giovanni. Sulle rive del lago inizia il suo ministero, sceglie i primi discepoli e pronuncia indimenticabili parabole. Quattro tra gli apostoli sono pescatori. Gesù cammina sulle acque e invita Pietro a fare altrettanto. Va alla piscina di Betzaeta. Promette ricompensa per un bicchier d’acqua fresca offerto ad un fratello. Sulla croce grida: «Ho sete» (Gv 19,28). É vero: ha cambiato l’acqua in vino, ma per significare l’unità dei segni che testimoniano di lui: l’acqua e il sangue. Al pozzo di Giacobbe dice alla samaritana: «Io sono acqua viva» e durante la festa delle Capanne grida: «Chi ha sete venga a me e beva!» (Gv 7,37).
Certamente Gesù aveva presenti i testi di Isaia: «Venite all’acqua e chi non ha denaro venga lo stesso; venite bevete» (Is 55,1-2). E ancora: «Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fatta germogliare perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, così sarà della mia parola» (Is 55,10-11). Le acque nel loro movimento, effettivamente, assomigliano alle parole: scendono, penetrano, vivificano. Gesù voleva le sue parole come acque correnti: dette, ascoltate, vissute, distribuite. Non le ha scritte. Non ha avuto né segretari, né stenografi. Il discepolo veniva invitato a trattenerle col cuore e la mente. Non ha pensato di rinchiuderle in un rotolo di pergamena… Sapeva che vale di più la parola detta che scritta, con voce pacata o impetuosa che sia, ma sempre coinvolgente. Ignoriamo il timbro della voce di Gesù (non c’è registrazione!). Persino le lingue parlate da lui sono scomparse (l’ebraico e l’aramaico). Che dire del lieto messaggio, l’«Evangelo»? Annunciato coi fatti prima che con parole: una cascata! Ma fu necessario raccogliere l’«Evangelo» nei vangeli scritti: acque conservate per noi. I vangeli sono stati scritti per noi, per non dimenticare le parole di colui che ha promesso che dal seno di chi crede scaturiranno fiumi d’acqua viva (cfr Gv 7,38). «Un fiume e i suoi ruscelli rallegrano la città di Dio» (Sal 46,5).

2. Torniamo alle acque del Giordano, mentre Gesù compie il gesto profetico che anticipa la sua morte e risurrezione: la discesa nelle acque del fiume Giordano, l’alba del patto d’amore che ci mette sulla via della Pasqua.
«O se tu squarciassi i cieli e scendessi» (Is 63,19): oggi, festa del Battesimo del Signore, riecheggia quel grido. C’è una discesa. Che cos’è il Battesimo di Gesù se non una discesa nelle acque, una totale immersione?
Ma ci fu una prima discesa del Figlio di Dio nell’umanità. Fu al momento dell’incarnazione: Gesù è messo al mondo, per il mondo. E poi scende tra i peccatori per farsi battezzare. Si immerge nel più profondo della condizione umana quando, benché innocente e senza peccato, assume la responsabilità del nostro peccato.
Non metterà alcun limite alla sua missione di Salvatore discendendo negli inferi, là dove l’uomo viene trascinato dal peccato e dalla morte. Così diciamo nella professione di fede: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo», e più avanti: «discese agli inferi».
I cieli si aprono: è la conferma che si sta compiendo il mistero e la promessa. Dio dal suo cielo entra nella terra, scende per innalzare: è la sua “catabasi” – come dicevano i padri antichi – e all’uomo è dato di risalire a Dio attraverso Gesù (anabasi). Alla grazia di Dio noi rispondiamo con il rendimento di grazie.
La scena del battesimo ci parla di Dio più di quanto immaginiamo. C’è la voce del Padre che dichiara; c’è il Figlio che viene presentato; c’è la colomba, figura dello Spirito che scende su Gesù. Così Dio si rivela apertamente, più di quanto ha fatto con i pastori di Betlemme, più di quanto ha detto ai Magi con la stella. Anche se in questo brano non viene nominato il termine “Trinità” – verrà usato più tardi nella riflessione teologica – qui abbiamo la piena rivelazione del Dio cristiano: amore del Padre, missione del Figlio, consacrazione dello Spirito.

3. Realtà stupende! Ma noi siamo in cammino. Veniamo da una settimana tremenda.
La strage jihadista al giornale satirico Charlie Hebdo, a Parigi, ha causato 12 vittime e tanto smarrimento e insicurezza. Il tutto è accaduto in una modalità e con una efferatezza da farci sentire in una trincea. Ma non possiamo permetterci di perdere la speranza. L’Islam inautentico dei terroristi vuole lo scontro tra “in-civiltà”. L’assassinio si accompagna non alla presenza ma all’assenza di Dio, anzi alla sua negazione. L’intenzione è evidente: porre nel cuore dell’Europa la violenza senza legge. Ma l’Europa ha da mostrare che la speranza del mondo è l’integrazione. La sua missione è ricomporre i pezzi in un quadro di pace per tutti i popoli e tra tutti i popoli; nel rispetto reciproco tra religioni, culture, civilizzazioni.
È questa l’Europa che vogliamo. Il mondo che vogliamo.
Ci uniamo a quanti chiedono una esplicita e convincente condanna del terrorismo da parte del mondo islamico, ma chiediamo anche rispetto per la fede di tutti e il rifiuto di ogni derisione.
Ma il sole sorge ancora sull’umanità.

Eucaristia in suffragio di Padre Giuseppe Blasi

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Chiesa di Valdragone, 7 gennaio 2015

Baruc 3, 31-35
Sal 22
Gv 14, 1-3

«Tu, autem, homo Dei» (1Tim 6,11).
Padre Giuseppe, un uomo di Dio, perché proprietà di Dio.
Su di lui il Signore ha fatto progetti. L’ha usato! Per 92 anni! (era nato a Rocca di Papa il 23.12.1922). Non dimentichiamo che «Servire Dio è regnare!».
Il Signore l’ha chiamato per averlo tutto per sé, per adoperarlo come strumento della sua grazia: è nello stile di Dio salvare l’uomo attraverso l’uomo. Quante coscienze padre Giuseppe ha orientato, quanta misericordia di Dio ha dispensato, quanta fiducia ha ridato alle anime: 68 anni di ministero, 10 dei quali qui, a servizio della nostra Chiesa di San Marino-Montefeltro (ordinato sacerdote a Nepi (VT) il 23.03.1947). Uomo di Dio e Dio se lo è ripreso.
Padre Giuseppe, uomo di Dio, perché ha voluto appartenere a Lui come al suo tutto, centro della sua vita, slancio della sua umanità. «Ti proclamo unico re e signore del mio cuore: tu lo vuoi e io te lo dono» (Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, Visite al Santissimo Sacramento, 9).
Bellezza della vita sacerdotale – bellezza che pochi oggi sembrano apprezzare – incanto della vita consacrata (realtà per tutta la Chiesa che quest’anno vi dedica la sua attenzione) che si compie nel raccoglimento, nell’umiltà del convento, nel nascondimento del confessionale, nella fragilità della propria umanità. Ma tutto nella tensione di essere di Dio: «Io sono tuo» (Sal 118, 94).
Dice il profeta Baruc nella lettura che abbiamo fatto poc’anzi: «È lui – il Signore – che invia la luce ed essa va, che la richiama ed essa obbedisce con tremore. Le stelle brillano dalle loro vedette e gioiscono; egli le chiama e rispondono: “Eccoci!” e brillano di gioia per colui che le ha create» (Bar 3, 32-35). In queste parole è racchiuso il mistero della vocazione, anzitutto la vocazione alla vita. È il Signore che manda nel mondo: e non può che inviare luce. Ogni persona che viene in questo mondo aumenta lo splendore della luce di Dio sulla terra. Ogni vita è responsabilità, cioè risposta a colui che manda, è obbedienza dacompiere con timore e tremore. Ognuno di quanti vengono al mondo viene con una missione da compiere: la vocazione come servizio.
La stella evoca il Natale e il cammino dei Magi che questo tempo liturgico ci ripresenta.
Il nostro natale nel Natale di Gesù e, nel Natale di Gesù, il “dies natalis” di padre Giuseppe.
Il Signore l’ha richiamato su nel firmamento (missione compiuta!) ed ora brilla di gioia per colui che lo ha creato. La gioia del Cielo, del dies natalis, è gioia che caratterizza e colora ogni giorno la vita del consacrato che già da quaggiù è segno della vita futura, un anticipatore, una avanguardia…
Da chi ha imparato a dire “Eccomi”?
Ha imparato dalla Madonna, la Signora di cui padre Giuseppe è servo; egli è stato un “servo di Maria”!
“Eccomi”: padre Giuseppe è al suo “posto”. Un posto su nel Cielo: là dove Gesù ci precede. «Nella casa del Padre mio vi sono molti posti, se no ve lo avrei detto. Vado a prepararvi un posto…» (Gv 14, 1-3).
Un ricordo personale… spero non sia inopportuno.
Nella casa di formazione – il Seminario – veniva assegnato un posto preciso: a scuola, in studio, in cappella, in refettorio, in fila… poteva succedere che, in qualche circostanza, il posto fosse “libero” e che un compagno lo “tenesse” occupato vicino a lui. Se qualcuno si avvicinava sentivi dire: “No, questo posto è riservato per il mio amico…”. Amo immaginare che Gesù abbia tenuto il posto per padre Giuseppe: un posto proprio per lui!
Domenica 4 gennaio, Seconda del Natale a San Marino (Valdragone).

Omelia Solennità Epifania del Signore

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di Pennabilli, 6 gennaio 2015

 
Dio disse ad Abramo: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci» (Gn 15,5). Un amico astronomo mi ha detto che se ne contano 400 miliardi solo nella Via Lattea. Ma si tratta di un numero approssimativo. Incanto davanti al cielo stellato in queste serene notti d’inverno e incanto davanti al Bambino su cui si è posata la stella a Betlemme… Un’estasi vissuta dagli antichi astronomi, dai poveri pastori e dai poeti d’innanzi allo stesso cielo stellato. Baruc, un profeta dell’esilio, vede le stelle danzare di gioia: Le stelle brillano dalle loro vedette e gioiscono; il Signore le chiama e rispondono: «Eccoci!» e brillano di gioia per colui che le ha create (3,34-35). Isaia precisa che il Signore le chiama tutte per nome e nessuna manca all’appello (cfr. Is 40,26). Come si chiama la stella dei Magi? Troviamole un nome.
Io la chiamo Stella dei cercatori. Possono vederla quelli che, senza restare impigliati nel fare, sanno alzare gli occhi al cielo. É una stella fatale, che mette in cammino. Irresistibilmente. Assomiglia tanto al desiderio che ti lascia inquieto finché non trova riposo.
Per i Magi il cammino fu reale non metaforico. Hanno macinato molta strada; hanno fotografati, nella mente, tanti paesaggi. Dall’Oriente a Betlemme. Andata e ritorno. Hanno messo in moto non solo piedi e gambe, ma anche la mente e il cuore. É probabile non sia mancato chi s’è preso gioco di loro e della loro improbabile “storia di stelle”. Tanta strada per cosa? Non porteranno a casa né oro, né avorio, né marmi preziosi; troveranno solo terra sabbiosa e riarsa.
E poi non è l’Oriente la culla della luce? Perché cercare in Occidente?
Ma chi cerca trova, anche se può succedere di sbagliare. Ai Magi è capitato. All’inizio hanno mancato il bersaglio: credevano d’essere arrivati alla città del Messia, ma Betlemme era oltre, nella campagna. A Gerusalemme sono saliti a Palazzo, dove stanno quanti vestono in morbide vesti (cfr Mt 11,8) mentre il Bambino che li attende è adagiato sulla paglia. Incautamente interpellano Erode, la corte e i sacerdoti del tempio anziché interrogare i pastori. Errare humanum est! Hanno l’infinita pazienza del ricominciare. Interrogano di nuovo le Scritture e la Stella. Confermo: chi cerca trova e chi trova non smette di cercare; per chi trova, infatti, è molto importante anche il ritorno: è strada nuova, perché l’incontro li ha fatti nuovi. «Per un’altra strada fecero ritorno al loro paese». E noi? Come torniamo dal presepio?
 

Omelia II Domenica Dopo Natale

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Basilica San Marino, 4 gennaio 2015
In questi giorni natalizi, abbiamo letto più volte, di Maria, la madre di Gesù, che conservava tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.
Maria ha raggiunto, con la sua fede, un punto d’osservazione privilegiato sull’abisso del mistero di Gesù. La liturgia conduce anche noi alla contemplazione di infiniti orizzonti. Chi è il bambino adagiato nella mangiatoia? Perché è venuto tra noi?
Troviamo risposta nelle quattro parole scolpite nel cuore del Prologo di Giovanni: Ed il Verbo si è fatto carne (Gv 1,14).

Ed”: è la particella di congiunzione alla quale di solito non si fa caso. Questa congiunzione arriva dopo un crescendo di proposizioni: In principio era il Verbo… E Il Verbo era Dio… E Venne tra i suoi… Infine: Ed il Verbo si è fatto carne. Come a dire: nessuno più può pensare: qui finisce Dio e comincia l’uomo”, perchè creatore e creatura si sono abbracciati. In quel neonato, Dio e uomo sono una sola cosa.

Il Verbo”: termine misterioso per molti, ma significativo della realtà più semplice e vitale che ci sia: la parola, ossia, la comunicazione. Dio è totale comunicazione di sé e dono. Il Verbo è la Parola di Dio, lo splendore del Padre “lanciato” nel cielo tersissimo della Trinità, l’irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza (Ebrei 1,3). Tutto ciò che esiste è stato creato per mezzo di lui e in vista di lui (cfr Colossesi 1,16).

Si è fatto”: è accaduto qualcosa di definitivo e irrevocabile: il Verbo, prima invisibile, ormai è visibilmente “messo al mondo”. È accaduto il più grande dei miracoli: Dio che ha plasmato l’uomo con polvere, dall’esterno, come fu in principio quando creò cielo e terra, si fa lui stesso polvere plasmata, cioè bambino.

Carne”: è detto in senso biblico, per indicare l’intera persona umana e per sottolineare fino a che punto è arrivata la condiscendenza divina. Da allora c’è una scintilla del Verbo in ogni carne, “qualcosa” di Dio in ogni uomo e in ogni realtà creata. C’è santità, almeno incipiente, in ogni vita.

“E il Verbo si è fatto carne”: quattro parole che possiamo tradurre così: parola, cioè comunicazione; luce che rischiara la nostra oscurità; carne, concretezza della salvezza; gloria, grazia trasformante, pienezza del nostro destino.
Non è questo l’itinerario del cristiano?

Omelia Solennità Maria Santissima Madre di Dio

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Santuario Beata Vergine delle Grazie (Pennabilli), 1 gennaio 2014

Giornata Mondiale della pace 1 gennaio 2015
“Non più schiavi ma fratelli”: con queste parole Papa Francesco si rivolge a tutti i cristiani e a tutti gli uomini di buona volontà. Da 46 anni, il primo giorno dell’anno, la Chiesa celebra la giornata mondiale della pace perché il nuovo anno inizi per tutti con il proposito di promuovere la non violenza e la riconciliazione: fare la pace ossia essere operatori della pace (gli operatori di pace sono detti “beati” da Gesù); essere in pace ossia superare ogni tensione e vivere bene gli inevitabili conflitti; essere pace, avere la pace nel cuore ed essere portatori di gioia e unità.
A nome di tutti ho inviato questa mattina un telegramma a Papa Francesco. “Padre Santo, a nome di tutta la Chiesa di San Marino-Montefeltro invio filiale augurio per nuovo anno. Siamo impegnati a fare nostro il suo messaggio “Non più schiavi, ma fratelli”. Singolarmente e insieme aderiamo al suo appello per una globalizzazione della fraternità. Abbiamo possibilità nel quotidiano per annunciare e vivere il progetto di Dio: essere una sola famiglia. Ci benedica”.
Fare la pace, essere in pace, essere pace è un compito non facile. I conflitti e le guerre non sono un ricordo del passato. Tutt’altro. Se il novecento è stato il secolo delle contrapposizioni frontali e delle ideologie, oggi si moltiplicano i combattimenti locali. A scontrarsi sono soprattutto fazioni interne ad una stessa nazione. Secondo l’espressione efficace pronunciata dal Papa nella sua visita e Redipuglia, nella scorsa primavera, stiamo vivendo una “terza guerra mondiale a pezzi”. I dati gli danno ragione. Ci sono almeno 50 fronti aperti nei vari continenti: dal Messico all’Iraq, per arrivare all’Europa dove si consuma la crisi ucraina. I mezzi di comunicazione italiani non parlano mai delle guerre che si combattono in Africa (vedi, ad esempio, le recenti stragi avvenute nel nord Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo). A farne le spese sono soprattutto i civile e le categorie più fragili: bambini, anziani, future mamme. Secondo le stime dell’Unicef – Organismo Internazione per la difesa dell’infanzia – ci sono 230 milioni di bambini intrappolati in zone di guerra. 15 milioni nelle aree più violente: Siria, Iraq, Palestina, Repubblica Centrafricana, Sud Sudan, Ucraina. Chi può cerca di scappare: per questo l’anno 2014 ha toccato il record di profughi – oltre 51 milioni – mai così tanti dalla seconda guerra mondiale.
Eppure, ci ricorda il Papa, i conflitti non sono un male necessario: la pace è un traguardo possibile, a patto di saper “globalizzare la fraternità”, riconoscendoci come unica famiglia. La dignità umana si esprime nella forma della fraternità, intesa come non vago sentimento, ma come ontologia. La persona, aperta alla relazione gode di dignità, libertà, autonomia. Nessuno può disporre dell’altro come oggetto.
L’abolizione della schiavitù è un passo importante compiuto dalla coscienza dell’umanità. Eppure oggi vi sono milioni di schiavi, di essere umani a cui viene negata libertà, autonomia, dignità: lavoratori trattati da schiavi, migranti e clandestini in condizioni disperate, persone costrette con violenza a prestazioni sessuali, bambini e ragazzi obbligati alla guerra, esposti al traffico degli organi, e poi le vittime della droga, le detenzioni inique… E tante altre forme di moderne schiavitù che smentiscono di fatto la famiglia umana come tale.
Le cause sono riconducibili al rifiuto dell’umanità dell’altro, l’altro diventa “oggetto” di sistemi socio-economici che sconvolgono i valori in nome del “dio denaro”. Dalla corruzione alla criminalità, dal terrorismo ai conflitti armati…
Fin qui il mio discorrere assomiglia a una pagina di telegiornale… Ma quale è il nostro impegno? Primo: sconfiggere l’indifferenza. Guardiamo alla testimonianza di tante persone che credono alla fraternità. Il Papa ricorda soprattutto le suore che silenziosamente operano per gli altri, facendosi madri e sorelle. C’è poi un impegno che spetta agli Stati, alle Istituzioni, alle Organizzazioni: far sì che si prevengano gli abusi, la criminalità e la corruzione; mettere ogni impegno per proteggere le vittime; agire, quando è necessario, giudiziariamente.
Ma c’è un impegno di tutti, non solo degli Stati, che consiste nella maturazione della coscienza: “ogni uomo è mio fratello”… “Io, con gli altri, formo una sola famiglia”.
E qui viene in rilievo la visione cristiana del progetto di Dio sull’umanità. Il Papa dopo aver ricordato la lettera di san Paolo a Filemone nella quale è abrogata la schiavitù, ripercorre le tappe del progetto di Dio sull’umanità: dalla creazione alle prime tragedie, al primo fratricidio (Caino-Abele). Poi c’è da registrare il superamento dell’amarezza che proviene dalla constatazione dell’incapacità dell’uomo, con le sue sole forze, alla conversione: “Cambia forse un Etiope la sua pelle o un leopardo la sua picchiettatura?” (cfr Ger 13,23). Il Signore per mezzo del profeta annuncia il dono di una legge non scritta su pietra ma nei cuori (cfr Ger 31,33), nei cuori di carne al posto dei cuori di pietra (cfr Ez 36,26). È il dono del vangelo. La bella notizia che la conversione è possibile perché opera della grazia in chi l’accoglie. Col battesimo si diventa figli di Dio e partecipi della natura divina (cfr 2 Pt 1,4) e realmente fratelli viventi della stessa vita. Non ci educa così la liturgia che continua a chiamarci “fratelli e sorelle”?
In conclusione: la prima esigenza, improrogabile, per gli artigiani della pace è la conversione. Vivere poi da figli di Dio e quindi da fratelli. Un compito quotidiano per ciascuno. Il Signore domanda: “Che hai fatto del tuo fratello?” (Gen 4,9). E Gesù che ci ripete: “L’hai fatto a miei fratelli più piccoli… l’hai fatto a me” (Mt 25,40).
Auguri. Sia un anno di pace per tutti. Preghiamo così: Signore, che sappiamo accettare il rischio di spalancare le braccia: così creeremo spazio in noi, ma per l’altro. Le nostre braccia aperte, Signore, dicono il nostro desiderio di non restare soli e il nostro invito perché l’altro si senta a casa sua in casa nostra. Nello scambievole abbraccio nessuno resterà intatto perché ognuno arricchirà l’altro e ambedue resteremo noi stessi.

Omelia Santo Stefano

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Pieve di Ponte Messa, 26 dicembre 2014

«Quando vi consegneranno nelle loro mani, non preoccupatevi di come e di che cosa dovrete dire» (Mt 10, 19).
Sentendo queste parole, il cuore ci riporta ad altre parole di Gesù: «Non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete: guardate gli uccelli del cielo (…). Osservate come crescono i gigli del campo» (cfr Mt 6, 25-34).
Tutto quello che abbiamo imparato da Gesù sulla paternità di Dio e l’abbandono alla sua Provvidenza trova, nella prospettiva della persecuzione, la sua applicazione più paradossale e nello stesso tempo più perfetta. «Il Padre sa di che cosa abbiamo bisogno» (cfr Mt 6, 32). Non ci volterà le spalle quando saremo nel momento della prova. Al contrario, di noi si prenderà cura. La prova, la persecuzione specialmente, genera in noi, che ascoltiamo le parole di Gesù, non la preoccupazione ma la confidenza totale. Faccio notare la pregnanza del verbo “essere consegnati” (essere traditi), con tutto lo spavento che suscita l’essere in balia dell’arbitrio di chi non ci vuole bene e si accinge a farci del male. In quel preciso momento noi siamo consegnati nelle braccia del Padre che di noi si prende cura.
«Getta nel Signore la tua preoccupazione perché egli ha cura di te» (cfr 1Pt 5, 7). «Perfino i capelli del vostro capo sono contati» (cfr Lc 10, 30). «E se anche doveste soffrire – dice l’apostolo Pietro – per la giustizia, beati voi! Non vi sgomentate per paura (…) pronti sempre a dare ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3, 13-15). Ma la promessa di Gesù va oltre: ci assicura che il Paraclito verrà in soccorso. Nel momento di prendere la parola sarà lui, non noi, a parlare. Fu così con Stefano, è stato così per i martiri davanti ai loro persecutori.
Sembra ci sia contrasto fra il Natale e il martirio, fra la nascita di Gesù e la persecuzione mortale che si abbatte su Stefano. Ma ambedue i fatti sono incentrati sull’amore. Il primo è amore di condiscendenza, il secondo un amore corrisposto. Il martire, Stefano, esprime la relazione intima che ha con Gesù, un amore che si spinge “sino alla fine” (cfr. Gv 13, 1) come l’amore di Gesù.
La nostra unione col Signore sarà la garanzia che lo Spirito del Padre parla in noi. Attenzione, non al posto nostro, ma in noi. Prima o poi nella vita cristiana viene il momento dell’eroismo: il momento della totale fedeltà.
Oggi vogliamo ricordare i cristiani che soffrono persecuzioni nel mondo, in particolare nel Medio Oriente. In questi giorni papa Francesco ha indirizzato loro un messaggio. “A nome mio – scrive papa Francesco – e di tutta la Chiesa vi esprimo vicinanza e solidarietà”. È un messaggio carico di affetto e partecipazione. Una terra tormentata da conflitti per opera di una “organizzazione terroristica che commette ogni sorta di abusi e pratiche indegne dell’uomo”. Gratitudine per la testimonianza resa dai credenti, che il Papa invita ad essere “lievito” puntando al dialogo con ebrei e musulmani.
Forte l’invito alla comunità internazionale “perché promuova la pace mediante il negoziato e il lavoro diplomatico”. Infine il Papa esprime l’auspicio di “poter venire di persona a visitarvi e confortarvi”.
Preghiamo per tutti i perseguitati. Preghiamo per la nostra fedeltà nei momenti di prova.

Omelia Natale del Signore: Messa del Giorno

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Cattedrale di San Leo, 25 dicembre 2014

È Natale. Sul mio tavolo di studio, dove solitamente la signora mette i giornali, ho trovato il più bel regalo di Natale… un regalo piccolo, dentro una carta dorata. Lo apro e vedo che dentro c’è un rotolo di pergamena. Lo svolgo delicatamente. Leggo e rileggo la scritta: «Il Verbo si è fatto Carne». Mi metto in meditazione…
Il Verbo eterno, “colui per il quale tutto è stato fatto e nel quale tutto sussiste” si è fatto davvero uno di noi. È introdotto e portato al mondo nella carne, attraverso la carne di Maria, la nostra: questa carne che ci appare talvolta così fragile, così dolorosa quando è ferita, così straziata quando soffre, così ribelle quando è provata. Una carne che, a volte, condiziona e porta al peccato. Non è forse – si dice – destinata alla perdizione, alla morte? Come può essere il luogo nel quale abita il Verbo?
Che mistero! Eppure: «Il Verbo si è fatto carne». Custodisco questa parola nello stupore e nella gratitudine.
Anche il nostro corpo è chiamato a mostrare tutta la bellezza dell’anima redenta, per il dono di nuova creazione. Nella risurrezione verrà glorificato quel corpo, troppo presto screditato come sorgente di peccato e tristemente opaco. E pensare che – ribadiamo – il Figlio di Dio l’ha voluto per amare da uomo in carne e ossa e per fare del corpo lo strumento della redenzione, la via della comunicazione d’amore. Certo, il corpo può essere asservito al peccato… e allora sono guai! L’anima è santa, ma il Creatore non spreca le sue meraviglie: anche la corporeità è santa e avrà, trasfigurata, lo stesso destino dell’anima. Perché l’uomo è uno. Molti cristiani – lo diciamo per inciso – si fermano alla considerazione dell’immortalità dell’anima (convinzione comune alle grandi religioni e data per certa anche dalla filosofia classica occidentale) e non osano spingersi nella prospettiva dischiusa dalla Parola di Dio; anche se, ogni domenica nella professione di fede, proclamano di credere nella risurrezione della carne.
L’incarnazione del Verbo è festa dell’amore di Dio per noi ed è festa per la nostra carne assunta dal Verbo. Nell’unità dell’unica persona del Cristo si dà uno scambio: O admirabile commercium! canta un’antifona del Natale. Il Verbo partecipa all’uomo la natura divina; l’uomo dà al Verbo la natura umana. L’esistenza di Gesù sarà per sempre un’esistenza corporea, non angelica!
 
Col Natale celebriamo l’anniversario della nascita di Gesù Cristo, ma celebriamo anche l’anniversario della nostra nascita soprannaturale. “Quando il Verbo viene al mondo, comincia il popolo cristiano; l’anniversario del capo è anniversario di tutto il popolo” (cfr. Leone Magno, Sermone per il Natale VI).
Questo corpo mistico è la Chiesa, in esso noi rinasciamo in virtù del Battesimo e continuiamo a rimanervi «non per volontà di carne, né per volontà di uomo», ma per una volontà divina. Mistico non vuol dire irreale. Dato che oggi è il nostro anniversario come membro del Corpo di Cristo, offriamoci  il dono dell’amore scambievole.
Non è il Natale la festa dei doni?

Omelia Messa di Natale: Messa di Mezzanotte

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di Pennabilli, 24 dicembre 2014 ore 23.30

Porto l’augurio del vostro parroco, Don Maurizio, impossibilitato ad essere presente fra noi per motivi di salute. Vi ricorda uno ad uno e prega per le vostre famiglie.
Oggi pomeriggio ho telefonato a mio fratello missionario che tra poche settimane ritorna in Congo per chiedergli che cosa dirà in questa notte di Natale: “Qual è il tuo messaggio?” – gli ho chiesto. Non gli ho nascosto, infatti, la mia preoccupazione per l’omelia da tenere in Cattedrale. La notte di Natale, infatti, è una notte speciale, ricca di contenuti: sento il dovere di riprenderli, commentarli, ricavarne suggestioni per la vita della Diocesi.
È una notte nella quale la Cattedrale è particolarmente affollata: voglio che ognuno si senta accolto. È la notte del censimento. Come Maria e Giuseppe si va al luogo delle proprie origini. Vorrei esplicitare per tutti, per chi è avvezzo a frequentare la Chiesa e per chi non lo è, la vitalità delle nostre comuni radici.
È una notte “da grande occasione”: desidero che ognuno senta una parola di luce per la sua vita. Presuppone una analisi della situazione…
È la mia prima volta, da vescovo, che celebro la notte di Natale.
Mio fratello, dopo avermi ascoltato, mi ricorda con soavità e decisione che nell’oggi della liturgia contempliamo il Cielo che si apre su di noi. Viviamo una “discesa”, la discesa di Dio verso noi. La “salita” di noi verso di Lui è in secondo piano.
Capisco allora che non mi devo preoccupare. Protagonista è il Signore che parlerà a ciascuno. Invito a contemplare la Natività.
Permettete che vi racconti  un episodio, allude al salto nella fede. Un giorno scoppiò un incendio in una palazzina. Gli inquilini, con grande scompiglio e fra le grida, scendono in strada. Portano con sè quel poco che hanno potuto recuperare. Ad un certo punto, si odono le grida di un bambino: “Aiuto”!
Mamma e papà sono in strada: è il loro bambino. Nel parapiglia generale il papà ha pensato che il bambino fosse con la mamma; la mamma che fosse con il papà. Il bambino spalanca la finestra, il fumo si è fatto irrespirabile. Il papà corre, vorrebbe entrare, ma un muro di fuoco gli preclude la salita. Restando in strada, allora, grida: “Buttati giù!”. Il bambino replica disperatamente: “Non posso. Non vedo nulla”. E il papà: “ Buttati, ti prendo!”. Il bambino protesta ancora la sua paura. Il papà insiste. Alla fine il bambino si fida, si getta senza vedere. Ed è tra le braccia del suo papà”.
Questa notte insieme con tutti voi mi getto fra le braccia di Dio. Mi fido, anche se non vedo. Fate anche voi così. È il mio messaggio di Natale.
Auguri!