Omelia nella Messa per l’Insediamento degli Ecc.mi Capitani Reggenti

San Marino Città (RSM), 1° aprile 2021

L’oracolo del profeta Isaia che abbiamo udito è scritto proprio per noi. Viene messa con le spalle al muro ogni forma di spiritualità che non sa accogliere il grido dei fratelli; ogni espressione religiosa avulsa dalla realtà; ogni amministrazione della giustizia e della cosa pubblica che non metta in cima alle sue preoccupazioni il bene di tutti, a partire da chi è più svantaggiato, da chi è oppresso, da chi manca del necessario, da chi è vittima della calunnia e dei sistemi mafiosi. Il profeta ci assicura che Dio vede al di là delle apparenze e conosce gli atteggiamenti autentici. Dio si lascia conquistare soltanto da un cuore giusto, aperto e generoso. Dio all’amore risponde con l’amore; alla misericordia con la misericordia. Ciò che conta è la realtà, la concretezza della vita quotidiana in cui l’uomo lavora, ama, perdona, rispetta diritti e doveri. Tutti siamo chiamati a collaborare per il bene comune, dando ciascuno il proprio contributo.

Nella Seconda Lettura che è stata proclamata – dalla Prima Lettera di San Giovanni – troviamo una delle provocazioni più forti del Nuovo Testamento: «Siamo passati dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli» (1Gv 3,14). Chi non ama rimane nella morte, anche se crede di vivere; costui non ha realizzato la sua vocazione più autentica. Chi ama, invece, vive davvero. Quando hai amato ed entri in te stesso puoi esclamare: «Questa sì che è vita!». Ma c’è un esodo da percorre, un passaggio da fare, una conversione a cui disporsi: questa, in ogni caso, è la decisione più importante, la più necessaria, la più utile, la più bella!
Bisogna, però, che l’amore sia reale, e non solo proclamato a parole. Si deve amare col cuore e con le mani, compiendo scelte concrete. Le conseguenze sono chiare. Se amando si possiede la vita e si è figli di Dio, occorre ottenere che anche i fratelli amino a loro volta. Così scatta la reciprocità: un tesoro buone di relazioni.
L’amore autentico non si accontenta di amare l’altro – amore che va – ma cerca che l’altro ami a sua volta – amore che viene –, perché soltanto così io e l’altro siamo figli di Dio, abbiamo in noi la vita e costruiamo la famiglia dei figli di Dio: un sociale fraterno.

Nel Vangelo Gesù racconta una parabola, la cosiddetta parabola del “buon samaritano”. È di duemila anni fa, ma chi la legge si sente interpellato personalmente. C’è un estraneo sulla strada. E ci sono altri personaggi che appaiono nella parabola: i briganti, coloro che passano oltre, l’uomo abbandonato e ferito. Di fronte a questa situazione possiamo chiederci: con chi mi identifico? Chi è il mio prossimo? Gesù non ci chiede chi sono i prossimi vicini a noi, ma di farci noi prossimi.
Oggi la vicenda del buon samaritano si ripete: vale per i discepoli di Gesù, ma vale per ogni uomo di buona volontà. Esorta ad essere parte attiva nella riabilitazione delle società ferite. In concreto, la parabola denuncia il determinismo che giustifica l’indifferenza, la tendenza assai diffusa a disinteressarsi degli altri, il chiudere gli occhi davanti all’esclusione, il non prendersi cura della partecipazione. All’amore non importa se il fratello ferito viene da qui o da là: all’amore importa rompere le catene e gettare ponti.
Una domanda quasi sussurrata all’orecchio di ciascuno di noi: passerai oltre o ti fermerai davanti ai feriti lungo la strada? L’unica via di uscita di fronte ad un mondo che soffre è fare come il buon samaritano: essere speranza in un mondo ferito.
Concludo con una preghiera, certo di trovare cuori che la pregano con me:

«Signore,
che io sappia accettare il rischio
di spalancare le braccia:
così creerò spazio in me, ma per l’altro.

Le mie braccia aperte, Signore,
dicono il mio desiderio di non restare solo
ed il mio invito perché l’altro
si senta a casa sua in casa mia.

Nello scambievole abbraccio
nessuno resterà come prima
perché ognuno arricchirà l’altro
e ambedue resteranno se stessi.
Amen».