Messaggio al mondo della Scuola

Cari amici,
l’anno scorso nel mio messaggio paragonavo la scuola ad un alveare.
L’idea mi era venuta passando accanto ad una scuola da cui usciva un sommesso ronzio. In quell’alveare, ho pensato, si fa sicuramente del buon miele. Gli ronzano attorno, alacremente, alunni, insegnanti, addetti al buon funzionamento, genitori. Anch’io, che passo per strada, godo di questo alveare e voglio contribuire con la mia attenzione e simpatia a quello che vi succede dentro: la scuola è bella!
Lo dico dopo averci passato i miei anni giovanili, dalla materna all’università. Ne sono convinto nonostante i problemi. Non ricordo più i momenti faticosi e, qualche volta, di terrore (vedi le interrogazioni di matematica!). Perfino gli insuccessi sono stati utili. A volte penso: «Se avessi giocato un po’ meno a pallone e studiato di più…». Tuttavia, la scuola mi ha dato strumenti e curiosità per coltivare il sapere. Chi sarei senza la scuola?
Quanti incontri, quanti amici, quante scoperte! Tutte le “materie” sono importanti: tutte servono per la vita e… per l’educazione alla pace: dalle lingue alla storia, dalle scienze alla religione, dalla musica alla tecnica, etc.
“In bocca al lupo” per il nuovo anno! Parola d’ordine: fare del buon miele.
Un grande maestro diceva a proposito della “fatica” che non può mancare: «Dove c’è l’amore non si sente la fatica e anche quando c’è la fatica si ama questa fatica (Sant’Agostino di Ippona, De bono viduitatis 21, 26, V sec.; per chi studia il latino: «Ubi amatur iam non laboratur et si laboratur etiam labor amatur»).
Ai più piccoli: non fate lo sbaglio di Pinocchio che a scuola non è entrato mai per seguire falsi amici. Ai più grandi: fate tesoro dell’esperienza di un grande filosofo che diceva che «la verità è come la scintilla che s’accende tra due pietre focaie», una metafora della necessità dell’incontro con l’altro (Platone, Lettera VII, IV sec. a.C.).
Ripasso sotto le finestre della vostra scuola e faccio una preghiera per voi. Chi crede nel Signore sa quanto è preziosa. Chi è di altra convinzione sarà contento di questo pensiero cortese.
La scuola è bella!

+ Andrea Turazzi
Vescovo di San Marino-Montefeltro

Omelia nella Messa di insediamento dei nuovi Capitani Reggenti

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Basilica del Santo Marino (RSM), 1 aprile 2016

Mt 18, 1-4

Quasi spintonandosi, gli apostoli si chiedono chi è il primo tra loro – così almeno nel racconto secondo Luca (cfr. Lc 9, 46-48). Qui invece, la domanda è posta meglio: «Chi è il primo nel Regno dei Cieli?». Chi dice “regno”, dice grandezza; ma Gesù si appresta a dire che non è questa l’unità di misura. E poi non argomenta con gli strumenti della Teologia, preferisce porre un gesto semplice, concreto, simbolico, “teatrale”: chiama un bambino e lo pone “nel mezzo”, davanti a tutti. Proviamo ad immaginare la scena. Un bambino intimidito, sorpreso, perplesso, che di colpo si trova messo davanti a tutti, forse a gente sconosciuta. Al tempo di Gesù, il bambino non era molto considerato: era una bocca in più da sfamare. Il bambino spesso è monello, non sta zitto, fa chiasso, è buono solo a piccoli servizi. Gesù dice: «Guardate, guardate bene questo bambino».
Non ci è stata riferita la reazione del bambino. Comunque, egli ha ascoltato la chiamata di Gesù, ha interrotto i suoi giochi – per un bambino sono una cosa seria – si è lasciato mettere nel mezzo, si è fidato. Amabilità di Gesù! Badate bene, non ho detto abilità di Gesù, ma amabilità. In verità, quel bambino, divenuto improvvisamente attore, ci rappresenta tutti e le parole dette in quella circostanza ci riguardano da vicino. Quel bambino, come tante altre figure anonime dei Vangeli, è tutt’altro che comparsa. È un modello e introduce nella scena un raggio di sole, una scena oscurata dalle beghe, dai litigi degli apostoli ancora in formazione (non è ancora accaduta la Pentecoste). Mi raffiguro Gesù che sorride davanti a tale scena, divertito da questo contrasto. «Chi è dunque il più grande nel Regno dei Cieli?». Domanda molto umana – direi di attualità – soprattutto nel nostro mondo caratterizzato da competizioni, concorrenze, sospetti, rivalità. Gesù mette in mezzo un bambino, cioè una fragilità, un’innocenza, una semplicità, un’umiltà. Sì, Gesù invita tutti noi a conversione, per diventare piccoli «come bambini», il che, ovviamente, non significa essere puerili e neppure esibire una fastidiosissima falsa umiltà. Si tratta, semplicemente, di spogliarci delle nostre presunzioni, delle nostre pretese di essere i migliori e di lasciar da parte i nostri giudizi sugli altri. Il bambino posto nel mezzo, al centro di quella drammatizzazione organizzata da Gesù, ci riporta la metafora della vita come palcoscenico, come teatro, metafora tanto cara a Shakespeare. Si entra in scena, si recita la propria parte, si esce di scena, più o meno drammaticamente. Il mondo, la nostra società, sono teatro e noi gli attori. La nostra Repubblica sicuramente è uno scenario e, in senso molto particolare, è spettacolare. Ciò è evidente in questa circostanza, non tanto per il folclore, ma per l’esperienza che ci fa vivere. I Capitani Reggenti si succedono investiti di un’autorità che viene data loro, perché è più grande di loro, li precede, e dovrà essere riconsegnata perché non è di loro proprietà. Sono a servizio di una maestà che non gli appartiene. E questo non è spettacolare? Inoltre, qui in Basilica e, prima e dopo nei palazzi istituzionali, si assiste al convenire di ambasciatori, rappresentanti di tante nazioni che l’antica Repubblica raduna ogni volta tessendo e rafforzando una rete di amicizie. E non è spettacolare questo? Il teatro, il palco, la scena, mettono in mostra e fanno interagire i personaggi, ognuno secondo la propria parte. Tale metafora ci responsabilizza: il popolo, i rappresentanti delle nazioni, i chiamati a governare e rappresentare la Repubblica, il Vescovo insieme al suo presbiterio, devono fare bene, tutti, la propria parte. Ed è per questo che chi è credente prega il Signore e chi è di altra convinzione si raccoglie silenzioso davanti alla propria coscienza. La metafora della vita come teatro suggerisce anche la possibilità – consentitemi – di cadere nell’ambiguità; la scena può essere calcata per mettersi in mostra, per mostrarsi non per quello che si è veramente e allora può essere l’occasione per andare a caccia di applausi, dunque finzione, col rischio – lo corriamo tutti – dell’ipocrisia. Recitiamo la parte di chi si sente a posto e magari attribuisce agli altri gli errori. Tutti abbiamo bisogno di conversione, di autenticità, di farci dono di reciproca fiducia. Tutti possiamo rimetterci alla scuola del “bambino evangelico”; è così che si entra nel Regno dei Cieli – questione centrale per un cristiano – così s’accorciano le distanze e si realizza la preghiera di Gesù: «Che avvenga in terra come in cielo» (Mt 6,10). Ce l’ottenga l’intercessione di Santa Teresa di Lisieux che oggi ricordiamo come modello dell’infanzia evangelica. Così sia.