Omelia nella XXX domenica del Tempo Ordinario

Frontino, 28 ottobre 2018

Chiusura della Visita Pastorale alle parrocchie di Frontino, San Sisto, Monastero

Ger 31,7-9
Sal 125
Eb 5,1-6
Mc 10,46-52

(da registrazione)

Venerdì sera ho incontrato i bambini e i ragazzi con le loro catechiste. Ho rivolto loro alcune domande; ho chiesto di raccontare qualche parabola di Gesù, i miracoli che ha compiuto e, infine, ho chiesto se ricordavano qualche frase del Vangelo. Hanno raccontato molte parabole e miracoli, mentre hanno fatto fatica ad enunciare qualche frase. Mi è capitato di fare la stessa esperienza nelle parrocchie con gli adulti e mi sono accorto che tutti facciamo fatica a ricordare frasi. Le frasi che si ricordano di più sono quelle che si sono vissute. Quando viviamo una parola di Gesù, quella parola si imprime nella mente, nella memoria e nel cuore.

Oggi, il racconto del Vangelo di Marco ci fa imbattere in un disperato, un miserabile di cui non si dice neppure il nome; si ribadisce solo chi è suo padre: è «figlio di Timèo, Bartimèo (che significa “figlio di Timèo”)» (Mc 10,46), però del padre non si sa nulla. L’uomo è solo, ai margini della strada, cieco; ha un mantello che mette davanti a sé perché la gente vi getti qualche spicciolo. È ai margini della strada, ai margini della società, ai margini della vita, campa per miracolo, come gli uccelli nel cielo…

Ci sono, davanti a lui, tre reazioni. La prima è la reazione di quelli che gli passano davanti. Erano quelli che stavano con Gesù, che guardavano Gesù, che volevano ascoltare Gesù, ma di fronte a questo cieco sono del tutto indifferenti. È come se dicessero: «Sei nato cieco, è un problema tuo, non mio». Tra loro c’erano gli apostoli, i discepoli, le donne, tanta gente sorpresa da Gesù e interessatissima a lui, come possono essere oggi i vescovi, i sacerdoti, gli aderenti all’Azione Cattolica o alle Confraternite, il Terz’Ordine francescano, ecc. Tutte persone in ascolto di Gesù, ma – ahimè – incapaci di stupirsi, di commuoversi per quel cieco che sta ai margini della strada e che grida. È interessante questa “patologia spirituale”. Come fanno ad amare Gesù che non si vede, se non amano il prossimo sofferente che si vede. È uno dei problemi della vita cristiana: amare Dio e non accorgersi del prossimo che sta accanto. Mi viene in mente la frase della Divina Commedia: «Non ragioniam di lor, ma guarda e passa» (Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inf. III,51). Tante volte siamo così.

C’è una seconda reazione ed è la reazione di quelli che si accorgono di questo cieco che grida, che è disperato e solo. Tutti sanno il nome del padre, ma il padre non c’è. Sta affrontando la sua disgrazia in totale solitudine. Lo vedono e gli dicono: «Sta’ zitto! Perché fai del chiasso?» (cfr. Mc 10,48). Non volevano che gridasse perché disturbava. Come a dire: «Hai questo destino, prendine atto e sta nel tuo cantuccio». Questo atteggiamento capita anche a noi, alla Chiesa di oggi, ai sacerdoti. Chi è, in fondo, il cieco ai margini della strada che grida la sua disperazione? È l’uomo di oggi; è la nostra gioventù. Tante volte noi non consentiamo ai giovani di esprimersi e scarichiamo su di loro valanghe di divieti, di proibizioni, di regole. Loro hanno la percezione che noi siamo di quelli che dicono: «Sta’ zitto, sta’ buono… ». Magari noi non lo facciamo con questa intenzione e, sicuramente, servono anche le regole. Ma non dobbiamo impedire che la creatura, anche la più sfortunata, la più lontana dalla fede, sbocci, si apra. C’è una gradualità nella vita cristiana, un cammino da compiere, pertanto occorrerebbe che quelli che vanno dietro a Gesù fossero persone che non giudicano, che non condannano, che non mettono subito davanti regole, ma che incoraggiano.

Racconto un fatterello di quando ero parroco. Una domenica alla Messa vidi un giovanotto elegante in fondo alla chiesa. Non l’avevo mai visto prima. Al termine della celebrazione sono andato a presentarmi. Mi ha detto che era appena venuto ad abitare a Ferrara. Era un ingegnere della Montedison. Gli chiesi come mai fosse venuto proprio in quella chiesa. Mi disse che non era praticante, ma era entrato per caso e una signora gli era venuta incontro con un bel sorriso, lo aveva accolto e gli aveva dato persino il foglietto per seguire meglio la Messa. Si sentì di rispondere alla cortesia con cortesia. Poi vide tanti ragazzi che cantavano. Gli piacque subito quella comunità. Allora gli dissi che tutti i martedì sera si teneva in parrocchia l’incontro dei “giovani adulti” e lo invitai a partecipare. Il martedì seguente venne; ci siamo conosciuti, ha iniziato a frequentare la parrocchia e ha chiesto di poter ricevere la Cresima. È stato molto bello. Se quel giorno fosse entrato in chiesa e non lo avesse considerato nessuno o se il parroco lo avesse sgridato perché non veniva mai alla Messa, credo che non avrebbe mai più messo piede in parrocchia. Invece, quell’accoglienza spontanea gli ha permesso di iniziare un cammino.

Il terzo tipo di reazione è quella di chi va dal cieco e gli dice: «Coraggio, alzati, ti chiama!» (Mc 10,49). Magari tutti avessimo questo atteggiamento! Non è il grido del povero cieco che suscita in loro questa reazione positiva, ma è l’atteggiamento di Gesù, che, quando passa, sentendo il grido: «Gesù, Figlio di Davide, abbi pietà di me», si ferma, si avvicina, cerca il rapporto. Gesù fa in modo che la persona venga fuori dall’anonimato, dalla realtà amorfa che è la folla; cerca di guardarlo negli occhi e si interessa di lui. «Che cosa vuoi che io ti faccia?» (Mc 10,51), gli dice. E il cieco chiede la vista.

La finale è sorprendente. Il cieco recupera la vista e Gesù dice: «La tua fede ti ha salvato» (Mc 10,52). Ma quale fede? Il cieco non ha fatto nessuna professione di fede formale; non faceva parte del gruppo dei discepoli, non era un seguace di Gesù. Solo in virtù del rapporto personale che Gesù stabilisce, butta via il mantello e comincia a seguirlo per la strada. Da mendicante solo, sfortunato, lungo una strada, diventa discepolo. C’è una metamorfosi, un cambiamento: è opera di Gesù, ma è opera anche della testimonianza di quelli che, vedendo Gesù che cercava il rapporto, sono andati dal cieco e gli hanno detto: «Coraggio, alzati, ti chiama!».

Vi lascio tre parole. La prima: essere prossimi. Il prossimo non è l’altro: sono io che mi devo fare prossimo.
La seconda è mettere in evidenza il positivo, essere di quelli che non inibiscono, che non frenano ma incoraggiano.
Racconto un ultimo episodio. Ho fatto da postulatore della causa di un santo parroco. Ogni parroco, dopo un funerale, ha il compito di scrivere nel registro dei defunti il nome e il cognome del defunto e i suoi dati personali. Nei registri dei funerali, a piè di pagina compare la voce “annotazioni”. In quello spazio, il parroco, se lo desidera, può annotare una breve descrizione del defunto. Don Dario – così si chiama quel parroco – era solito mettere in evidenza di ogni persona una caratteristica positiva; ad esempio, sebbene sapesse che una persona non veniva mai in chiesa, che era conosciuta come gran bestemmiatore, contadino sui monti attorno alla sua città, di lui scrisse: «Uomo molto attaccato alla sua famiglia», oppure sebbene conoscesse la fama di gran bevitore di un signore del paese, di lui trovarono scritto che era un «gran lavoratore». Di ognuno sapeva vedere il positivo.
Terza parola: offrire la nostra testimonianza, essere persone che invitano, che testimoniano non con le parole ma con la vita. Anche per noi è stato così, anche noi siamo dei ciechi, ai margini, ma c’è stato qualcuno che ci ha incoraggiato e ci ha detto: «Coraggio, alzati, chiama te!».

Adesioni AC

Convegno Settore Giovani AC

Omelia nel conferimento della cura pastorale della parrocchia dei Santi Pietro, Marino e Leone di San Marino Città a don Marco Mazzanti sdb

XIX domenica del Tempo Ordinario

Is 53,10-11
Sal 32
Eb 4,14-16
Mc 10,35-45

Gesù accondiscende alla preghiera di Giacomo e di Giovanni: «Che cosa volete che io faccia per voi?» (Mc 10,36). Gesù è disposto ad esaudirli. I due apostoli, fratelli, ci fanno sorridere per il loro candore: «Vogliamo sedere nella tua gloria uno a destra e uno a sinistra». Nella Bibbia la gloria di Dio non è la fama o la celebrità, ma la presenza luminosa, attiva e potente di Dio. La gloria, ad esempio, si è manifestata nello splendore del Sinai, il santo monte, poi nella nube lungo i sentieri dell’Esodo. I Salmi cantano i cieli che proclamano la gloria di Dio. Potremmo dire che la gloria è l’essenza stessa di Dio nel suo manifestarsi come presenza amorosa accanto al suo popolo e, quando è necessario, contro i nemici. Ma l’evangelista Giovanni, un giorno, dopo la lezione impartita dal Maestro, spiegherà che la gloria di Dio ha preso forma: la forma dell’umanità di Gesù, che è il sacramento dell’incontro con Dio. Dio adesso ha il volto di Gesù, non è qualcosa di inimmaginabile. Dunque, la gloria è mistero, presenza, prossimità… Ecco la gloria di Dio: il sorprendente modo di fare di Dio!
I discepoli, ancora in cammino, hanno equivocato; hanno pensato la gloria alla maniera umana. Ma la lezione è chiarissima, lampante: «Chi vuol essere il primo tra voi sia il servo di tutti» (Mc 10,44). Nonostante la gelosia che i due fratelli Giacomo e Giovanni hanno scatenato nel gruppo, ci riescono simpatici. Con fierezza, infatti, dichiarano a Gesù che sono pronti a tutto, anche a bere il calice. Fierezza nel proponimento e insistenza fiduciosa nella loro preghiera: «Vogliamo che tu ci conceda quello che ti chiediamo». Non aveva detto Gesù: «Chiedete e otterrete»? (Mt 7,7). Pregare non è pretendere che Dio faccia quello che vogliamo noi, ma disporsi a fare quello che lui vuole da noi, come insegna la preghiera del Padre Nostro: «Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra» (Mt 6,10). Così ha pregato Gesù nel Getsemani: «Abbà, Padre, tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu» (Mt 26,39). Gesù parlando di un calice allude alla Passione; un calice amaro di tutto il fiele che è nel mondo.
Impariamo un’altra cosa: la gloria di Gesù è nel dono della sua vita. Una vita “rapita” per chi lo uccide, ma “donata” nell’interpretazione che dà Gesù. Da qui l’insegnamento del Signore sull’autorità. Autorità come servizio. Dio si è posto non sopra ma davanti; Gesù si pone ai nostri piedi e li lava: ci guarda dal basso! Il padrone fa paura, il servo no: il Vangelo sancisce la fine della paura di Dio. Il padrone esige e pretende per sé, il servo si impegna e vive per un altro. Il padrone si serve degli altri, Gesù fa sua la nostra causa. Il padrone giudica e castiga, Gesù perdona e soccorre. Il padrone vuol vedere i frutti, il Signore è seminatore.
Autorità che fa crescere. Fa sì che ognuno dia il meglio di sé, metta in gioco i suoi talenti. L’autorità vera non è mai autoritarismo, ma autorevolezza! Sa vedere il positivo e promuove… come don Bosco!
Autorità come dono di sé. «Il figlio dell’uomo è venuto per servire e dare la sua vita»: il parroco dirige, insegna, è competente, ma nello spirito del servizio e nella dimenticanza di sé per fare posto. Ora comprendiamo il senso evangelico del “potere”: il potere di amare.

Siamo qui questa sera per compiere un gesto che ricorda le investiture che si facevano nell’antichità. Consegnerò delle chiavi a don Marco. Le chiavi possono essere simbolo di potere. Un giorno Gesù disse a Pietro: «A te darò le chiavi… » (Mt 16,19). Così anche agli apostoli: «In verità vi dico, tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in Cielo e quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche nei Cieli» (Mt 18,18). Si tratta del potere come lo intende Gesù, come servizio, come dono di sé, come calice.
Consegnerò a don Marco due chiavi, la terza dovrete consegnarla voi, anche a nome di coloro che non sono presenti questa sera. La prima chiave che gli darò è quella della chiesa, della vostra chiesa, che vi accoglie e che vi sta tanto a cuore, che è il vostro gioiello, la vostra fierezza, il luogo a voi più caro. È la casa che accoglie i bimbi nel giorno del loro Battesimo, i fanciulli per la Prima Comunione, gli adolescenti per la Cresima. È spalancata per la Messa domenicale, per le feste della comunità e della famiglia, per i matrimoni. Tutti raduna per accompagnare i defunti al cospetto di Colui che accoglie misericordioso. Ma questa chiesa è di pietra ed è solo un segno; le pietre vive siete voi, che con la Parola di Dio e con i sacramenti avete sempre più autocoscienza di essere il popolo di Dio, il Corpo di Cristo, il Tempio dello Spirito Santo. In questa chiesa, il parroco, in mezzo a voi, anzitutto prega, adora, con voi, per voi. A don Marco dico: «Abbi cura di tutti, facendoti aiutare dai Consigli pastorale e degli affari economici per il discernimento comunitario ed amministrativo». A voi dico di corrispondere al vostro parroco, di collaborare, sì da essere tutti insieme «un cuor solo ed un’anima sola» (At 4,32). Per vivere quella sfida che si chiama sinodalità.
Consegnerò un’altra chiave: quella del Tabernacolo (il luogo dove conserviamo l’Eucaristia). Insieme con la Parola, l’Eucaristia ci fa comunità, ci fa famiglia. Il parroco custodisce il Tabernacolo come il cuore della Chiesa, cuore della comunità. L’Eucaristia è tutto per la Chiesa, tutto per il cristiano, perché è Gesù. Adoratela, onoratela, contemplatela insieme al vostro parroco.
C’è una terza chiave: non posso dartela, caro don Marco. È la chiave che possono darti solo i tuoi parrocchiani: la chiave dei loro cuori. Ognuno di voi ha la chiave del suo cuore: consegnatela, pieni di fiducia, al vostro nuovo parroco. Con la chiave che metterete nelle sue mani lui potrà entrare in voi, ascoltare le vostre confidenze, accogliere le vostre domande.
Tra poco accompagnerò don Marco al confessionale e metterò sulle sue spalle una “sciarpa” color viola; si chiama stola: è il segno della potestà di rimettere i peccati, ma anche di consolare, di guidare coscienze, di sostenere con la direzione spirituale.
Sono certo, don Marco, che i tuoi parrocchiani, con fiducia e schiettezza, metteranno nelle tue mani la chiave dei loro cuori; incontreranno, attraverso di te, la misericordia del Padre e non dovranno temere nel confidare fragilità e dubbi. Darai tanto a loro, ne sono certo. E altrettanto riceverai da loro. Crescerà, giorno dopo giorno, l’affezione. E, del resto – si sa – il cuore è il cuore: ha i suoi ritmi e i suoi tempi, ha bisogno di ricevere e di dare. Tu, don Marco, prenderai «l’odore di queste pecore» e loro da te prenderanno la sicurezza che la tua fede e la tua personalità sapranno infondere.
Ti affido un altro compito. Ti chiedo di avere a cuore le vocazioni: tutte, quelle religiose, quelle missionarie, quelle contemplative e quelle al sacerdozio. E a tutti chiedo di avere cara la vocazione al sacerdozio. Abbiamo tanto bisogno della presenza del sacerdote. Ce ne accorgiamo di più quando non c’è. Il sacerdote ci dà l’Eucaristia, tiene unita la comunità, pronuncia a nome di Gesù le parole che ci sono indispensabili: «Io ti perdono… da tutti i tuoi peccati». Così sia.

Oreb

Veglia per la vita nascente

Ritiri di Avvento per sposi e fidanzati

Convegno adulti AC

Incontro con Costanza Miriano

Omelia nella S. Messa di Chiusura della Settimana in onore della Madonna delle Grazie

Ferrara (Cattedrale), 14 ottobre 2018

Ester 8,3-8.16-17
Sal 66
Ef 1,3-6.11-12
Gv 2,1-11

Eccellenza carissima,
ti ringrazio molto dell’invito; è molto bello per  me essere qui questa sera, anche se non posso fare la tenda, perché sono missionario. Lo desideravo tanto da bambino e ora mi è possibile, vado in missione. Permettimi, prima di commentare la Parola di Dio, di lasciar partire un pensiero verso i tanti fratelli e sorelle, amici, maestri, a cui continuo a voler bene, e anche a quanti non ritrovo; per ultimo il carissimo don Marcello, parroco di Bondeno.

Oggi la Chiesa è in grande festa per sette nuove canonizzazioni. Tra i nuovi santi, Papa Montini. Le persone più mature ricordano certamente la sua persona, le tempeste che ha dovuto attraversare. Mi verrebbe quasi da chiedere se è stato più martire Paolo VI o San Oscar Romero. Prego con voi per il Santo Padre, il Pietro di oggi, Papa Francesco. Vorrei che gli fossimo vicini, come Maria sotto la croce che l’umanità sta vivendo nelle guerre, nei profughi, nei tanti poveri nel mondo, nelle difficoltà e nelle disunità che patisce la Chiesa. Grazie Santo Padre. Vediamo in te il volto misericordioso di Gesù e sentiamo il tuo desiderio di costruire ponti, di sciogliere nodi e catene che riducono le energie sul cammino verso la fraternità. La società di oggi vive tanti cambiamenti e sente, Santo Padre, il dono della tua parola. Vede in te la bussola che nella verità del Vangelo sine glossa porta ad accogliere, sprona al coraggio di affrontare le sfide, si alza per difendere la vita fin dal primo concepimento e anche nel saper vedere nelle inquietudini un motore educativo nello spirito del dialogo con tutti. Penso al Sinodo dei giovani che si svolge in questi giorni. Si sta rivelando sempre di più un Sinodo sugli adulti, perché il problema pare che siamo proprio noi adulti.

La liturgia di questa sera ci fa leggere una pagina del libro di Ester, un libro della Bibbia scritto per tempi difficili come i nostri. La protagonista, Ester, è una ragazza orfana che porta scritta nella sua storia la sofferta realtà della diaspora giudaica (l’esilio). La sua vicenda, ambientata nei sontuosi palazzi del re di Persia, assomiglia – spero che gli esegeti non mi sgridino – alla fiaba di Cenerentola: anche qui c’è un capovolgimento delle sorti. In breve: la splendida regina Vasti si rifiuta di comparire davanti al re che vuole mostrare al popolo e ai capi la sua bellezza. «È un oltraggio», gridano i saggi di corte. Si deve immediatamente sostituire l’orgogliosa regina. Viene bandito allora un concorso di bellezza: la più bella sarà regina al posto di Vasti. Anche la piccola Ester – il suo nome significa “Stella” – viene iscritta dallo zio che l’ha presa a casa sua da quando è rimasta sola e orfana. Il re rimane conquistato dalla sua bellezza e la vuole regina, accanto a lui. Intanto a corte un potente ministro del re, Amàn, sta organizzando un programma di sterminio degli Ebrei. Lo zio di Ester riconosce provvidenziale l’elezione della nipote: il Signore vuol servirsi di lei per salvare il suo popolo (Ester come Mosè!). E così accade: il popolo è salvo e lo zio di Ester viene esaltato mentre il cattivo ministro viene punito. Per i Giudei era spuntata una luce, una stella: ci fu letizia, esultanza, onore. La liturgia ci fa vedere nella provvidenziale intercessione di Ester il ruolo di Maria presso il Signore che l’ha voluta come tenerissima madre e regina, accanto a Lui e accanto a noi. Perché ricorrere a Maria? Forse che il Signore ha bisogno d’essere convinto? Sarebbe puerile pensarlo. L’Onnipotente vuole piuttosto coinvolgere la creatura nel suo piano d’amore e Maria in esso ha un posto singolare. La preghiera e il coraggio della piccola Ester sono figura della tenerezza e dell’amore di Maria. A Ferrara la chiamiamo: Madonna delle Grazie. Ho visto il bellissimo manifesto con tutte le immagini di Maria nel nostro territorio; una più significativa dell’altra, ognuna legata anche ad un evento fondatore della devozione in quel mondo. Ci fu un tempo in cui un’immagine di Maria stava all’ingresso della Cattedrale. Era chiamata la “Madonna del cantone”. I ferraresi, prima di salire verso il Signore, in questa infinita cattedrale, sostavano davanti a lei: erano certi che le cose erano fatte, si erano rivolti a lei… Non fu così anche alle nozze di Cana? La premura di Maria spostò in avanti le lancette dell’ora di Gesù!

Cana. C’è una festa di nozze; ce lo racconta l’evangelista Giovanni: una festa di paese, con tanti invitati. E lì viene proclamato il Vangelo dell’amore sponsale: Maria è sposa ed è attenta a quello che accade attorno a lei: un’attenzione servizievole e premurosa. Spicca il suo senso pratico. Previene l’imbarazzo degli sposi novelli. Anche qui c’è ancora una parola della madre verso il figlio Gesù: «Non hanno vino» (Gv 2,3). Sa che nella vita di ognuno l’amore può venir meno come il vino delle nozze. L’amore sulla terra è a rischio. La diminuzione, il venir meno, il tramontare sembrano una costante per le esperienze umane. Maria, a Cana, non si rassegna; sente che le cose possono andare diversamente: dal debole al forte, dal poco al tanto, dall’acqua al vino, dalla fragilità alla santità. Gesù, allora, interviene. Sarà il suo primo miracolo. Ma c’è una parola della Madre anche per i servi – e per noi – indaffarati tra i tavoli del ricevimento: «Fate tutto quello che lui vi dirà» (Gv 2,5). Nel racconto è prefigurata la vocazione di Maria ad una maternità universale: parlerà al suo figlio di noi e parlerà a noi di lui. Maria, Madre delle Grazie, prega per noi.