Omelia nella Festa di San Marino

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Basilica del Santo (RSM), 3 settembre 2016

Mt 5,13-16

È molto significativo il gesto simbolico col quale il diacono scioglie i nodi che tengono serrato il libro dei Vangeli. Ed è proprio con la forza del Vangelo che abbiamo potuto cantare insieme, alternandoci al coro, il ritornello del Salmo 86: «Le mie sorgenti sono in te, città di Dio». È la prima volta che mi rivolgo al mio popolo e ai miei presbiteri dopo il terremoto che ci ha resi tutti un po’ marchigiani, laziali e umbri. Mi rendo conto di come l’informazione sui fatti del terremoto pian piano abbandoni la prima pagina dei quotidiani, vada in seconda pagina, scivoli in terza e poi sparisca. Mentre chi è nella sofferenza e nella prova continua a lottare. Vogliamo esprimere tutta la nostra vicinanza. Ai nostri antenati è capitato di abitare una bellissima penisola, distesa interamente sul mare e baciata dal sole. Molti l’hanno corteggiata: spagnoli, francesi, tedeschi. C’è chi è venuto da lontano per occuparla con imprese rocambolesche (Annibale, Napoleone, etc.). Ma questa penisola è tra i siti a più alto rischio per quanto riguarda eventi sismici. Non passa che un pugno di anni senza che la terra torni a tremare. Crollano case, chiese, scuole, torri, municipi. Si spalancano crepe profonde, si celebra la conta dei morti e ci si fanno tante domande. Come prevedere e prevenire? Come soccorrere efficacemente? Come ricostruire, con quali modelli? Se la natura si chiama “provvidenza”, la società deve chiamarsi “previdenza” (Victor Hugo). Il credente, poi, ha ulteriori domande. Perché il Signore lascia i suoi figli cadere nella trappola di un gigante oscuro? E perché nell’ora più impensata? Come vivere da credenti una tale tragedia? La prima risposta è sicuramente la solidarietà. Si piange con chi piange. Si prega. Ci si mobilita. Per quanto possibile si condivide. La fede ci aiuta pian piano ad elaborare il terremoto. La nostra vita sulla terra – si sa – è caduca, in balia di mille eventualità, scandita da tanti addii, tribolata anche da terremoti familiari e personali ugualmente devastanti. Ammonisce la Scrittura: «Non abbiamo quaggiù una stabile dimora» (Ebr 13,14). Siamo di passaggio. Allora quanto stolte sono le nostre presunzioni, quanto ridicole le nostre meschinità e quanto insensate le iniziative di guerra, di terrorismo, che devastano interi paesi e città. Tutte disobbedienze. E com’è disobbediente la terra che trema ed esercita, in qualche modo, la sua ribellione! L’anima credente s’acquieta alzando lo sguardo verso l’eterno e, pensando ai caduti, confessa nella fede «sono tutti vivi nel Signore», e prega: «Solo tu, Signore, non passi».

Nei Vangeli c’è un racconto di cronaca nera riferito tempestivamente a Gesù. Diciotto persone sono morte nel crollo di una torre; si vuole una presa di posizione da parte del Maestro. Tra gli inquisitori c’è qualche “teologo da strapazzo” che vuol fare il paladino di Dio, quasi che Dio abbia bisogno di un difensore d’ufficio, e cerca a chi dar la colpa. E poi perché proprio a quei diciotto e non ad altri? Gesù risponde andando ben oltre: quei malcapitati non erano più peccatori degli altri e gli altri scampati non erano i più santi, cioè non si deve leggere la disgrazia come intervento della giustizia divina, semmai come occasione per fare discernimento, per guardarsi dentro, per riproporsi ciò che resta ed è essenziale. Se suona una campana a morto non chiederti per chi suona, suona per te (H. Hemingway). I suoi rintocchi sono altrettanti inviti alla conversione. Alludendo anche all’esperienza del terremoto dell’Emilia, ho visto crollare tabernacoli con i cibori pieni di Eucaristia e ostie consacrate tra i calcinacci. Quelle ostie sono presenza di un Dio terremotato.

È festa per la nostra comunità, ma non possiamo non calare queste considerazioni in rapporto a quel che si vive in casa nostra. Anche noi abbiamo i nostri “terremoti”. Stando accanto a chi ha perso tutto si relativizzano i nostri problemi e siamo spinti ad avere una percezione più equilibrata della realtà. Abbiamo vissuto in passato livelli piuttosto alti di vita economica. Oggi le cose stanno cambiando, ma guardiamo alla quotidianità e alla situazione in cui versa il paese a noi più vicino, l’Italia, a cominciare da quell’Italia con cui facciamo diocesi: la Val Conca, la Val Foglia, la Val Marecchia, in una parola il Montefeltro. La Caritas diocesana potrebbe fornirci ragguagli interessanti in merito.

In un’unica Solennità celebriamo oggi la fondazione della nostra comunità civile e il santo suo fondatore, Marino. Nella stessa comunità la dimensione religiosa e quella civile si sono intrecciate. Unite, ma non confuse, inseparabili ma senza prevaricazioni. San Marino non intese fondare una comunità religiosa come un monastero a cielo aperto, un sistema integralistico, ma una società fraterna, dove si dà «a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» (Mt 22,21). Da sempre la nostra tradizione ha promosso, più o meno consapevolmente e più o meno felicemente, il valore della laicità, facendo vivere insieme persone di diverse sensibilità e orientamenti. Questa laicità trae uno dei suoi punti di forza da una visione integrale della persona, propria dell’antropologia cristiana.
Chi non è credente non tema le radici cristiane della nostra comunità, è proprio su queste radici che si fonda il rispetto e la libertà di ognuno. La nostra libertà è reale non per la concessione di qualcuno, ma perché fondata sulla dignità della persona.
Chi è credente deve contare sul rispetto e sulla considerazione di chi afferma il valore della laicità.
Laicità è anzitutto accoglienza dell’altro col suo patrimonio ideale e la sua storia, i suoi diritti ad avere spazi e mezzi, insieme ai doveri. La vera laicità è molto più della tolleranza, perché è simpatia verso il dono che ognuno può portare all’insieme.
Credenti e non credenti non nascondiamo le nostre origini da un santo della Chiesa cattolica. Anche questo fa parte della nostra peculiarità, ci costituisce – appunto – sammarinesi. Talvolta c’è una voglia di emancipazione che assomiglia a quella degli adolescenti dai loro familiari. Dalle crepe del nostro “terremoto sociale”, vedo che c’è bisogno di riconciliazione fra tutti. Stiamo vivendo una stagione caratterizzata da rivalse, litigiosità, forse anche vendette. Questa è la nostra più grande povertà.

Oggi siamo tutti in festa. Scambiamoci un regalo: il regalo della reciproca stima accompagnata dalla messa a disposizione del meglio di noi stessi. La processione che faremo al termine della Messa è, per noi credenti, il segno di Dio che visita il suo popolo e che, attraverso San Marino, benedice tutti. Così sia.