Omelia nella IV domenica del Tempo Ordinario

Maciano (RN), Convento Santa Maria dell’Oliva, 30 gennaio 2022

S.Messa in memoria della Beata Maria Bolognesi

Ger 1,4-5.17-19
Sal 70
1Cor 12,31-13,13
Lc 4,21-30

È l’evangelista Luca che quest’anno ci fa conoscere un altro profilo di Gesù. Durante il tempo natalizio ci ha informato sulla sua nascita: Luca racconta tutto con gli occhiali della risurrezione – è testimone di come Gesù è risorto, è vivo – e quindi racconta anche l’infanzia in questa ottica. Il Bambino adagiato nella mangiatoia è il Signore deposto nel sepolcro. Il Signore che viene accompagnato al Tempio è il Messia che prende il suo posto nella Casa del Padre. Poi, sembra esserci un grande silenzio, per trent’anni: la vita di Nazaret. Per la cronaca sono trent’anni di silenzio, ma in verità quei trent’anni anni sono un urlo, perché Gesù proclama con la sua vita il valore del quotidiano, della famiglia, del lavoro, con tutte le virtù che vediamo concentrate nella casa di Nazaret. Poi, Gesù scende al fiume Giordano e lo oltrepassa. Qui Giovanni Battista lo accompagna e c’è la grande rivelazione: quel Gesù, figlio del falegname che vive a Nazaret è il Messia, il Figlio di Dio su cui è scesa visibilmente la presenza dello Spirito. Però dovrà attraversare il deserto, proprio come il popolo d’Israele; dovrà essere provato per farci vedere come si vive da figli, cioè nell’abbandono fiducioso al Padre.

Da quel momento comincia la vita profetica di Gesù. Avete sentito il profeta Geremia nella Prima Lettura: «Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto…». Questo è vero in modo eminente per Gesù. «Prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato e ti ho stabilito profeta delle nazioni». Poi, il profeta Geremia continua con un invito al coraggio. L’evangelista Luca racconta come Gesù lascia il Giordano, il deserto e le rive del lago, dove ha già fatto dei miracoli e radunato un drappello di compagni di viaggio (gli apostoli) e va a Nazaret, torna al suo villaggio, preceduto da una certa fama. Lo invitano in sinagoga, a leggere le Sacre Scritture – forse l’aveva fatto anche altre volte – e a prendere la parola: «Lo Spirito del Signore è su di me, mi manda per annunciare ai poveri la tenerezza di Dio, la luce per chi è nel buio, la libertà per chi è oppresso, un anno di grazia per tutti». I presenti sono ammirati: Gesù ha fatto un discorso eccellente, ma dopo un po’ le cose cambiano. I suoi concittadini sono in difficoltà su due punti; è importante saperlo, non è un pettegolezzo del passato, forse sono gli “inciampi” che proviamo anche noi nell’accettare totalmente Gesù, senza riserve.

Primo “inciampo”: «Gesù, tu dici cose meravigliose, ma chi ti credi di essere? Stai usando un tono così definitivo che ci sembra pretenzioso. Dici che oggi si è adempiuta questa scrittura… Vola basso, sei il figlio di Giuseppe, il falegname!». Il primo “inciampo” è la difficoltà ad accettare che il profeta Gesù, che si rivelerà pienamente nella sua identità di Messia, è un uomo comune, è uno del posto, uno che vive accanto a tutti: cosa può avere di così speciale? Questo capita anche tra di noi… Terribile l’invidia: è un meccanismo che si subisce, ma di cui bisogna prendere coscienza, soprattutto quando si è alla pari in una famiglia, in una comunità, in una diocesi, tra colleghi e ci si confronta. Se non lo si rimuove, cresce e fa disastri. Di chi ci sorpassa si dice: «Quello è un arrivista! Chi si crede di essere!».

Ho fatto un’esperienza come postulatore per la beatificazione di un parroco che aveva dodici piccole parrocchie sull’appennino parmense. Ho ricevuto lettere di alcuni che pensavano che quel sacerdote non fosse poi così speciale. Era un sant’uomo, amava molto i poveri; raccontano che, quando scendeva in città a Parma dava via tutto quello che aveva e doveva chiedere in prestito i soldi per pagarsi il biglietto per poter tornare. Però era un sacerdote “normale”. La santità non consiste nel far cose mirabolanti. Padre Raffaele, parlandoci della beata Maria Bolognesi, ha riferito che neppure i suoi famigliari sapevano che aveva dei doni mistici. Io, ad esempio, rimasi molto sorpreso: sapevo che, in alcuni momenti, soprattutto in Quaresima, riviveva la coronazione di spine, ma, incontrandola, mi accorsi che aveva una fronte bellissima. Quando è stata beatificata – ero presente alla cerimonia a Rovigo il 7 settembre 2013 – ricordo che mi venne un gran desiderio di santità, di darmi a Dio per davvero. Fu una grazia attuale data attraverso di lei. Ho capito che la santità è per tutti, è praticabile.

Il secondo “inciampo” per i nazaretani fu questo (complice Gesù): per parlare della tenerezza di Dio Gesù è ricorso a due esempi che non sono piaciuti. Gli ascoltatori non si accorgono che Gesù parla proprio di loro. Sono loro i ciechi, i lebbrosi, i poveri che devono aspettarsi la tenerezza di Dio. Gesù parla per loro, per offrire loro l’amore di Dio. Gesù fa l’esempio del profeta Elia che va a Sidone, città della Fenicia, dove ci sono stranieri, pagani, lontani. I nazaretani non amano essere paragonati ai pagani. Gesù fa un altro esempio: Eliseo fa sentire la prossimità di Dio a Nàaman, un pagano, un nemico, un siro. I nazaretani non capiscono questa abbondanza di grazia fuori dal loro cerchio. Ma il Signore non conosce frontiere!

Vi invito a rileggere l’Inno alla carità (Prima Lettera di San Paolo ai Corinti). Comincia con l’ultimo versetto del capitolo 12: «Aspirate ai doni più grandi». Poi nel capitolo 13 Paolo fa l’elenco di tutti i doni straordinari, concludendo che quello che vale è l’amore. Tutti siamo capaci di amare, perché siamo stati fatti ad immagine di Dio, di Dio-Amore. Dio non ci chiede di essere artisti, cantanti, presidenti della Repubblica… ci chiede di amare. E questa è la santità!