Omelia nella Messa in Coena Domini

Pennabilli (RN), Cattedrale, 1° aprile 2021

Es 12,1-8.11-14
Sal 115
1Cor 11,23-26
Gv 13,1-15

«Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,5): è l’invito di Paolo che ci accompagna in questa Settimana Santa. Consideriamo anzitutto i sentimenti del cuore umano di Gesù: un cuore di carne. Ci sono sentimenti di amicizia, voglia di intimità, ma anche un velo di angoscia per quello che sta per succedere e per il tradimento. Il Vangelo sottolinea l’ardente desiderio di Gesù di mangiare la Pasqua con i suoi discepoli (cfr. Lc 22,15). Per capire questo desiderio dobbiamo metterci dal punto di vista di Dio. Egli vede quel fiume di vita che lui ha pensato, amato, creato, trasformarsi in un fiume di “liquami” e di peccato: violenze, seduzioni, prepotenze, ingratitudini e inganni… Dio potrebbe stare sull’argine del fiume – non sarebbe cambiato niente per lui –, ma sceglie di tuffarsi dentro nel suo Verbo: è il mistero dell’incarnazione. Gesù, in questa sera, si sente parte dell’umanità; è a causa dell’umanità peccatrice che si incarna.

Vado ad alcuni concetti che di solito non vengono trattati nella predicazione. Gesù desidera ardentemente mangiare la Pasqua, perché si sente solidale con l’umanità, con i riti dei patriarchi. Viene da un popolo che ha una storia antica: un popolo che praticava la pastorizia e successivamente conosce la vita sedentaria nei villaggi e nelle campagne. E’ un popolo che, con tante sofferenze, affronta la sfida che la natura ogni giorno gli prepara e gode per l’arrivo della primavera: il passaggio (la parola “Pasqua” nella lingua ebraica significa “passaggio”). Un passaggio nella natura, dunque, che accade di per sé. Quel popolo, quelle genti, vogliono vivere questo passaggio in sintonia con il Creatore. Per questo, prima di lasciare gli ovili per intraprendere la transumanza, immolano gli agnelli: per lodare il Signore, per dirgli: «quello che abbiamo viene da te»; per propiziazione: «Signore, fa’ che questa transumanza, questo tempo di pascolo, fino al prossimo inverno sia per noi vantaggioso, aiutaci tu che puoi tutto»; per celebrare la presenza del Signore nella loro vita. Le tribù nomadi immolano l’agnello, le tribù sedentarie lavorano un pane nuovo, senza lievito, perché comincia un anno nuovo. Questo è “il passaggio”, la Pasqua, legata al tempo e alla natura. Gesù è dentro al suo popolo, per questo ha il ricordo di queste celebrazioni.

La Pasqua che Gesù mangia con i suoi discepoli nell’Ultima Cena – già la parola “ultima” suggerisce un’allusione ai sentimenti del Signore – è quella che Mosè ha chiesto di rinnovare ogni anno in ricordo della liberazione dalla schiavitù. L’ebreo Gesù sente sulle sue spalle tutto il peso della storia del suo popolo. Vi partecipa con tutto se stesso. Nel seder pasquale (nel rito pasquale) rivive la notte dell’esodo. Anche Gesù, come ogni pio israelita, fa la cena di Pasqua, con le erbe amare che ricordano la schiavitù, con i frutti della terra, segno della promessa, e l’agnello che ricorda l’agnello che fu immolato quella notte. Con il sangue dell’agnello fu segnato lo stipite della casa di ogni famiglia ebrea. Il rito pasquale celebra Dio che non sta “sopra”, ma “in mezzo” e “davanti” al suo popolo. Il pane azzimo, senza lievito, acquista un nuovo significato: non è più festeggiare un nuovo ciclo della natura, ma la notte dell’esodo in cui non c’era tempo a disposizione per aspettare che il pane lievitasse prima di mettersi in cammino. Quando Gesù celebra la cena fa memoria di tutto questo. Ecco l’ardente desiderio. Vi partecipa secondo la ritualità e le formalità di ogni famiglia ebraica. In quel momento – ancora oggi gli ebrei celebrano la Pasqua così –, come ogni capofamiglia, Gesù prende la prima coppa di vino e intona la berachà, cioè la lode, la benedizione. La prima coppa ricorda la prima notte, la notte della creazione; in questa berachà si dicono parole di gratitudine. Poi, si fa passare il piatto rituale: da una parte le erbe amare, dall’altra i frutti della terra. La seconda coppa ricorda la notte di Abramo, quando immolò suo figlio Isacco: la mano dell’angelo lo fermò, ma l’atteggiamento del cuore di Abramo era quello della fede totale: un “sì” a quello che il Signore chiedeva. E già vedeva le stelle del cielo, che non si potevano contare tante erano…
Nella cena si mangia l’agnello, servito e diviso tra i commensali, fra canti di gioia. Si pensa a quel viaggio, a quel passaggio dalla schiavitù dell’Egitto alla terra promessa, oltrepassando il mar Rosso. A questo punto Gesù prende la terza coppa che ricorda la notte dell’esodo e pronuncia la benedizione: «Signore ci hai liberato, cammini davanti a noi…». Gesù prende l’ultima azzima, l’ultimo pane, quello che concludeva la cena e che il capofamiglia spezzava.
Nel grande silenzio che regnava a questo punto, dopo il clima di festa, di gioia, di canti, dà ad ognuno un pezzo di quel pane. È lì che Gesù rompe il silenzio e pronuncia con emozione le parole: «Questo è il mio corpo dato per voi». Infine, prende l’ultima coppa – quella che ancora oggi gli ebrei chiamano “la coppa di Elia”, che esprime l’attesa del Messia – la benedice e pronuncia le parole: «Questo è il mio sangue versato per voi, per la nuova alleanza». Qui avviene la nuova Pasqua: il suo corpo dato per noi, il suo sangue sparso per noi. C’è uno – è Gesù – che dona la sua vita in sacrificio. Avviene il passaggio “mistico” di Gesù, la Pasqua sacramentale, dalla morte alla vita, perché si entra nella vita vera, la vita di Dio, solo morendo al peccato.
In sintesi: attraverso la Pasqua antica, Dio educa pian piano il suo popolo alla speranza di un mondo sempre nuovo. Poi, l’evento storico-salvifico, la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto, in cui Dio si è impegnato a guidare cammini di liberazione. Infine, Gesù celebra la grande Pasqua di redenzione col dono della sua vita per la vita del mondo (cfr. Gv 6,51). Questi erano, quella sera, i sentimenti di Gesù.