Omelia nella professione solenne di suor M. Francesca osa

Pennabilli, 26 maggio 2018

Dt 4,32-34.39-40
Mt 28,16-20

(da registrazione)

Carissimi,
un saluto speciale ai familiari di suor Francesca e un saluto alla sua nuova famiglia, le monache agostiniane “della rupe”, come si dice qui a Pennabilli. E un saluto a tutti voi, fratelli e sorelle, ai miei confratelli sacerdoti, e in modo particolare al Vicario del Padre Generale dell’Ordine Agostiniano.
Siete venuti per prendere parte ad una festa, una festa di nozze. A proposito, avete l’abito nuziale? Sapete qual è? L’abito nuziale è credere che siamo amati. La prima tonalità della preghiera consiste proprio in questo: credere che siamo amati. Veniamo in chiesa proprio per farci dire che siamo amati immensamente dal Signore.
Suor Francesca ha scritto nella prefazione alla brossura con la liturgia della professione solenne che «oggi qui si parla di noi». Ha scritto questo – suppongo – per dire che non è lei il centro, ma lo siamo tutti, in quanto tutti amati. Completerei questo pensiero dicendo che oggi non si parla di noi, ma si parla del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo. Sono loro all’origine della vocazione di suor Francesca e di ciascuna delle nostre vocazioni.
Avete sentito le parole del Deuteronomio: Dio va ad acciuffare un gruppo di beduini nel deserto per farne portatori nella storia della grande esperienza dell’essere amati. Il Padre dona il Figlio e dona il suo Spirito. «Gioisca il cuore di chi cerca il Signore» (Sal 104,3). «Cercate il Signore e la sua potenza, cercate sempre il suo volto» (Sal 104,4). Ecco, nel monastero non si fa che questo. Nel monastero si svolge l’esistenza nella ricerca del volto del Signore; è la ricerca di chi avverte una chiamata interiore: «Di te ha detto il mio cuore: “Cercate il suo volto”; il tuo volto, Signore, io cerco» (Sal 26,8). Nel monastero abitano coloro che fanno parte della generazione di quanti lo cercano. Lo cercano nella preghiera, passano anni interi nella preghiera, anche con sforzi, ma sempre con sentimenti di amore, per scoprire di fissare il proprio sguardo, di immergersi, di perdersi nella bellezza di quel volto. Contemplazione. Lo cercano nell’umiltà, con il cuore dei piccoli del Vangelo, come i bambini che salgono sulle ginocchia di Gesù, come il pubblicano che «si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”… e tornò a casa sua giustificato» (Lc 18,13-14), come la povera vedova la cui preghiera giunge sino alle nubi. Lo cercano nella gioia, tutta la loro vita non può essere che gioia, perché è vita d’amore. E il Signore non può non portare a pienezza la loro gioia, svelando loro il suo volto. «Gioisca il cuore di quanti cercano il suo volto», gioiscano anche se c’è da soffrire. La vita di amore non è forse anche vita di trepidazione, di ricerca, di ansie, di tormenti? Ricordate la fanciulla del Cantico dei Cantici? Lo cercano insieme. Ecco «quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme! È come olio profumato sul capo, che scende sulla barba, sulla barba di Aronne, che scende sull’orlo della sua veste. È come rugiada dell’Ermon che scende sui monti di Sion» (Sal 133,3). Insieme, perché insieme sono più facili il cammino e la salita. «Meglio essere in due che uno solo, perché due hanno un miglior compenso nella fatica. Infatti, se vengono a cadere, l’uno rialza l’altro. Guai invece a chi è solo: se cade, non ha nessuno che lo rialzi» (Qo 4,9-10). Così il Qoelet. Insieme perché sorelle, sorelle che vivono sotto il tetto dello stesso Padre e Gesù è tra loro, secondo la sua parola: «Dove due o più sono uniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20). Insieme, per essere qui sulla terra un’immagine della Trinità, «come tu, Padre, sei in me e io in te – dice Gesù –, siano anch’essi in noi una cosa sola, […] e la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola» (Gv 17,21-22).
Il loro – parlo delle monache – è un modo di vita ecclesiale. La loro scelta non mira certo alla ricerca di una vita comoda o di interesse, di interesse per sé e di disimpegno per gli altri, come qualche volta volgarmente qualcuno pensa. Tantomeno cercano di soddisfare intimismi arbitrari, atmosfere mistiche, spiritualmente raffinate. È un modo di vita ecclesiale, perché è nella Chiesa, perché è della Chiesa, perché è per la Chiesa. Ovviamente viene da Dio, da Cristo, dallo Spirito. È una grazia da accogliere, custodire, trafficare, ma è stata affidata con tanti altri tesori alla Chiesa, luogo privilegiato della grazia. Questo modo di vivere è proprietà della Chiesa, da conservarsi nella Chiesa, da viversi per la Chiesa. È ecclesiale perché la Chiesa lo approva, approvando e accettando la domanda di coloro che sono chiamati ad affrontare questo genere di vita con dedizione totale. Dunque, la Chiesa approva questo modo di vivere, lo difende, lo aggiorna – come ha fatto di recente – lo sviluppa, libera la grazia in esso racchiusa, ne favorisce le possibilità di santificazione e di nuova evangelizzazione. Ecclesiale è questo tipo di vita perché segno della Chiesa, segno di una Chiesa che sa di essere povera, perché non possiede che la Parola e il Sacramento. Una Chiesa che vuol essere vicina ai poveri, ai poveri di ogni tipo, e condividerne la condizione, promuoverli nello spirito delle beatitudini. È ecclesiale questo tipo di vita perché strumento della Chiesa. Pensiamo, ad esempio, ai Dodici che istituiscono i diaconi perché non è giusto – dissero – che noi trascuriamo la Parola di Dio per il servizio delle mense (cfr. At 6,2). «Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola» (At 6,4). Comprendiamo allora la parte che la vita di orazione, di intimità, di contemplazione, ha per l’efficacia dell’attività stessa, per la fecondità del ministero della predicazione. Ecclesiale ancora, di conseguenza, perché esigenza, necessità della missione della Chiesa. Ci deve essere, ispirato da Dio, nella Chiesa chi prega per gli altri, chi prega con amore per coloro che non pregano, per coloro che non riescono a pregare. La preghiera salva, l’amore può tutto. Apostolicità, missionarietà, concretezza di questo genere di vita, se crediamo al primato della grazia, al primato dell’amore, alla indissolubilità del nesso tra azione e contemplazione. E, infine, ecclesiale è questo genere di vita perché incarna e rende visibile e attuale l’incontro con lo Sposo, il Signore. Cantava un’antifona: «Veni, sponsa Christi, accipe coronam quam tibi Dominus praeparavit in aeternum». Chi è la sposa cinta della corona? È la Chiesa, è suor Francesca e, in suor Francesca, tutti noi. Con la Chiesa, sposa del Signore, e con suor Francesca gustiamo le primizie di queste nozze, le nozze dell’Agnello. Godiamo in questo momento anche noi e chiediamo la grazia di cercare sempre nella nostra vita il volto del Signore, anzi di trovarlo. Così sia!