Omelia nella S.Messa Crismale

Pennabilli (Cattedrale), 18 aprile 2019

Is 61,1-3.6.8-9
Sal 88
Ap 1,5-8
Lc 4,16-21

1.

Care sorelle, cari fratelli, cari sacerdoti,
eccoci a celebrare nella nostra bella Cattedrale.
L’incendio a Notre-Dame ci fa sentire ancor più l’attaccamento a questo segno di unità che rinvia all’edificio santo, fatto di pietre vive, che è la Chiesa. Qui, nell’oggi della liturgia celebriamo la comunione del nostro sacerdozio (Gesù unico sacerdote, noi tutti, popolo santo e ministri, partecipi del suo sacerdozio), la comunione tra noi, la comunione con Cristo. Siamo qui per la rinnovazione dei santi oli, per la rinnovazione delle promesse sacerdotali, per la rinnovazione della nostra alleanza con Cristo.
Comunione e rinnovazione: due parole chiave.
Siamo in festa: presbiteri, diaconi, significativa rappresentanza di religiose e religiosi, ministri istituiti, fedeli laici (tra questi, sono presenti gruppi di ragazzi che si preparano alla Cresima).
La Cattedrale è il cuore della Diocesi. Custodisce la Cattedra del vescovo insieme a tante memorie di sante persone e di vicende ecclesiali e umane. Alla Cattedrale guardano le sorelle e i fratelli di vita contemplativa.
Siete tutti benvenuti. Siete la bellezza di questo luogo!
Qui ritorneremo presto per la Veglia di Pentecoste, l’8 giugno prossimo, per celebrare una verifica del percorso fatto insieme quest’anno. Qui ci ritroveremo per una Sacra Ordinazione, il 14 settembre: il diacono don Luca Bernardi verrà consacrato presbitero… Il 22 settembre, di nuovo qui in Cattedrale, vivremo l’assemblea diocesana in vista di un nuovo anno pastorale.
La Cattedrale è segno di Cristo, sacramento dell’incontro con Dio. Disse Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Ma egli parlava del tempio del suo corpo (cfr. Gv 2,21).
Questa mattina, come da una sorgente, vediamo sgorgare un fiume di grazia che si diramerà in tanti ruscelli per rallegrare la nostra terra (cfr. Sal 46,5). L’olio che fa brillare i volti dei catecumeni. L’olio che dà sollievo a chi è malato. Il crisma che consacra con l’unzione sacerdotale, profetica e regale i redenti (popolo di Dio) e segna «con affetto di predilezione alcuni tra i fratelli per renderli partecipi del ministero di salvezza di Gesù» (Prefazio, Messa crismale).

2.

Nel deserto di Giudea, alle prime luci della Pasqua, una fiaccola accesa viene lanciata dal pinnacolo più alto del monastero di San Saba. Quella luce che squarcia l’oscurità viene vista dal monastero più vicino che, a sua volta, trasmette il segnale al successivo monastero. Nella traiettoria verso il monastero di Santa Caterina al Sinai la notizia della Risurrezione, di luce in luce, si diffonde in tutto l’Oriente. Nel cuore di questo anno tutto dedicato ad una rinnovata consapevolezza della presenza del Risorto tra noi, faccio dono ad ogni comunità di una sinossi dei racconti pasquali. È un segno. L’annuncio di Gesù Risorto risuoni di bocca in bocca, squarci le oscurità del nostro tempo.
La Quaresima, iniziata con l’austero ma necessario ammonimento: «Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai» (Gn 3,19), sta per chiudersi con una parola piena di speranza, di nuova energia, di nuova creazione: «Ricordati: risorgerai!». Al posto della cenere, la corona (cfr. Is 61,3). Gesù Risorto comunica a noi la sua vittoria.

3.

Consentitemi adesso un salto un po’ spericolato: immaginiamo il primo Giubileo del secondo millennio: anno 2025! Come non pensare al Giubileo come ad un grande Anno di Grazia (cfr. Lc 4,19). È data convenzionale, simbolica – certo – ma possiamo riconoscerle un significato educativo di verifica e di stimolo. Vorrei ci arrivassimo – a Dio piacendo – tutti e tutti preparati. Avvertiamo quanto sia delicato per noi e per la nostra gente il passaggio da un cristianesimo sociologico ad uno della libertà e della grazia, cioè di libera e rinnovata corrispondenza. Vorremmo che nulla andasse perduto e nel contempo essere aperti al nuovo. Siamo qui, in questo crinale. Ne abbiamo un quotidiano riscontro: molti sono cristiani – è una formula che abbiamo ripetuto spesso – senza mai aver deciso di esserlo. Nei nostri paesi, tradizionalmente cristiani, spesso la sfida consiste «non tanto nel battezzare i nuovi convertiti, ma nel condurre i battezzati a convertirsi a Cristo e al suo Vangelo» (Giovanni Paolo II, Ecclesia in Europa, 47). Da più parti si dice ancora che il problema non è tanto di far praticare i credenti, ma di far credere i praticanti. Domando: non potranno questi anni che ci preparano al 2025 costituire una sorta di missione permanente, una sorta di comunitaria iniziazione cristiana?
Dal biennio kerygma-Battesimo (stiamo vedendo qualche frutto: la riscoperta della centralità della risurrezione, con tante esperienze concrete, una maggior consapevolezza di essere Chiesa, cristiani attorno al Risorto, ecc.), al biennio missione-Cresima (l’incontro con Gesù, l’effusione del suo Spirito, non possono che tradursi in una incontenibile urgenza di comunicarlo), al biennio comunione-Eucaristia (effetto della Pasqua e della Pentecoste: dalla dispersione all’unità).
Perché questi segmenti cronologici? Perché queste scansioni di contenuti? È pedagogia della Chiesa: per camminare sinodalmente, per coordinare gli sforzi, per coinvolgere laici, religiosi, ministri. È lo stile dell’anno liturgico, scuola che insegna a sillabare, a riprendere continuamente il mistero di Cristo. Lo vorremmo abbracciare tutto, in una sola volta, tutto intero, ma la nostra umanità ha i suoi ritmi.

4.

Il Vangelo, in special modo questo brano secondo Luca, che tante volte abbiamo meditato e dal quale non riusciamo a staccarci, ci vuole a confronto con Cristo. Esaminiamo la nostra condotta, se assomiglia alla sua. Rinnoviamo volentieri le promesse e i propositi di lasciarlo agire in noi, liberamente e totalmente.
Gesù va in sinagoga secondo il suo solito… Partecipa alla riunione comune. Per inciso, l’autore della Lettera agli Ebrei lamentava che qualcuno «diserta le nostre riunioni» (cfr. Eb 10,25). Gesù va ad una preghiera, ascolta le parole che Dio ha da dire al suo popolo. Ha imparato – pedagogia della Santa Famiglia – che nelle cose di Dio non vale “il fai da te”. È felice di appartenere al suo popolo. Come un fiore sboccia nella sua umanità e si schiude sul grande albero della storia di Israele. Quel sabato, dopo la preghiera iniziale e la lettura del profeta Isaia, è invitato a prendere la parola. Forse non è la prima volta, ma Luca dà grande rilievo a questo momento. Con fine arte letteraria e sensibilità psicologica evidenzia l’atmosfera di stupore dell’uditorio e in tal modo sottolinea il carattere programmatico dell’omelia di Nazaret. Omelia brevissima. Quello che Gesù sta per dire è della massima importanza, costituisce il suo manifesto. È sorprendente la solennità con cui si compie quel rito con cui ci è dato di capire chi è Gesù: viene consegnato il rotolo, Gesù lo apre, trova il passo, si alza, legge, chiude il rotolo, lo restituisce al cerimoniere sinagogale, siede, gli occhi di tutti sono puntati su di lui, silenzio… È dato di capire chi è Gesù. A differenza dei predicatori del tempo, non si perde nei labirinti della esegesi o della retorica, punta dritto su ciò per cui Isaia 61 è stato scritto: «Oggi si compie questa scrittura davanti a voi che ascoltate». Con quell’oggi Gesù lega la sua persona all’iniziativa d’amore del Padre. E passa davanti a Gesù un’umanità di poveri, prigionieri, feriti, cechi, oppressi, disperati. Viene per questa umanità e un giorno dirà: «Io per voi consacro me stesso» (Gv 17,17). Gesù non mette come scopo se stesso, ma ciascuno di noi: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato».
Il nostro ministero esige una prima, e per quanto possibile, perfetta consonanza della nostra mente, del nostro cuore, dei nostri sentimenti, dei nostri atti, quasi una fusione della nostra persona con la sua. È san Paolo che per primo ha fatto uso, ha inventato, la bella formula «in persona Christi» (2Cor 2,10). Noi operiamo «in persona Christi», immersi in lui, dotati della sua potestà, colmati dei doni della sua verità, del suo amore, della sua misericordia. Noi viviamo – ne fossimo sempre coscienti! – «in persona Christi», per questo nella liturgia del “nostro” Giovedì Santo fissiamo lo sguardo al Vangelo, contempliamo il Cristo che vi compare e accogliamo il messaggio che ci indirizza. L’esistenza di Gesù è stata dono, dono totale. Così l’esistenza del prete. Ce lo ricorda il canto del Prefazio: «Tu, o Padre, proponi loro come modello il Cristo, perché donando la vita per te e per i fratelli, si sforzino di conformarsi all’immagine del figlio tuo e rendano testimonianza di fedeltà e di amore generoso».
Essere generosi (nel senso etimologico). Essere generosi nel dare. Più delle cose dare tempo, dare attenzione, dare ascolto, dare reperibilità. Avere il cuore tutto aperto. Questo dare è faticoso come un parto, ma ci genera come madre dell’altro e lui (l’altro) vive generato da noi. Pensiamo a Gesù sulla croce: il nostro dare, insieme al suo, resterà. Così crediamo. Così sia.