Omelia nella Solennità delle Ceneri

Pennabilli (RN), Cattedrale, 2 marzo 2022

Gl 2,12-18
Sal 50
2Cor 5,20-6,2
Mt 6,1-6.16-18

Due anni fa, Mercoledì delle Ceneri come questa sera, abbiamo dovuto rinunciare alla liturgia solenne qui in Cattedrale a causa del Covid. L’anno scorso si è potuta celebrare, ma con molte precauzioni. Quest’anno siamo immersi in un dramma che mai avremmo immaginato potesse capitare nel cuore del nostro continente, l’Europa. Di guerre ce ne sono tante nel mondo, ma le sentiamo “lontane”. Questa è quasi in casa nostra, una guerra a cui si assiste in poltrona, davanti ad una televisione. Ma non è un film… Un cristiano che cosa prova? Prova di-sperazione, cioè l’affievolirsi della speranza; sente vacillare la fede sotto la prova: «Signore, dove sei?»; poi, subisce un assalto clamoroso alla carità (non ditemi che non vi sono venuti pensieri aggressivi…).
Stasera quasi non sapevo cosa dire. Allora sono andato nella cappella e ho detto: «Signore, cosa vuoi che dica al mio popolo?». Mi sono venute queste ispirazioni.
Primo pensiero: guardiamo il crocifisso, ascoltiamo il suo grido: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni? (Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?)» (Mc 15,34). Il Padre c’è, c’era, ma Gesù non lo sentiva. Il Padre ascolta.
Secondo pensiero: preghiamo, insistiamo. Ho raccontato ad un incontro di catechesi interparrocchiale un’esperienza personale accadutami durante la guerra nei Balcani. Quel fine settimana i seminaristi erano andati a casa – avevano finito la prima sessione di esami – ed ero rimasto in Seminario da solo. Andai in cappella e mi misi a pregare fervorosamente per la pace. Poi, un pensiero triste mi saliva dal profondo del cuore come un’ombra oscura: «Figurati se il Signore ascolta la tua preghiera! Non ascolta quella di Madre Teresa, non sente il grido di Giovanni Paolo II…». Mi sono accasciato al pensiero dell’inutilità della preghiera e dell’inefficacia della grazia: grande tentazione. Mi è venuta in mente la mia mamma che aveva un cruccio: dimostrare a tutti i suoi figli (sei!) di amarli allo stesso modo. Quel ricordo mi ha riportato all’atteggiamento di Dio che dice: «Voglio bene a te anche se sei il più piccolo, ascolto la tua voce come quella di Madre Teresa, come quella di papa Giovanni Paolo II, perché ti amo immensamente, nella tua piccolezza». Sta scritto: «Dio sente il grido di un bambino nel deserto» (cfr. Gn 21,17). Per Dio siamo tutti unici. Allora invito ad ascoltare e pregare, continuare a pregare.
Terzo pensiero: mettiamoci nei panni di chi combatte e di chi resiste, di chi è profugo e di chi è sotto i bombardamenti e nei rifugi. È terribile! Ma terribili sono anche le conseguenze. Il popolo russo è un popolo stupendo, ci ha dato Dostoevskij, Tolstoj, grandi musicisti, grandi santi e maestri spirituali… Non ci è “nemico”. Ma nei cuori può nascere l’odio, che non accada! Problema è la ri-costruzione. Penso alle vittime, ma anche alla fatica che si farà per ricostruire palazzi, stazioni, aeroporti, ma soprattutto il tessuto, l’amicizia sociale, gravemente compromessa. Questa guerra è un po’ frutto di tutta l’umanità che perde l’ideale della fratellanza, perché ne ha smarrito l’origine: Dio è padre di tutti.

Questo il nostro compito in questo momento.
Essere artigiani della pace. L’artigiano ha cura dei particolari, è perseverante. Artigiani della pace là dove viviamo. A volte è difficile: tu vuoi costruire la pace, ma l’altro? Come si fa a disarmare il nemico? Armandosi fino ai denti? Ma allora lui si armerà ancora di più… Si disarma con l’amore, moltiplicando atti d’amore semplici, quotidiani, che diventano cultura.
Fare la pace. Tutti abbiamo almeno una persona antipatica o con la quale siamo in difficoltà. Cosa possiamo fare per riagganciarla, per dare segnali di riconciliazione? Non lasciamo nulla di intentato.
Essere pace. Se l’abbiamo dentro, se siamo persone di pace, si vede, ad esempio, dal sorriso. È vero, può esserci anche il sorriso finto, ambiguo, ma intendo quello autentico. Così scrive il libro del Siracide a proposito di Noè: «Al tempo dell’ira fu riconciliazione» (Sir 44,17). Dimenticarsi di sé per restituire al fratello o alla sorella una piccola luce.

Entriamo nella liturgia di questa sera. Cosa significano le ceneri che riceveremo sul capo? Perché la Chiesa Cattolica ha pensato a questo segno? Un pizzico di polvere tra le dita del sacerdote o nel palmo della mano ci riporta alla nostra verità: la verità della nostra condizione umana. Siamo figli di Adamo: in ebraico Adamà vuol dire “terrestre” e, come lui, noi pure siamo presi dalla polvere del suolo (cfr. Gn 2,7.3,19). Qualcuno dice che siamo “polvere di stelle”; la materia di cui siamo fatti, alla fine, è la stessa con cui sono fatte le stelle, gli astri, i pianeti. Questo ci ricorda la nostra reale dimensione, il nostro posto nell’universo e nella nostra condizione mortale, nonostante le grandi imprese nella scienza e nella tecnica. Siamo come un formicaio e lassù, dalla cima della collina, a milioni ogni giorno cadiamo nell’abisso della morte.
Vediamo in questo pizzico di polvere anche il segno del nostro peccato, della nostra dignità di battezzati, andata in frantumi, della luce del nostro Battesimo, di cui a volte non resta che una flebile fiammella o soltanto delle braci. Così accade anche ai nostri propositi, al nostro proclamato impegno al seguito di Gesù. Se osserviamo attentamente, quella polvere grigia è immagine delle nostre false illusioni, dei nostri progetti andati in fumo. Quel pugno di cenere è come un lembo di deserto, una terra arida senza fiori e senza frutti. Ecco perché il sacerdote dice: «Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai» (Gn 3,19).
Ma la polvere è anche un segno di speranza. «Il mio Vendicatore si ergerà sulla polvere» (Gb 19,25). «Il Signore solleva dalla polvere» (Sal 113,7). Noi mettiamo la nostra polvere sul capo non come segno di condanna, ma come un appello a vivere pienamente. Il sacerdote può usare un’altra formula per l’imposizione delle ceneri (tutt’e due sono importanti, una è nell’altra): «Convertitevi e credete al Vangelo» (Mc 1,15). Quando Gesù si avvicinò al cieco nato – dice il Vangelo – prese polvere della terra e la impastò con la saliva (cfr. Gv 9,6); ha fatto il miracolo, ma quel gesto sta a dirci che è venuto per modellare “un uomo nuovo” come al mattino della creazione. Con la sua risurrezione Gesù ha vinto la morte e le nostre ceneri sono destinate a trasfigurarsi dietro a Gesù. Un segno carico di speranza, dunque! Poi, c’è il soffio dello Spirito Santo – quest’anno ne stiamo parlando molto – che può riattizzare le braci sotto la cenere. Basta il coraggio di una sosta nella preghiera, uno sguardo al crocifisso per dare un’impennata all’anima, una pausa davanti alla Parola di Dio, soprattutto a quella della domenica, e ricordarla, e trascriverla. Tutto questo riaccenderà la fiamma della fede e del dono di noi stessi. È il mio augurio: sia una Quaresima che porti tanti frutti spirituali. Così sia.