Omelia nella Solennità di Tutti i Santi

Pennabilli (RN), Cattedrale, 1° novembre 2020

Ap 7,2-4.9-14
Sal 23
1Gv 3,1-3
Mt 5,1-12

«Ecco la generazione che cerca il tuo volto, Signore» (Sal 23). Il Vescovo riaffida alle tue mani, Signore, questo popolo che tu ami e in mezzo al quale hai posto la tua dimora.
Cari fratelli e sorelle, voi, in questo momento, per un disegno del Signore, rappresentate tutta la Diocesi, tutta la nostra famiglia, credente e in ricerca. A noi piace pensare una intimità con Gesù, stando sulle sue ginocchia come i bambini e le bambine del suo tempo, o come i discepoli camminando con lui. Ma la Chiesa conosce anche questi momenti di splendore, di solenni liturgie, dove sono misticamente presenti i santi e i beati del paradiso.

Noi che siamo ancora sulla terra ci chiediamo: «Possiamo conoscere la sorte dei martiri, dei giusti, dei santi, che nei loro giorni sulla terra hanno seguito il Signore Gesù?». La risposta viene da quel grande affresco sinfonico che è l’Apocalisse. Le prime persecuzioni avevano inflitto crudeli devastazioni alle comunità cristiane neonate. Il loro destino era forse di scomparire appena nate? La visione dell’Apocalisse dà a quelle comunità e a noi oggi una risposta di speranza dentro la prova. È un messaggio cifrato, che evoca Roma senza nominarla mai direttamente, ma applicandole le caratteristiche dell’antica Babilonia, crudele e vanitosa. Il messaggio centrale proclamato dall’Apocalisse è quello dell’Agnello che vince. Che paradosso: a salvare è un Agnello trafitto, a sua volta immolato!
Siamo qui, anche se visibilmente non abbiamo la percezione, con tutti i santi, con tutti i martiri e con i nostri cari a contemplare l’Agnello: «Beati gli invitati alla cena dell’Agnello». È l’Agnello della Pasqua definitiva, il Risorto. Ecco, lui ha capovolto l’ineluttabile cammino verso la morte in un cammino di vita piena, che è per tutti quelli che lo seguono: martiri, santi, giusti, una folla immensa che nessuno può contare.
La memoria di coloro che ci hanno lasciato non ha nulla di lugubre; al contrario è motivo di gioiosa speranza.
Giovanni, l’evangelista, ci assicura che col Battesimo siamo diventati figli di Dio: il nostro futuro è segnato per l’eternità da questa identità. Su un giornale è stato scritto che i preti non parlano più del Cielo, dei Novissimi, della vita che ci attende. Non è vero: ogni volta che veniamo in chiesa non si parla d’altro!
Giovanni ci svela le conseguenze della famigliarità con Dio. Di lui siamo figli ed è una relazione siglata da un’alleanza, da un patto irrevocabile (cfr. Rom 11,29; Ebr 6,17). Un messaggio di speranza ancora più esplicito e coinvolgente, che risponde alle domande sulla nostra sorte e su quella dei nostri cari. Domande incalzanti: che ne è di loro? Come saperlo, se sono spariti dalla nostra vista? E a noi, cosa accadrà? Se Dio, nel suo immenso amore, con patto irrevocabile fa di noi i suoi figli, non può abbandonarci. In Gesù vediamo già a quale futuro ci porta l’appartenenza alla famiglia di Dio. «Saremo simili a Lui… lo vedremo come egli è» (1Gv 3,2): non è una fiaba! Dobbiamo aiutarci in questa fede.
Concludo con tre squarci, uno rivolto al passato che ci porta, come un fiore che sboccia sullo stelo, sostenuto dalle radici; uno rivolto al futuro che ci entusiasma e uno ad un presente che ci impegna in concreto.

Un passato che ci porta. Oggi la Chiesa è felice e fiera di mostrarci tutti i figli di Dio che hanno vissuto le beatitudini del Vangelo, una folla immensa. «Come le stelle del cielo, come i grani di sabbia sul mare» (Ebr 11,12) sono coloro che hanno creduto a Gesù con tutte le forze e le povertà umane. Hanno creduto in ogni passo del loro cammino. Sono quelli che hanno amato, che hanno vissuto “il comandamento grande” (cfr. Mt 22,36-39). In questo assembramento di Cielo riconosciamo dei volti amati, che ancora adesso continuano a sostenerci con il loro amore e la loro preghiera. Non sono soltanto i grandi santi, sant’Antonio, santa Teresa, san Giovanni… Ma anche le persone care che continuano ad esserci accanto. Il Cielo non è il museo delle cere. La Chiesa ci presenta i santi non come persone archiviate, ma come amici, compagni di strada che ci “portano”.

Siamo di fronte anche ad un futuro che ci entusiasma. Dall’isola di Patmos Giovanni scrive la sua visione sul futuro della Chiesa e del mondo, ecco un cielo nuovo e una terra nuova (cfr. Ap 21,1), la vera e completa dimensione della nostra esistenza intravista in questa festa di tutti i santi. Senza fuggire dalle responsabilità, dagli impegni quotidiani, non perdiamo di vista il punto di arrivo. Lo scopo della nostra vita non è rinchiuso nel presente e non è schiacciato nella sola dimensione materiale. La nostra vocazione è entrare in quella luce per la quale siamo stati creati. Per quale fine Dio ci ha creati? Perché possiamo godere di Lui, e Lui di noi.

C’è un presente che ci mobilita. La santità non è appannaggio esclusivo di quelli che hanno concluso il loro cammino terreno. I santi sono in mezzo a noi oggi e voi ne conoscete tanti. Guardo voi e penso: «Quanti santi!». Volutamente ho aperto la meditazione con le parole del Salmo: «Ecco la generazione che cerca il tuo volto». I santi sono nascosti all’interno delle nostre famiglie, dei nostri cammini, dei nostri gruppi, delle nostre comunità, anche nei luoghi di lavoro, di studio e nei luoghi di sofferenza. Tutti chiamati alla santità nella situazione personale in cui siamo e nella situazione sociale in cui ci troviamo. Adesso tocca a noi scrivere le pagine attuali della storia della santità, con i nostri slanci e le nostre fragilità, nelle cose grandi ma anche in quelle piccole, con i nostri gesti quotidiani di gentilezza, con la nostra fedeltà non priva di audacia per inventare l’avvenire. Così sia.