Omelia nella Veglia diocesana per le Vocazioni

Valdragone (RSM), Santuario del Cuore Immacolato, 13 maggio 2020

At 15,1-6
Sal 121
Gv 15,1-8

Mi indispettisco con me stesso quando non riesco a farmi capire sul concetto di “vita di fede”. Evidentemente sono io che non mi spiego bene. Parlo di vita, ma si capisce “pratica religiosa”. È importante la pratica religiosa, ma quando parlo di “vita” intendo qualcosa di molto più coinvolgente e più ampio. Poi, parlo dei “frutti” della vita di fede e si pensa alla “morale”, cioè si pensa ai comportamenti, alle buone azioni. I buoni comportamenti e le buone azioni sono cosa ottima, ma i “frutti” di cui vorrei parlare sono un’altra cosa. Parlo della dimensione “spirituale” della vita, ma l’aggettivo “spirituale” viene equivocato. Lo “Spirituale” sarebbe qualcosa di evanescente, disincarnato e astratto. “Spirituale” è ciò che ha a che fare con lo Spirito Santo. Allora preferisco usare l’espressione “vita di grazia”, intendendo il dono che ci viene dato, che è la vita stessa di Gesù travasata in noi. In ciascuno di noi, in me, piccola creatura, ultimo dei discepoli, viene riversata gratuitamente la vita stessa di Gesù, la vita che Gesù vive con il Padre e con lo Spirito Santo. Allora capisco la bellezza dell’allegoria della vite e dei tralci. Vite e tralci che sono l’uno nell’altro in reciproca immanenza. In questi giorni pasquali ci è stato ripetuto che Gesù vuol vivere con noi e in noi l’infinita sete d’amore che solo il Padre sa colmare. «Le parole che il Padre dice a me, le dico a voi»: parole arcane che sbocciano nelle Sacre Scritture e che d’ora in poi affiorano nella nostra interiorità. «Come il Padre ha mandato me, io mando voi»: così ci consegna il dinamismo, espansione della sua missione. La condizione per il tralcio, se vuol essere fruttifero, è quella di restare unito alla vite. Gesù, commentando questa allegoria, dice: «Rimanete in me e io rimarrò in voi» (Gv 15,4). Ma, a sua volta, la vite ha bisogno dei tralci. Dal momento in cui ha voluto creare il mondo, ha voluto che io fossi un suo discepolo e mi ha unito a sé, Dio ha bisogno di me, di ciascuno di noi. Ci crea e ci fa crescere come sua presenza. Qui è racchiusa la bellezza di ogni vocazione e più ancora la bellezza che ogni vita è vocazione. «Prima che tu nascessi ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato» (Ger 1,5). Questa sera il Centro Diocesano Vocazioni ci ha convocato per una preghiera corale per le vocazioni, soprattutto per quelle di speciale consacrazione. Preghiamo perché tanti giovani rispondano con generosità a Gesù che li chiama ad essere una sua presenza. Li chiama; li unisce a sé; li manda come il Padre ha mandato lui. Ma questo è vero per ogni cristiano. È necessario abitare in Lui, rimanere in Lui. Lui rimarrà sempre in noi, perché è fedele. C’è solamente una eventualità che può interrompere questa comunicazione vitale: il peccato. Il peccato non toglie il proposito di Dio di farsi dono nella mia vita, ma sono io che posso sottrarmi. I frutti che noi portiamo non sono tanto le preghiere, le opere della virtù di religione, ma siamo noi stessi divenuti «opera sua» (cfr. Ef 2,10). Tutta la nostra vita pervasa dalla vita di Gesù produce frutti. Le azioni più semplici come le più importanti e impegnative diventano – per così dire – azione sua, azione redentrice, frutto della “vite”. Mi sorge a mo’ di esempio un raffronto con il mito antico del re Mida: tutto quello che toccava diventava oro. Tutto quello che un cristiano fa quando è unito a Gesù viene elevato a livello soprannaturale, è un frutto del tralcio unito alla vite, un frutto della linfa divina! Tutta la nostra giornata, tutto quello che la volontà di Dio ci chiede, tutto può essere fatto in Lui, con Lui, per Lui.
«Rimanete in me e io rimarrò in voi». Grazie, Signore, per il dono di questa “rivelazione” siamo “opera tua”, un frutto della tua redenzione.