Omelia nella XIV domenica del Tempo Ordinario

Belforte all’Isauro (PU), 4 luglio 2021

60° anniversario di ordinazione presbiterale
di don Francesco Alessandrini

Ez 2,2-5
Sal 122
2Cor 12,7-10
Mc 6,1-6

Quando si incontra un profeta si pensa subito a chi legge il futuro. Nella Prima Lettura, Ezechiele, raccontando la sua esperienza, dice ben altro: «Lo Spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi…». Avrebbe preferito star seduto, stare nascosto, non essere al centro. Invece: «…E io ascoltai colui che mi parlava. Mi disse: “Io ti mando ai figli di Israele”». Dunque, il profeta è uno investito dallo Spirito di Dio, inviato ai fratelli per annunciare la Parola di Dio, anzi a parlare per incarico di Dio. C’è una sfumatura significativa tra i due termini, perché il profeta, ad un certo momento, proprio per l’attitudine che ha all’ascolto, pronuncia parole che sanno di Cielo, di Paradiso, di Dio. Impresa non facile, rischiosa, perché il profeta propone spesso una parola scomoda.
I nazaretani andavano tutti i sabati in sinagoga, ma Gesù aveva cominciato a dire parole completamente nuove, sorprendenti, al punto da scioccare: i nazaretani “inciampano” su Gesù. «Ma da dove gli viene questa sapienza? Ha ascoltato il rabbi con noi ogni sabato. Da dove gli viene questa parola così nuova?».
Caro don Franco, mi unisco a te con tutto il cuore e, insieme con te, vorrei adoperare le parole di Maria – so che vuoi molto bene alla Madonna e che lei ha una tenerezza particolare per te –, parole di ringraziamento e di lode al Signore: «Perché ha guardato alla mia piccolezza e ha fatto in me cose grandi». Dentro a questo grazie, che tu dici ora celebrando l’Eucaristia, c’è la mia partecipazione e c’è la partecipazione grata di tutto un popolo. A volte guardiamo al prete come ad un animatore sociale. Si dice del prete che è l’uomo che dà consigli, che sa essere vicino, ed è vero. Ma è quel suo salire i gradini dell’altare che costituisce l’essenziale.
Don Franco, tutti diciamo grazie per i sessant’anni in cui hai celebrato l’Eucaristia. Quando eravamo studenti ci dicevano di celebrare ogni Messa come se fosse la prima, come se fosse l’ultima, come se fosse l’unica.
Per l’effusione dello Spirito Santo sei stato pastore buono in mezzo al gregge; hai celebrato i Battesimi, hai introdotto un popolo nel seno della Trinità, perché battezzare significa “tuffare” nella Trinità Santa; hai benedetto tanti matrimoni, famiglie cristiane; hai accompagnato ammalati e li hai segnati con l’olio per la guarigione interiore; hai dispensato il perdono dei peccati e la gioia di essere nuovi.
All’origine della missione del prete c’è una chiamata singolare. Un giorno il Signore si è avvicinato ad un ragazzo, Francesco Alessandrini, e gli ha detto: «Dammi le tue mani, dammi i tuoi piedi, dammi il tuo cuore e la tua intelligenza, perché io voglio fare di te una mia presenza». Il ragazzo, allora, si sarà spaventato… Ma ha detto il suo “sì”!
Il prete è la persona più povera di questo mondo, è del legno di cui tutti siamo fatti, è della stoffa di tutti noi. Quando parla autorevolmente dice parole non sue, parole di un Altro; compie azioni sublimi, ma non sono azioni sue, sono azioni di un Altro. E anche lui, come l’apostolo Pietro, deve pregare: «Signore, allontanati da me, sono un peccatore»; e gridare: «Signore, salvami!». È la persona più povera di questo mondo, ma nel contempo è la persona più straordinariamente ricca, perché pronuncia parole sovrumane: «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue…», «Io ti assolvo…».
Il coro ha cantato: «Ecce sacerdos»: parole misteriose, ma non perché sono in latino. «Tu es sacerdos in aeternum secundum ordinem Melchisedech» è una parola che colloca il sacerdote in una dimensione soprannaturale. Cosa vuol dire essere sacerdote secondo l’ordine di Melchisedech? L’espressione propria dell’Antico Testamento conteneva una punta di polemica, perché c’era un altro ordine sacerdotale, strutturato sociologicamente: era il sacerdozio ebraico. Vi era un cerimoniale raffinatissimo, solenne, spettacolare, che lo riguardava. Che cosa celebrava il culto dell’antica legge, dell’antico Israele? Si potrebbe dire, semplificando e schematizzando, che per prima cosa il sacerdozio si costituiva per separazione. C’era un popolo sacerdotale, il popolo di Israele, per questo separato dagli altri popoli. Di mezzo al popolo di Israele, era stata scelta una tribù, la tribù di Levi, separata dalle altre tribù per il culto. Nella tribù di Levi veniva eletta una sola famiglia sacerdotale e il sommo sacerdote, preso da quella famiglia, una volta all’anno saliva i gradini del tempio ed entrava nel Santo dei Santi per fare la grande oblazione; non poteva candidare se stesso, sapeva che non poteva raggiungere l’Altissimo, allora prendeva un agnello immacolato, lo metteva sul fuoco e, alla fine, che cosa restava di questa sorta di piramide cultuale che saliva verso l’alto? Quasi nulla. Il culto proclamava che Dio è inaccessibile, trascendente. Pertanto, il culto rimaneva qualcosa di esterno, convenzionale.
Il sacerdozio secondo l’ordine di Melchisedech è figura del sacerdozio di Gesù. Il sacerdozio di Gesù non è soltanto nuovo, è capovolto, perché l’Altissimo, il Signore, nella pienezza del tempo, scende. Il Verbo di Dio assume l’umanità. Nell’unica persona di Gesù di Nazareth il divino e l’umano, la natura divina e umana si congiungono senza confusione, senza mutazione, senza divisione e inseparabilmente. Non c’è separazione, ma abbraccio. Non solo: Gesù vive le nostre giornate, attraversa senza esenzione il dolore innocente. Non c’è creatura sulla terra che possa dire: Gesù mi è estraneo. Ha assunto tutto. È sceso negli inferi, ha attraversato la morte: questo mistero davanti al quale anche lui, come uomo, ha tremato. Vediamo celebrato il sacerdozio da Gesù non nello sfarzo del tempio di Gerusalemme, ma sul Golgota, con le braccia spalancate sulla croce. Il sacerdozio di Gesù è personale, esistenziale, dice il suo “sì”, per la redenzione del mondo, al Padre, alla sua volontà. Ecco la prima Messa, l’unica Messa. Le nostre non sono altro che una rinnovazione di quella di Gesù. Voi direte: l’abbraccio dell’incarnazione, fenomenale; l’abbraccio della nostra vita, straordinario; l’abbraccio fino alla morte, incredibile… Viene da dire: non si può andare oltre! Gesù, per la forza della risurrezione che è in lui (e che, attraverso lui, ci avvolge tutti), prende un grumo di materia, lo trasforma con le sue parole: «Questo è il mio corpo», e l’abbraccio si fa ancora più serrato e intimo. Si è fatto uomo, ha vissuto le nostre giornate, ha attraversato il dolore, è morto sulla croce, ha conosciuto gli inferi, la tomba e dopo la sua risurrezione si dona in un pezzo di pane. Nel pane consacrato c’è il Signore! Ma il sacerdozio di Gesù si spinge oltre, fino al punto di perdere il suo perdersi per noi, dona il suo donarsi e lo fa nel sacerdote. Ad un certo punto Gesù cede se stesso al prete! San Francesco d’Assisi diceva ai suoi frati: «Se vedete per strada un arcangelo e un umile sacerdote, chi dovete salutare per primo?». «Il sacerdote!».
Gesù ha ceduto a don Franco la sua capacità di cedersi. Don Franco tra poco celebrerà l’Eucaristia e dirà le parole di Gesù: questa è la vita di un prete. Dopo viene tutto il resto, perché l’Eucaristia ha le sue conseguenze: seguire i ragazzi, accompagnare gli ammalati, spendere la propria vita, ma la radice e l’energia vengono dall’altare. Se vuoi capire un prete, guardalo mentre sale i gradini dell’altare. Così sia.