Omelia nella XXXIII domenica del Tempo Ordinario

San Leo (Cattedrale), 17 novembre 2019

(da registrazione)

Ml 3,19-20
Sal 97
2Ts 3,7-12
Lc 21,5-19

Un caro saluto a tutti, in particolare alle autorità, civili e militari, ai responsabili della “Coltivatori Diretti” e a tutti quelli che lavorano la terra.
Talvolta si sentono delle critiche rivolte a noi sacerdoti per le nostre omelie. A volte è difficile prendere la parola in pubblico; la disinvoltura viene solo dopo tanti anni. A volte c’è una preparazione non sufficiente o addirittura si improvvisa. Un celebre teologo (protestante), Karl Barth, impiegava una settimana a preparare il suo sermone. Poi, giornate come questa sono complicate, perché dobbiamo ricordare i poveri, la Giornata del Ringraziamento, che quest’anno è incentrata sul tema del pane, e la liturgia domenicale che, di per sé, ha il posto principale.
Per quanto riguarda la Giornata dei poveri faccio una piccola integrazione all’atto penitenziale. La Chiesa, nella sua pedagogia, ogni volta che ci raduna per la Messa chiede anzitutto un atto di umiltà: il riconoscerci peccatori bisognosi di misericordia. A volte, la domenica celebro anche due o tre Messe e ogni volta chiedo perdono… Mi è capitato di pensare che tra una celebrazione e l’altra non fosse trascorso un tempo sufficiente a compiere altri peccati, ma la Chiesa mi educa a sentirmi sempre peccatore davanti alla santità di Dio, davanti alla sua maestà, e di riconoscere umilmente che vivo della sua misericordia.
Volevo fare un piccolo collegamento con l’atto penitenziale. Rubo le parole a papa Francesco il quale ha: «Il pane che chiediamo al Signore nella preghiera è quello stesso che un giorno ci accuserà» (Papa Francesco, Udienza Generale, Piazza San Pietro, 27 marzo 2019). Il pane: a noi viene da dare lode al Signore per i frutti della terra. Il pane: fa venire in mente il sudore. «Signore, dammi salute perché io possa continuare nel mio lavoro». Ma il pane – suggerisce il Santo Padre – è un atto di accusa verso di noi, perché «ci rimprovererà la poca abitudine a spezzarlo con chi ci è vicino, a condividerlo». La parola pane, soprattutto per noi di cultura mediterranea, riassume l’insieme dei beni più grandi; addirittura il pane sta ad indicare anche la vita familiare e di relazione: il pane sulla tavola, il pane spezzato. «Era un pane regalato per l’umanità, e invece è stato mangiato solo da qualcuno». L’amore non può sopportare questo. Non può sopportarlo il nostro amore e neppure l’amore di Dio può sopportare l’egoismo di non saper condividere il pane». «Signore, ti chiediamo perdono perché nell’umanità di oggi sussiste ancora questa sperequazione: c’è chi ha troppo e chi non ha nulla».
Adesso ci immedesimiamo nella lettura evangelica proclamata quest’oggi, una pagina che riecheggia il tema della “fine del mondo”. Senza pensare alla fine totale, molti di noi, nella vita, hanno vissuto episodi che sono come la “fine del mondo”; per questo si usa dire: «Mi è cascato il mondo addosso». Ai discepoli che erano incantati di fronte allo splendore del tempio di Gerusalemme, una delle cose più belle dell’antichità, Gesù dice: «Verranno giorni in cui, di tutto quello che ammirate, non resterà pietra su pietra che non venga distrutta» (Lc 21,6). Anche Gesù era incantato davanti alla bellezza, e non solo del tempio, anche davanti alla bellezza della natura. Ricordate quando ha esclamato: «Guardate i gigli del campo!». Comunque, Gesù ha amato il tempio, la casa del Padre, alla quale è salito, la prima volta, all’età di dodici anni. Vi è rimasto tre giorni. Ci ha anche dormito. Nel tempio ha pregato, insegnato, pianto, pensando alla sua distruzione. Anche Gesù ha provato la struggente esperienza della “fine”. Venendo alla nostra “fine del mondo”, basti pensare, ad esempio, ai genitori che hanno cercato di fare del loro meglio per dare ai figli una buona educazione e hanno l’impressione di aver fallito o alla condizione di chi rimane solo col suo amore ferito, infranto. Sono confuso di fronte a chi ha appena saputo di una diagnosi infausta che il medico gli ha confermato. Potrei continuare con tanti fatti che rappresentano per ciascuno di noi come “la fine del mondo”. Non dobbiamo aver paura di chiamare per nome le nostre situazioni di crollo o di fragilità, con sano realismo. Gesù, tuttavia – ecco l’annuncio di questa domenica – ci ha insegnato che Dio resta fedele alla sua alleanza e dà compimento alle sue promesse nel modo più corrispondente, addirittura sovrabbondante, che possiamo immaginare. Anche le situazioni più disperate, i crolli più devastanti, per chi crede – dice Gesù – diventano occasione di testimonianza. Fanno apprezzare l’antica sapienza che ammonisce sulla caducità delle cose: tutto passa. Inutile cercare false soluzioni – lasciamo da parte gli oroscopi e le sentenze dei maghi – ma cercare invece una vera solidità, cercare ciò che non crolla. Penso anche alla vostra bellissima cittadina, alla rocca che la sovrasta (speriamo che non crolli mai!), ma tutto il mondo è fragile. In questi giorni abbiamo davanti agli occhi Venezia, le valli del Trentino, la piena del Po che corre verso il mare. Mi viene in mente – è stata anche trasportata in musica – una preghiera di santa Teresa d’Avila che diceva: «Nulla ti turbi, nulla ti spaventi, Dio solo basta». Non dico questo per una fuga dalla realtà, perché dobbiamo impegnarci, prevenire i terremoti, costruire argini solidi… Ma come vivere la nostra “fine del mondo”? Scegliendo Gesù come roccia che non crolla mai. Oggi, nonostante i progressi della scienza e della tecnica, stiamo facendo i conti con la precarietà, con i limiti dello sviluppo. Ricordo che un tempo si faceva molto uso di un libro di uno scienziato americano, “I limiti dello sviluppo”. Era il periodo in cui si viveva l’esplosione del benessere e della presunzione di cavarsela da soli. Invece i fatti, anche recenti, smascherano le nostre presunzioni; viviamo con l’ansia per qualche grado in più o in meno della temperatura terrestre, un blackout elettrico mette in ginocchio una metropoli… Così lo smarrimento di tanti giovani fa temere per il futuro della società. Dentro la fragilità e il fallimento, dice il Signore, puoi trovare il valore della fedeltà; anzitutto la fedeltà di Dio, ma anche la fedeltà a se stessi, nel prendere atto che siamo fragili, la fedeltà al nostro lavoro, perché Gesù, verso la fine del discorso – viene chiamato “discorso escatologico sulla fine del mondo” – dice di non lasciarsi prendere dal pettegolezzo di dire: «Quando accadrà? Quali saranno i segni?». Gesù taglia corto e dice: «Siate perseveranti, datevi da fare» (cfr. Lc 21,19).
Nella Seconda Lettura san Paolo parla del lavoro; si potrebbe dire: «Be’, se siamo destinati a finire, perchè stiamo ad impazzire a lavorare?». Guai pensare così! Il Signore Gesù, se da una parte ci fa guardare al traguardo, intanto dice «costruisci, continua l’opera della creazione: il lavoro». Chiudo con una domanda un po’ retorica: «Quando domattina andremo a lavorare quale sarà il primo pensiero che faremo?». Ci sarà chi dice: «Uffa, anche oggi… ». Ci sarà chi dirà: «Non vedo l’ora, per finire quella cosa che avevo cominciato». Qualcun altro andrà con gioia al pensiero di vedere i suoi amici e i suoi colleghi, un insegnante al pensiero di vedere i suoi bambini o i suoi ragazzi a scuola. E io incalzo: «Perché vai a lavorare?». Alla fine, la risposta è: «Ci vado per amore. Vado a lavorare per mantenere la mia famiglia, per crescere e far crescere e metto nel lavoro tutta la mia spiritualità». Pensiamo ai castori, anche loro lavorano, fanno delle dighe degne del miglior ingegnere, o alle rondini che fanno dei nidi perfetti o alle api nella loro armonia. Lo specifico del lavoro umano è che l’uomo nel lavoro mette se stesso, mette la sua capacità di amare. Auguro a tutti una festa bella. Sia lodato Gesù Cristo.