Omelia XVI domenica del Tempo Ordinario

Pennabilli (Santuario B.V. Grazie), 21 luglio 2018

Incontro dei “referenti” della Camminata del Risveglio

Ger 23,1-6
Sal 22
Ef 2,13-18
Mc 6,30-34

(da registrazione)

Ho riflettuto per diversi giorni soltanto sul primo versetto del Vangelo: «Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato» (Mc 6,30). Il testo greco è ancora più esplicito con l’utilizzo di un verbo che esprime il ritorno concentrico degli apostoli. Gesù li aveva mandati in tutto il mondo «a due a due» (Mc 6,7). E dopo aver fatto questa esperienza di apostolato, di missione, sono entusiasti di rivedere il loro maestro, il loro amico, e di stare con lui. Avevano lasciato tutto per lui: il lavoro, la famiglia, tutto ciò che avevano. Ora tornano da lui: che affetto, che amicizia! Gli apostoli raccontano quello che hanno detto e fatto nel suo nome. Sì, loro hanno detto e fatto quello che il Maestro aveva loro indicato. C’era già un’effusione di Spirito Santo sufficiente per capire che non erano andati a fare un apprendistato missionario, una sorta di propedeutica. No, Gesù gli aveva dato la sua potenza, addirittura quella di cacciare i demoni, guarire i malati e annunciare la conversione: le opere che fa il Messia! Ebbene, sono divenuti partecipi della missione di Gesù. Che bello, allora, tornare e raccontare.
Questo primo versetto mi è piaciuto tanto perché questa settimana ho fatto il riassunto delle Visite Pastorali. È prescritto che il Vescovo, dopo la Visita Pastorale, scriva quello che ha visto e vissuto stando con i suoi fratelli. I primi tempi della Visita Pastorale scrivevo ogni sera quando tornavo a casa, ma con il passare dei mesi ho tralasciato questo lavoro e mi sono ritrovato a dover scrivere tutto alla fine. Però questa settimana è stata molto bella, perché scrivendo mi sembrava di raccontare a Gesù quello che avevo detto e quello che avevo vissuto. L’apostolato ha il ritmo del cuore, perché è come il cuore da cui il sangue parte e poi viene risucchiato, rinnovato e rimandato: un movimento di andata e ritorno. Così è l’apostolato. Pensavo: «Signore, mi hai affidato il capitale della tua Parola, come l’avrò trafficato?». È naturale che la missione si concluda con l’incontro personale con Gesù. Mi piace vedere come Gesù non pretenda che i suoi amici siano degli stakanovisti della predicazione. Gesù ha compassione; sa che è stato difficile per loro. In alcuni posti gli apostoli sono stati accettati, in altri li hanno scacciati. Hanno faticato. E Gesù adesso gli consente di sperimentare il suo amore, che li chiama a sé in luogo appartato, tranquillo, per riposare. La parola “riposare” richiama la Genesi, quando Dio, dopo aver compiuto la creazione, «riposò il settimo giorno» (cfr. Gn 2,2). E che cos’è la domenica se non il settimo giorno, il giorno nel quale il Signore ci chiama a stare con lui? Il riposo, i missionari non lo troveranno nel successo, nemmeno nella proporzione tra la semina ed il raccolto; non è questo che dà riposo, sollievo. Ma unicamente l’essere sul cuore di Gesù.
Viviamo così la domenica, quando andiamo alla Messa. La Messa è un incontro. Una volta si sottolineava l’aspetto dell’obbligo, del precetto. La Chiesa è anche una madre e una maestra, quindi cerca di educare, ma per gli adulti nella fede la Messa non va vissuta come precetto da adempiere, ma come sosta nel cuore di Gesù. Una settimana siamo stati mandati a fare i missionari, la domenica Lui ci richiama a stare con Lui, a fare l’esperienza di Giovanni che ha posto la sua guancia sul petto di Gesù. A questo proposito mi viene in mente che spesso ai miei seminaristi – ero educatore in Seminario – proponevo di vivere la scena di un vecchio film, “Marcellino pane e vino”. Li invitavo a fare così: «Immaginate di appoggiare una scaletta alla croce di Gesù, salite e poi mettete la vostra guancia sulla guancia di Gesù, il vostro cuore sul cuore di Gesù per sentirne i battiti, per sentire il suo respiro e immaginate di parlare cuore a cuore con Lui». Quante vedove di Nain da consolare, quanti lebbrosi da sanare, quanta disperazione salita al cielo in forma di preghiera… e Gesù chiama gli apostoli alla sosta, a riposare. Sembra un perdere tempo, ma la preghiera non è mai tempo perso. È una tentazione il pensare che ci sono cose più urgenti da fare. Papa Francesco, ai Vescovi italiani riuniti all’Assemblea Generale del maggio scorso, come prima cosa chiese: «Voi pregate?». «Il Vescovo deve pregare il doppio degli altri – proseguì il Papa – perché deve combattere per il suo popolo, deve stare con le mani alzate davanti al Signore per il suo popolo».
Gesù portò i suoi “in vacanza”, in un luogo deserto, ma la gente si era accorta della barca e, poiché il mare di Galilea ha molte insenature, la gente sulla riva può rincorrere la barca e arrivare a destinazione prima di essa. Quando Gesù approdò all’altra riva vide la folla che lo attendeva. Anche qui l’evangelista utilizza un verbo bellissimo, tradotto in italiano con la parola “commozione”. In realtà il verbo greco è più forte, la compassione è come una lacerazione dei visceri. Gesù prova questa lacerazione di fronte alla folla che è come «pecore senza pastore» (Mc 6,34). Allora stiamo sul cuore di Gesù, sulla guancia di Gesù e sentiamo forte la lacerazione dei suoi visceri: è la sua compassione d’amore.