Omelia XXIV domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Pennabilli, 16 settembre 2017

Candidatura al diaconato di Vittorio

(da registrazione)

Sir 27,33-28,9
Sal 102
Rm 14,7-9
Mt 18,21-35

Una regola generale e assoluta deve normare i rapporti all’interno della comunità: la misericordia e il perdono, avendo come prototipo quello di Dio verso di noi.
La bellissima ed efficace parabola è preceduta da uno scambio di battute tra Gesù e Pietro. Pietro conosceva bene le esortazioni rabbiniche sul perdono. Esse procedono dalla grande lezione dei libri sapienziali dell’Antico Testamento. Putroppo, al tempo di Gesù, erano racchiuse in uno schema legalistico che si perde a discutere sul cerimoniale… di pace e sul numero massimo dei perdoni legittimi. I rabbini di solito erano d’accordo che il numero di perdoni fosse quattro! Pietro, avanzando fino a sette, pensa di aver fatto il massimo per avvicinarsi al Maestro. Gesù gli risponde in modo sorprendente. Allacciandosi a Gn 4,24: «Lamec sarà vendicato settanta volte sette», Gesù ribalta la cifra della vendetta nella cifra del perdono. «Settanta volte sette» è un ebraismo che significa “sempre”. Non ci sono limiti fra fratelli. Poi segue la parabola. Punto di partenza la misericordia di Dio che è pensato come un signore orientale, supremo giudice sui suoi sudditi (ius capitis). Il debito del suo servo non è realistico: 100.000 monete d’oro (10 milioni di euro!), cifra a quei tempi neppur pensabile. L’esagerazione sottolinea che si tratta di qualcosa di umanamente imperdonabile.
Il servo lo supplica: pagherò un po’ alla volta (promessa risibile). Eppure al re questo atto sincero di disponibilità è sufficiente e, con una mossa a sorpresa, accorda al suo servo infinitamente di più di quanto gli avesse chiesto: gli cancella totalmente il debito.
Il nostro peccato è qualcosa di grande, ma la misericordia è infinitamente superiore. Va al di là di ogni ragionevolezza. Non è misurabile con il metro umano, la si può solo accogliere con fede e gratitudine. Questa prima scena fa da prologo alla seconda che è il centro dottrinale della parabola. Il servo graziato esce e incontra un collega che gli deve 100 denari (15 euro). Non ha pietà. Applica la sanzione giuridica. La terza scena non intende opporre due volti di Dio, ma è funzionale alla seconda scena. È un espediente di Matteo per dare vigore e urgenza all’ammonizione centrale: il perdono assolutamente necessario. Questo è il cemento della comunità (luogo della festa e del perdono) che oggettivizza nella Chiesa quanto Dio ha storicamente compiuto in Cristo. La parabola drammatizza la richiesta del Padre: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6,12). «Padre perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34).

Stefano e Filippo, diaconi di Gesù, sono diaconi nel suo Vangelo, diaconi generosi con i loro fratelli, per cui hanno spezzato il pane del Vangelo. Sono passati 2000 anni dalla stesura dei quattro vangeli, ma si può dire che non hanno perso la loro carica, la loro novità. I quattro vangeli assomigliano ad una biografia, ma sono ben di più. Non dobbiamo immaginare gli evangelisti a tavolino che scrivono di getto, penna e calamaio alla mano; la loro opera nasce dalle testimonianze e dai ricordi custoditi con cura dalla cerchia degli amici di Gesù. L’origine del loro scritto ha qualcosa di straordinario. Gesù stesso offre la chiave per interpretare i fatti della sua vita, compresa la sua morte di croce, le parabole, le parole che racchiudono una suggestione profonda. Non è solo una nuova dottrina che affiora, ma la comunicazione di un vigore che mette in moto perdono, libera risorse, apre alla speranza, la stessa sperimentata nei numerosi miracoli compiuti da Gesù. I miracoli si ripetono in forza della fede in Gesù: nemici che si ricongiungono, ricchi che sono disponibili alla condivisione, condannati dalla vita che si rialzano. Più che di miracoli si dovrebbe parlare di miracolo: il miracolo di Gesù. C’era in Gesù qualcosa di così straordinario, impossibile da spiegare con le sole risorse dello storico, che faceva trasalire. Basti pensare al racconto della sua vicenda di morte e risurrezione, del suo rapporto col Padre, della sua tenerezza verso chi aveva sbagliato. Anche oggi i fatti parlano chiaro. In virtù di quell’annuncio c’è chi cambia vita, c’è chi la vita la gioca pericolosamente per lui, chi trova una libertà e una gioia mai sperimentate prima e questo è un fatto: accade. I quattro vangeli sono opera degli evangelisti, ma in fondo sbocciano su questa esperienza originaria, condivisa da tanti, da una comunità.
Diacono, cioè servo del Vangelo. È difficile esserlo? Non è stato facile neppure per i primi discepoli; l’impresa di annunciare il Vangelo era smisurata. Gesù aveva detto: «Andate in tutto il mondo, annunciate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15). L’opera era iniziata, ma l’entusiasmo quasi subito veniva messo alla prova da una terribile persecuzione. I primi messaggeri e testimoni hanno incontrato pericoli e sopraffazioni, hanno affrontato viaggi e fatiche, hanno subito le critiche e le ironie dei sapienti, si sono scontrati con l’incomprensione dei familiari. Era difficile per la novità del messaggio, era difficile per le condizioni di vita e per le vie di comunicazione di allora, ma c’era la certezza – e c’è anche adesso – che il Signore accompagna il messaggero, anzi talvolta il messaggero si sorprende di essere preceduto da lui che apre strade e cuori. E i luoghi del primo annuncio, allora – ma si può dire che possa essere così anche oggi – erano i più disparati. Non solo luoghi pubblici: a Gerusalemme il tempio, ad Atene l’aeropago. Ma anche luoghi feriali: il mercato, le case, le carceri, le locande. Sorprendono soprattutto i contatti tra le famiglie; si discorreva di Gesù nella casa di Priscilla e Aquila, in quella di Cloe, ecc. A ben guardare la fede cristiana non è altro che un racconto, un racconto di Cielo, di un Dio che si fa uomo per amarci, per prendersi cura di noi, per chinarsi come fanno un papà ed una mamma sul proprio piccino. Questo racconto, fatto nuovamente, col cuore, come testimonianza di un incontro reale, vero, autentico, contiene una grazia particolare, quasi un sacramento. I primi cristiani chiamavano questo racconto kerygma. Questo racconto espone chi lo fa ed espone gli ascoltatori alla nuda e disarmante essenzialità della fede cristiana. Poi viene tutto il resto. Se tu per primo – anche noi – ci lasciamo guidare da questo paradosso pian piano si constata che i conti tornano, la vita cambia. Quello che è un racconto – stiamo parlando del kerygma – diviene un racconto sovversivo, perché sovverte la nostra idea di Dio, sovverte la nostra pratica stanca e abitudinaria della fede, sovverte il nostro modo di pensare e di stare in questo mondo.
Caro Vittorio, preparati a questa altissima missione. Dovrai parlare della misericordia del Signore, dovrai dire ad ogni persona, prima con la tua vita e poi con le parole, come diceva San Francesco, che Dio la ama immensamente.