XVII Domenica del Tempo Ordinario

Piandimeleto, 27 luglio 2014

 

XVII Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

 

1Re 3,5.7-12

Sal 118

Rm 8,28-30

Mt 13,44-52

 

Tra i fatti di cronaca di questa settimana – l’inasprimento della guerra israelo-palestinese, l’esplosione di un altro aereo in volo, la sorprendente navigazione dell’ingombrante relitto della Costa Concordia, le schermaglie politiche in Parlamento per le riforme – ha rilievo la notizia di Meriam, la madre sudanese che, condannata a morte per apostasia da un tribunale islamico e costretta a partorire in carcere (incatenata) nell’attesa dell’esecuzione, ora è finalmente libera. Abbiamo conosciuto la sua fede semplice e forte. Una fede che l’ha sorretta durante il processo e la detenzione in piena gravidanza. Una fede alla quale non ha rinunciato neanche sotto l’antico e feroce aut aut: “Convertiti o muori”. Una fede che la fa sorella di sangue di tanti, troppi, perseguitati e, in particolare, di donne che nessuno penserebbe come “eroine”, ma che sono capaci, proprio come lei e come la cattolica pakistana Asia Bibi da più di cinque anni in prigione per la sua fede, di non cedere a minacce e a lusinghe, restando fedeli a se stesse e a Gesù Cristo.

Un esempio per tutti noi. Ma anche un appello a non restare inermi di fronte alle persecuzioni: mai come adesso così violente. Dovremo pensare ad una mobilitazione, cominciando dalla preghiera.

Il Vangelo che oggi viene letto in ogni comunità risponde in pieno alle domande che ci facciamo sul Regno di Dio. Tre brevi parabole. Gesù non le spiega; preferisce, questa volta, la provocazione alla didattica. I nazaretani, ad esempio, gli risposero picche. E noi? Come ci poniamo di fronte all’annuncio del Regno? E’ sufficiente la preghiera: «Venga il tuo Regno»? Gesù aveva esordito così: “A che cosa paragoneremo il Regno di Dio? Ad un tesoro nascosto? Ad un mercante di perle? Ad una rete piena di pesci?”. “Sì” – risponde. Ma, se pretendiamo una definizione, restiamo delusi. Gesù, parlando in parabole, propone un enigma da decifrare: il Regno è un tesoro che mette in cammino, un segreto di cui ci sfugge la chiave, un giudizio tra cose buone e cose cattive. Per questo bisogna darsi da fare come fa chi ha scoperto un tesoro, o come fa il cercatore di perle. Esplora il campo delle Scritture, il terreno della solidarietà e dell’amicizia. Non dobbiamo andare troppo lontano: perle e tesori, benché nascosti, sono già presenti nella nostra esperienza di fede (Parola e Sacramenti), nella nostra vocazione (famiglia, lavoro, responsabilità) e nella vita di chi ci vive accanto. Il tesoro, la perla, la rete piena di pesci dicono la grandezza assoluta del Regno, un valore che relativizza ogni altro valore. Chi riconosce questo è disposto a tutto: cede tutte le altre perle. Nella parabola del tesoro viene sottolineata l’astuzia richiesta al cercatore. Apparentemente il bracciante della parabola è ingenuo (vende tutto per comprare quel campo) e – immaginiamo – avrà dovuto mettersi al riparo dal sarcasmo dei compaesani per quello strano investimento. Il discepolo non deve lasciarsi sviare dall’ironia di coloro che si credono furbi: il Regno di Dio, sì, è un vero affare! Il mercante di perle lancia una sfida: per “trovare” mettiti in un lungo e faticoso sforzo di ricerca, in un metodico itinerario di conversione. Se con la parabola della zizzania si proponeva una paziente attesa, con quella della rete piena di pesci si esige di rompere con gli indugi e di decidersi per Gesù!

Come fanno i martiri di oggi.

Periodico Montefeltro Luglio – Agosto 2014

Giornata sacerdotale al Pellegrinaggio dell’ Ustal – Unitalsi Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Santuario della Santa Casa di Loreto, 24 luglio 2014

(da registrazione)

Davanti ai nostri occhi abbiamo la Santa Casa di Nazareth: mistero di prossimità e nascondimento che ha visto l’incarnazione del Figlio di Dio.
Nella sua vita terrena il Signore Gesù ha rinunciato a tutto, ma non ad avere una famiglia. In famiglia ha imparato ad amare e ad aver cura dei rapporti. Il Signore fa vedere che la nostra vita di tutti i giorni è vita di Dio, redenta, significativa. E’ una vita in cui anche un bicchier d’acqua offerto per amore non perde la sua ricompensa. Nella casa di Nazareth si vivono le virtù soprannaturali: la fede, la speranza, la carità. Si potrebbe vedere come ognuna di queste virtù viene interpretata da coloro che la abitano: Giuseppe, Maria e Gesù. Ma si praticano anche le virtù morali. Anche le virtù morali sono, in qualche modo, dono di Dio, perché, anche se prendono forma con l’esercizio del nostro impegno, si possono vivere meglio con l’aiuto della grazia. Allora, più tardi, quando potrete accarezzare le pareti della casa di Nazareth, vi propongo di lasciarvi andare alla contemplazione, ad immaginare come Maria si aggirava tra quelle pareti impegnata nei lavori di casa, come Giuseppe vi lavorava, con la presenza di Gesù in mezzo a loro.
Nella casa di Nazareth si vive la franchezza. Ricordate quando Giuseppe va sulle tracce del fanciullo Gesù, dodicenne, e gli dice: «Figlio, perché ci hai fatto questo?». Anche nella loro famiglia c’è il momento del rimprovero, il momento della verità. E Gesù replica al padre in modo sorprendente. In essa si vive la purezza, perché c’è il rispetto delle relazioni. Nella casa di Nazareth c’è anche l’obbedienza; Giuseppe è il capofamiglia, Maria è la sua sposa e Gesù, che è il figlio di Dio, è sottomesso a Giuseppe e a Maria. In realtà questa triade di persone si potrebbe capovolgere; in cima ci sarebbe Gesù e poi Giuseppe e Maria, ma Gesù accetta con amore e per amore questo capovolgimento. Un giorno i cristiani diranno: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono di Cristo Gesù, il quale pur essendo di natura divina spogliò se stesso facendosi obbediente». Nella casa di Nazareth si vive la povertà, la povertà concreta e la povertà spirituale, quella dei poveri di Jahvè, di coloro che tutto si aspettano da Dio. Mi viene da pensare, cari amici sacerdoti, alle nostre canoniche. Sono luoghi aperti, accoglienti, luoghi nei quali c’è armonia? Noi ci siamo riuniti questa mattina nel segno della croce. Non potremmo parlare delle relazioni che si svolgono nella casa di Nazareth senza contemplare il mistero fondamentale della nostra fede, il mistero della Trinità, perché, in fondo, nella casa di Nazareth si vivono rapporti trinitari. Adoriamo un solo Dio in tre persone. Un dogma che ci assicura che Dio non è in se stesso solitudine, ma movimento d’amore verso il “tu”, circolarità d’amore in cui ognuna delle tre divine persone è per l’altra, vive l’essere per. Il dogma della Trinità sta a dirci che l’essenziale in Dio è comunione, è relazione. Da questo noi capiamo l’importanza e la bellezza delle relazioni. Gesù nella sua vita pubblica ci apparirà come un cultore delle relazioni, in particolare dell’amicizia. E questo è molto importante soprattutto per noi sacerdoti, perché con la scelta del celibato, non abbiamo rinunciato all’amore, alla casa. Gesù si prende tutto il tempo necessario per far visita agli amici, frequenta le loro case, si ferma a cena, stabilisce un rapporto personale, “a tu per tu”, da cuore a cuore; spesso porta fuori dalla confusione i suoi interlocutori proprio per poter stabilire un rapporto più profondo. Per Gesù nessuno è anonimo e senza volto. Un giorno Gesù laverà i piedi ai discepoli, a Giuda si rivolgerà chiamandolo amico, pregherà per chi lo uccide, piangerà per l’amico sepolto da giorni, gioirà per il nardo profumato dell’amica, si chinerà su chi soffre; Gesù non cercherà servitori, ma andrà in cerca di amici e durante l’ultima cena potrà dire «non vi chiamo più servi, ma amici». Nell’orto del Getsemani, in preda all’agonia, cercherà sostegno dagli amici, si farà mendicante di amicizia; non solo la offre, la domanda. Noi siamo nell’era delle comunicazioni, ma ci sono anche tante barriere nel nostro tempo: culturali, etniche, religiose, politiche; si vivono pregiudizi e chiusure, ma il nostro DNA rivela che siamo fatti per la relazione, per amare così come ama Dio. Amare tutti, senza alcuna aggettivazione, simpatici o antipatici, giusti o ingiusti, ricchi o poveri, prossimi o lontani. E’ sorprendente come Gesù dica, durante l’ultima cena, «come io ho amato voi – e noi ci aspetteremo grammaticalmente «voi amate me», e invece: «così amatevi gli uni gli altri». E’ da questo che sapranno che siete miei discepoli». Certo, l’amore esige un superamento di sé per fare spazio all’altro, proprio come accade nel rapporto tra le tre divine persone, dove una si perde nell’altra. Non sono tre dei, non sono tre essenze. Se noi chiedessimo al Padre “chi sei?”, lui direbbe “io non sono”. Se chiedessimo al Figlio, e poi allo Spirito Santo “e tu chi sei?”, direbbero “io non sono; mi ritrovo nell’altro”. Una sola essenza, una sola natura in tre persone. Occorre andare di fronte all’altro e fare silenzio, un silenzio profondo di ascolto per mettersi nei panni dell’altro. Il Signore ci chiede questa ascesi della relazione.
La chiave per vivere la comunione è la croce. Il Vangelo ci ha condotti nella via della croce. E’ “l’ora”. Questa dizione, “ora”, non ha niente a che fare con l’orologio, ma ha un significato altamente teologico. In quell’ora Gesù introduce ancora una volta la tensione alla relazione. Ai piedi della croce – il momento solenne della redenzione del mondo, il momento in cui nasce la Chiesa, in cui Gesù effonde il suo Spirito – egli stabilisce un campo di profonde, autentiche, umane relazioni. Gesù, nel momento in cui offre se stesso al Padre, guarda dalla croce e vede sua madre, tre discepole e il discepolo amato, Giovanni. Un campo di intense relazioni. Certo, non ci si può fermare al sentimento, men che meno al sentimentalismo, ma la vita spirituale è una vita vera, dove talvolta ti batte il cuore, ti scende una lacrima, dove senti il buio, la lontananza del Signore (che poi non è lontano, semmai instaura con te un gioco d’amore). La vita spirituale è intensa vita affettiva.
Ebbene, Gesù dalla croce guarda sua madre e gli dice «ti affido Giovanni, il discepolo più piccolo», e a Giovanni dice «ecco tua madre» e lui «la prende nella sua casa». Possiamo sentire rivolte a noi quelle parole. Allora prendiamo Maria nella nostra casa, perché abbiamo tutti bisogno di una madre che si prenda cura di noi e lei ha bisogno di noi. Noi sacerdoti abbiamo bisogno ancor di più di imparare da lei, perché, anche se non fu “sacerdote”, ella compì un gesto sacerdotale: mise al mondo Gesù. Tra poco, noi insieme, metteremo al mondo Gesù nell’Eucaristia.
Maria, vieni nella nostra casa!

XVI Domenica del Tempo Ordinario

Molino di Bascio

Omelia del Vescovo S.E. Mons. Andrea Turazzi

Sap 12, 13.16-19

Sal 85

Rm 8, 26-27

Mt 13, 24-43

 

 

Buon grano tra erbe cattive, minuscoli granelli di senape perduti tra zolle, pizzico di lievito in un mucchio di farina: immagini per curare la nostra impaziente sfiducia. Ognuno provi a pensare quando e in quali situazioni è sfiduciato o impaziente: il Vangelo gli darà risposte. Gesù, attraverso la parabola del buon grano e della zizzania, ha voluto anzitutto confidarci come lui sa stare nella complessità e nella “complessità più complessa” che è quella dei rapporti. Può darsi che Gesù abbia tratto l’ispirazione da un banale episodio di gelosia fra contadini. O, più verosimilmente, dall’insoddisfazione di qualcuno dei discepoli. Da sempre gli uomini sono tra bontà e cattiveria, gioia e lacrime, riuscita e fallimento, giustizia e iniquità, bellezza e sporcizia, amore e odio, pace e guerra. Quella realtà piccola, nascosta, sproporzionata – come una goccia d’acqua nel deserto o una barchetta nel Pacifico – ma carica di forza e di amore, è Gesù stesso, radicatosi nella storia e incarnato tra noi; un uomo fra miliardi di uomini. Gesù non teme la storia e le sue contraddizioni. Non ha paura di sedere a mensa con i peccatori. Non si defila dai cammini di croce. Così vuole i suoi discepoli. Siamo nel punto focale della parabola: il contrasto fra il modo di reagire dei servi e quello del padrone di fronte a grano e zizzania. I servi propongono di sradicare subito il male; il padrone lascia che il bene ed il male crescano insieme. Solo alla fine il bene trionferà, ma dovrà farsi strada nella libertà. Il metodo dei servi esprime – come scrivono gli esegeti – l’impazienza messianica dei giusti. Essi pretendono che subito, già ora nella sua fase terrestre, il Regno di Dio sia una comunità di perfetti, separata dai peccatori, ben arroccata nella cittadella dei buoni (F. Forini). Costoro non vedendo sfolgoranti e rapidi trionfi del Regno, ma solo i suoi umili inizi e le sue modeste performance, sono tentati di gridare al fallimento. Gesù replica con le miniparabole del granello di senape e del pizzico di lievito: il Regno di Dio diventerà albero e fermento per tutta la pasta. Insegna loro che un chicco di frumento è più forte di un intero campo di zizzania. Ma questo non dipenderà dagli sforzi umani. A Dio bastano mezzi minimi, compresa la nostra pochezza, per realizzare i suoi grandi disegni. Impariamo la lezione: non lasciamoci paralizzare dalla inapparenza della presenza cristiana nella storia e nella società, non perdiamo la mentalità del lievito e del granello di senape, confidando troppo sui nostri numeri! Vietato ripiegarsi su di sé coi soliti lamenti. Vietato contrabbandare per esigenze del Regno le astuzie e i criteri mondani di giudizio.

Se la parabola della zizzania spiega il perché Gesù tollera i peccatori, la rilettura che ci offre Matteo, dandocene una spiegazione, stimola noi peccatori a darci da fare e ad uscire dalla nostra ignavia.

 

Festa di San Leo

Pellegrinaggio a Ferrara, 6 Settembre 2014

I volontari Caritas a Ferrara con il Vescovo Andrea

Un pellegrinaggio insieme per:

stringere legami più forti di amicizia e di fraternità;
fare comunità, condividendo emozioni e momenti di gioia;
fissare nella mente e nel cuore e vivere la Parola del Vangelo: “l’avete fatto a me” (Mt 25,40)

A Ferrara perchè:

è una città d’arte;
ci unisce il legame con diversi padri e guide: il vescovo Paolo, il vescovo Luigi, il vescovo Andrea e, più anticamente, San Leo, fondatore e patrono della nostra diocesi;
ci aspettano gli amici della Caritas per uno scambio di esperienze.

Programma

ore 06.00: ritrovo dei volontari della Val Foglia in piazza del popoloa Piandimeleto e partenza in pullman per San Marino;

ore 06.20: ritrovo dei volontari di Macerata Feltria e Carpegna davanti alla Chiesa di Macerata F. e partenza, sempre in pullman, per San Marino;

ore 06.40: ritrovo dei volontari della Caritas Interparrocchiale della Val Conca in piazza Verdi e partenza in pullman per San Marino;

ore 07.00: partenza dal piazzale Carlo V d’Asburgo (c/o Scuola Elementare di Borgo) dei volontari di San Marino e di quelli provenienti dalla Val Foglia e Val Conca;

ore 07.15: ritrovo dei volontari provenienti dalla Val Marecchia nel piazzale dell’Ali Parquets a Gualdicciolo e partenza alla volta di Voghenza S. Leo;

ore 10.00: arrivo a Voghenza S. Leo e S. Messa;

ore 12.00: incontro con gli amici della Caritas di Ferrara;

ore 13.00: pranzo al Ristorante;

ore 15.00: visita della città (Castello; Cattedrale, Arcivescovado e dintorni..)

ore 17.30: visita della Certosa;

ore 18.30: partenza per San Marino.

XV Domenica del Tempo Ordinario

Monteboaggine, Chiesa di San Giovanni Battista,
Omelia S.E. Mons. Andrea Turazzi

Is 55,10-11
Sal 64
Rm 8,18-23
Mt 13,1-23

C’è chi mi ricorda che il Signore è giusto giudice e mi precisa che il Signore sfodererà la sua falce per mietere nel suo campo. Lo so. Ma resto folgorato, piuttosto, da questo versetto di Vangelo: Il seminatore uscì a seminare. Un’immagine di Dio che precede tutte le altre, che sta all’inizio di ogni inizio “che vibra di gioia e di profezia, colma di promesse, di buon pane e di fame saziata” (E. Ronchi). Ancora adesso Dio esce a seminare e a diffondere i suoi germi di vita. A piene mani. Dio è seminatore; la sua mano dona largamente; la sua forza incoraggia (cfr. Sal 112, 9); è aurora di ogni giorno, il «la» di ogni canto. Il mondo è gravido di lui. Qualcosa di Dio palpita in ogni fibra della creazione. I semi del Verbo sono presenti in ogni cultura.
Vedo, in questo, il primo tratto che descrive la Regalità di Dio come seminagione straripante, generosa, senza calcoli. Per la nostra logica angusta questo strano modo di fare può apparire come spreco, imprudente assenza di pianificazione. Egli semina su strade, pietraie, siepi e terra buona. Quale agricoltore si permetterebbe di sciupare così i tre quarti della sua semente? Ma Gesù non sta tenendo un corso di agronomia. Parla in parabole – questa è la prima di sette che leggeremo in queste domeniche di luglio – per svelare i segreti del Regno.
Io sono strada, pietra, siepe e terra buona. La mia città è strada, pietra, siepe e terra buona. Il mio tempo è strada, pietra, siepe e terra buona.
Il Seminatore non si arrende. Non s’attarda a considerare le zone refrattarie. Semina ancora con fiducia: offre altre chance.
Qualche pagina più sopra (cfr. Mt 9, 35-38), Matteo racconta la commozione di Gesù davanti alla sofferenza dell’umanità e il suo invito a chiedere al Padre rinforzi per l’impresa salvatrice: «operai per la sua messe». Per descrivere la situazione, che potrebbe essere avvilente, Gesù adopera per ben tre volte l’immagine della messe, immagine gioiosa, piena di canti e di sole. E’ una lezione importante per noi che non sappiamo alzare lo sguardo oltre le difficoltà del momento e l’arditezza delle sfide che ci attendono.
Non dimentichiamo la promessa di Gesù: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28, 20) e «vi manderò il mio Spirito per stare con voi sempre… lui parlerà in voi» (cfr. Gv 14, 15-18).
Allora pregherò così: Padre, venga il tuo Regno, ossia, fa che sappia farti spazio. Apri, Signore, i miei occhi perché possa vedere le tue impronte lungo le nostre strade sassose. Apri, Signore, le mie orecchie perché i tuoi appelli non siano soffocati dalle mille voci della foresta che mi cresce attorno. Apri, Signore, il mio cuore perché, come terra buona il tuo seme porti frutto. Un’ultima preghiera, Signore: che la tua Chiesa sia una Chiesa di seminatori. Seminatori pieni di fiducia e di coraggio, con questa parola d’ordine: «Ne vale la pena»!

 

Tana libera tutti – Cena sotto le stelle

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi XIV domenica del tempo ordinario

Chiesa Parrocchiale di Mercatale – Celebrazione Eucaristica 

6 giugno 2014

 I vangeli non ci riferiscono risate di Gesù, ma ci fanno comunque partecipi della sua gioia; così è nella pagina evangelica che ci accompagna questa settimana. L’evangelista Luca è ancora più esplicito di Matteo nel riferirci l’allegria di Gesù e nello svelarci, insieme al motivo, l’ispiratore segreto, lo Spirito Santo: In quell’istante Gesù esultò nello Spirito Santo e disse: Io ti rendo lode, o Padre, Signore del Cielo e della Terra … Questa non è l’unica circostanza: la gioia di  Gesù trapela nella sua presenza ai banchetti (ricordate a Cana? Non fece mancare il vino migliore), nell’abbraccio commosso riservato ai bambini contrastante la severità degli apostoli,  nei momenti di serena intimità con gli amici (a Betania gradirà il profumo di Maria). In questa pagina il motivo di gioia sta nel vedere come l’annuncio del Regno di Dio fa presa sui piccoli. Il Padre rivela loro cose belle ed inaudite. Egli dischiude un “sapere”  precluso alla superba presunzione degli pseudo intellettuali, un “sapere”di cui sono assetati i saggi di tutti i tempi, cose nelle quali i profeti hanno desiderato fissare lo sguardo. La scienza che il Padre dona a “questi piccoli” non è dunque frutto di una ricerca intellettualistica. Sboccia nell’anima che si pone dentro la relazione stessa che il Figlio Gesù ha con il Padre. Si usa talvolta nel linguaggio liturgico l’espressione «figli nel Figlio» che esprime in forma sintetica l’intima comunione con Cristo che il Battesimo produce in chi lo riceve. Per il dono della grazia battesimale il cristiano vive della stessa vita di Gesù; è divenuto infatti figlio del Padre, fratello di Cristo, tempio dello Spirito Santo e dunque – come scriveva Pietro ai primi cristiani – “partecipi della natura divina”. Dovremmo più spesso considerare la grandezza e sublimità della nostra vocazione e della nostra dignità e gioire dello splendore della grazia! Gioia indicibile che nessuno può toglierci, eccetto il peccato.

Se accetti di entrare e di diventare un “bambino evangelico”, cioè figlio, troverai il sapore di quel sapere; un sapore che condisce ogni cosa che fai.Gesù propone di entrare in una relazione viva, dinamica (qualcuno l’ha paragonata ad una danza!) la stessa che lui ha col Padre; una relazione a cui non sono estranee neppure le emozioni, il coinvolgimento affettivo e i passaggi tra oscurità e luce. Vita: vita filiale, vita umano-divina. Relazione con il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe; col Dio di Gesù, non il Dio dei filosofi (B. Pascal). Condizione unica e necessaria: accettare dunque di essere figlio, fino in fondo. In questi giorni di sole e di mare mi sovviene l’immagine di colui, che abbandonandosi quieto, sta a galla sulle onde, mentre chi si agita scomposto va a picco! Gesù non disprezza l’intelligenza, l’inquietudine della ricerca, il tumulto del desiderio, chiede, con l’intelligenza della fede, l’apertura del cuore. L’intelligenza, dunque, non resta fuori. Al contrario: quanti sentono il peso di una esistenza difficile, troveranno risposte e riposo. Troveranno il sapere che dà sapore!