Quaresima missionaria

Ritiro di Quaresima

Omelia VI Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di Pennabilli, 15 febbraio 2015

Lv 13,1-2.45-46
Sal 31
1Cor 10,31-11,1
Mc 1,40-45

Ancora una volta la mano di Gesù si protende a salvare. Questa volta l’inquadratura potrebbe soffermarsi sull’altra mano tesa, quella del lebbroso. Restiamo colpiti dalla sua audacia: rompe il cordone di sicurezza che lo tiene a distanza a causa del suo male contagioso. Decide di andare verso Gesù. Come è possibile? I lebbrosi non potevano avvicinarsi a nessuno; dovevano vivere ai margini del villaggio e, se uno di loro era in viaggio, doveva velarsi il viso e gridare: «Sono immondo», affinché la gente stesse alla larga. Così raccomanda il libro del Levitico: Il lebbroso porterà vesti strappate, velato sino al labro superiore… è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento (Lv 13,46). Le mani tese del lebbroso sono la sua preghiera: Guardami, Signore. Guarda il mio volto sfigurato. Guarda le mie mani senza dita. Come posso in queste condizione considerarmi creato a tua immagine? E poi la supplica: «Se vuoi, puoi… ». Come si chiamava quel lebbroso audace? Il nome non ci è stato tramandato, forse per dirci che rappresenta ognuno di noi con le sue piaghe. Abbiamo la stessa audacia?
Gesù accoglie il lebbroso, si oppone alla cultura dello scarto. E la risposta al lebbroso è netta, decisa, persino sdegnata a motivo della sua segregazione: «Lo voglio!». (Alcuni codici antichi hanno «arrabbiatosi» al posto dell’espressione «mosso a compassione», correzione dovuta agli esterrefatti copisti che hanno preferito attenuare il coinvolgimento empatico di Gesù). La volontà di Gesù è chiarissima: lottare contro ogni genere di malattia. Siamo davvero lontani dalla convinzione diffusa che ci si debba rassegnare al male come ad una fatalità o che il male sia un castigo divino. Due modi di vedere estranei ai Vangeli. Due idee sbagliate. In altre azioni miracolose Gesù ripete lo voglio; lo grida a Lazzaro: Lo voglio: vieni fuori. Lo dice alla figlia dodicenne di Giairo: Talità kum, cioè, Lo voglio: alzati.
Per l’eccezionale gravità della lebbra, la guarigione di quel lebbroso diventa segno inequivocabile della presenza del Messia. D’ora in poi è tolta la barriera che taglia fuori qualcuno dai rapporti: rapporto con Dio e col prossimo. Eppure, anche nell’era delle comunicazioni, tante barriere emarginano e separano: barriere culturali, etniche, religiose, politiche… Quanti pregiudizi e chiusure, persino fra persone che vivono nello stesso condominio! Gesù non le vuole… Esige l’eliminazione di tutto ciò che costituisce una limitazione dei rapporti. Accetta che il lebbroso si avvicini a lui per proclamare lo scandalo della sua esclusione. Lo rimanda poi alla comunità, perché la sua guarigione sia veicolo per l’annuncio del Regno che si è fatto vicino.

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Omelia V Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cappella dell’episcopio, 7 febbraio 2015  

Lo scenario non è più la sinagoga, ma una casa normale, come le nostre. È bello vedere con quale disinvoltura Gesù passa da un luogo all’altro, con la stessa sacralità. Nel primo ascolta la Parola e canta le lodi di Dio, nel secondo dà spazio e tempo all’amicizia, al riposo ed alla convivialità. Come nelle nostre case, in quella di Simone non c’è profumo d’incenso, ma rumore di pentole, odore di vivande sul fuoco e preoccupazioni. E, in un luogo e nell’altro, compie prodigi, segni del Regno di Dio presente che, come lievito, fermenta e, come luce, dà vita al quotidiano.
Gesù dunque entra nella casa di Simone forse per mangiare e stare un po’ in pace. Ma non fa in tempo a varcare la soglia che subito gli presentano il caso della suocera di Simone che è a letto con la febbre. La prima lettura, riferendoci le parole di Giobbe, descrive con efficacia la nostra fragile condizione di uomini: Notti di dolore mi sono state assegnate. Se mi corico dico: quando mi alzerò? I miei giorni sono stati più veloci di una spola, sono finiti senza speranza.
Dal racconto di Marco sembra che Gesù, senza indugiare, rinunci al meritato riposo per andare immediatamente al capezzale della suocera di Simone a guarirla. È un miracolo piuttosto povero di spettacolarità, dove Gesù neppure parla. Ma parlano i suoi gesti. Gesù si avvicinò: va verso il dolore, non lo evita, si immerge negli occhi di quella donna. Le prese la mano: gesto di confidenza e di affetto, forza per chi è stanco. La sollevò: la riconsegna alla propria andatura eretta, alla fierezza del servire. La mano di Gesù viene ogni giorno, come una buona notizia (forse inattesa), quando una parola, un incontro, una telefonata riaccendono la speranza e incoraggiano. La mano che solleva incoraggia a fare altrettanto e dice: prendi anche tu qualcuno per mano, solleva e guarisci, mettiti a servire. Il servizio è segno di una esistenza sanata. Un apologo famoso dice: un uomo passa per la strada, vede un bambino che muore di fame, e grida al cielo: “Dio, che cosa fai per lui?” E una voce risponde: “Io, per lui, ho fatto te…”.
Gli apostoli dicono a Gesù: Maestro, tutti ti cercano, resta! Gesù taglia corto: Andiamocene altrove. Non è un guaritore, né un luminare che fonda cliniche per pochi. Mi sono fatto tutto a tutti – scriverà un giorno l’apostolo Paolo – per salvare ad ogni costo qualcuno. Gesù se ne va per altri villaggi, in cerca di altre mani da sollevare. Prego: «Maestro della vita, mano che solleva, è difficile essere cristiano, ho in me febbri e demoni, non so se ce la faccio. Ma cercherò di rimettere in piedi quei fiori calpestati che sai. Però tu avvicina quella mano che non hai mai smesso di tendere, avvicinala ancora un po’, prendi la mia, sollevami. E con te andrò incontro all’uomo e a Dio» (E. M. Ronchi).
 

Mostra “Nella clamide rossa”

Nella Clamide Rossa

I curatori della mostra Anna Maria Tamburini e padre Francesco Acquabona presenteranno la figura e l’opera poetica e pittorica di Agostino Venanzio Reali.
Ilario Sirri accompagnato dal M° Michelangelo Benedettini declamerà alcune liriche.
All’inaugurazione saranno presenti S.E. Mons. Andrea Turazzi e altre autorità.
La mostra si pensa all’interno delle iniziative per l’anno della vita consacrata.

Omelia Giornata della vita consacrata

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di Pennabilli, 2 febbraio 2015

Ml 3,1-4
Sal 23
Lc 2,22-40

Lumen Gentium dunc sit Christus! (LG, 1)
1. Oggi è la festa di Gesù, luce delle genti!
La festa della luce, di Cristo luce, di Cristo tutto luce, è festa per tutti! La festa dell’incontro – cioè della Presentazione di Gesù al Tempio – festa della comunione con la luce, delle nozze, della sponsalità con la luce, è per tutti! La festa della Pasqua, della Passione e della Risurrezione per la quale e nella quale si diventa luce, è per tutti! Anche la festa della radicalità del Vangelo, dei suoi consigli e della loro realizzazione sulla terra, è per tutti!
I religiosi e le religiose continuano, in qualche modo, la missione incominciata da Anna e Simeone. Essi hanno visto la salvezza e hanno avuto la vocazione ad annunciarla. Sono stati chiamati dal Signore e sono stati consacrati dal Signore per svelare la vita che ci aspetta dopo questa vita. Sono stati chiamati e consacrati ad operare nella Chiesa, con una vita improntata alla vita futura, quella del Regno.
Un grazie a loro per il lavoro che compiono accanto a noi e che compiono per noi e per tutti gli uomini. E, col grazie, una preghiera, perché siano quello che devono essere: segno, anzitutto, del Regno.

2.Nella storia del cristianesimo la vita consacrata ha sempre avuto un ruolo unico e indispensabile. Lo Spirito Santo ha suscitato lungo i secoli uomini e donne sempre nuovi che vivessero in modo originale lo spirito del Vangelo e imitassero Gesù Cristo in qualche aspetto particolare della sua vita, anche come risposta ai problemi di un preciso momento storico.
Con il Concilio Vaticano II non solo si sono rinnovate le antiche famiglie religiose, ma lo Spirito Santo, che fa ringiovanire la Chiesa, ha suscitato tante forme nuove. Conosciamo tutti Benedetto, Francesco, Domenico, Teresa d’Avila, ecc., ma anche San Giovanni Bosco, la Beata M. Elisabetta Renzi, la Beata M. Maddalena dell’Incarnazione e, più vicini a noi, Madre Teresa di Calcutta, i Servi di Dio Luisa Piccarreta, don Oreste Benzi, don Giussani, Chiara Lubich, per citarne solo alcuni.
In un momento delicato e bello della vita della Chiesa come quello che stiamo vivendo, torna alla ribalta, con tutta la sua attualità e profezia, la vita consacrata.

3.Una precisazione: di per sé non ci si consacra al Signore, ma è il Signore che consacra il chiamato. Consacrazione pertanto è da intendersi come l’atto col quale il Signore riserva per sé, in vista dei suoi disegni, una persona (o un gruppo), stabilendola in una relazione nuova con lui. Cristo (parola greca che significa consacrato con l’unzione) è il consacrato per eccellenza: colui che il Padre ha consacrato e mandato (Gv 10,36) per noi.
La Chiesa è il popolo consacrato, famiglia di Dio in Cristo e ogni suo membro diventa, col Battesimo, Figlio di Dio, fratello di Cristo, dimora dello Spirito Santo. Consacrazione è sì la parola che connota la vita dei religiosi, ma prima ancora è parola che riguarda tutti i battezzati: designa la comune vocazione alla santità e alla missione. Per questo, oggi vogliamo mettere in rilievo il battistero da dove, come una sorgente, scaturiscono un fiume e i suoi ruscelli che rallegrano la città di Dio (Sal 45,5). Altra precisazione: è necessario correggere idee inesatte e superare pregiudizi che riducono la vocazione religiosa ai servizi che la esprimono, senza coglierne l’essere. I religiosi aiutano e servono la diocesi, prima di tutto, col vivere pienamente il loro carisma, facendolo conoscere e partecipandone i frutti. La fedeltà alla loro identità non li distoglie dalla partecipazione alla vita della Chiesa locale. Essi non sono presenti in diocesi a motivo di una supplenza, ma per essere vitalmente inseriti nella vita e nella missione della nostra Chiesa di cui sono parte integrante. Essi si pongono non accanto, ma dentro la comunità diocesana. Con la loro presenza, con i loro carismi e competenze, animano ambiti particolari e specializzati della pastorale, ad esempio la predicazione, la cura degli infermi e dei piccoli, l’animazione spirituale, l’istruzione e la cultura, l’accoglienza dei poveri, la promozione della donna…
Normalmente i religiosi vivono in comunità. Con la vita comune e l’impegno nella carità fraterna costituiscono una forte provocazione e una consolazione per i nostri gruppi e le nostre comunità.
I monasteri di clausura poi, sono un segno di speciale predilezione del Signore per la nostra terra: ci ricordano il primato della fede sulle opere, della contemplazione sull’efficientismo. I monasteri e le case dei consacrati diventino per tutti case di preghiera, luoghi di formazione e direzione spirituale, fari di spiritualità, non in concorrenza con le parrocchie – non oso immaginare in antagonismo – ma a servizio di tutti.
La Vergine Maria che ha portato Gesù al tempio per offrirlo al Padre presenti tutti noi, piccoli e grandi, laici, presbiteri e diaconi, consacrati e sposi al Signore. Sorregga le braccia del vescovo che, come quelle di Simeone, accolgono l’offerta.
Concludo con le parole di una splendida antifona. Adorna il tuo talamo, o Sion, e accogli Cristo il re: abbraccia Maria, che è la porta celeste: essa infatti sorregge il re di gloria della nuova luce. Sta ritta la Vergine portando con le mani il Figlio generato prima dell’aurora. Simeone accogliendolo nelle sue braccia annuncia ai popoli che è il Signore della vita e della morte, il Salvatore del mondo.

Omelia Festa di San Giovanni Bosco

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Chiesa di Murata, 1 febbraio 2015
Mt 18,1-5.10; 12-14

1. «Chi dunque è il più grande nel Regno dei Cieli?» (Mt 18,1). Una domanda ingenua: c’è ancora chi pensa il Regno come una grandezza mondana, dove contano le gerarchie, le carriere, il potere.
Nella sua risposta Gesù, con grande acume didattico, chiama a sé un bambino, lo pone in mezzo a loro, e insegna ai discepoli che, certo la comunità dovrà essere strutturata, ma conta chi diventerà piccolo come un bambino (v. 3).
Il bambino è spontaneo, sincero, non ha ambizioni. Così una comunità che vuole essere un segno del Regno non può tollerare che si dia posto al carrierismo; e chi ha delle responsabilità dovrà stare insieme agli altri in modo semplice, discreto, accogliente. Dovrà guardarsi dal disprezzare uno solo di questi piccoli che a volte infastidiscono con le loro domande e vogliono sempre giocare. Non li trascuri e non li scacci via, perché i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre. I loro angeli fanno parte del consiglio ristretto di Dio e quindi saranno giudici accusatori o difensori a seconda di come si sono trattati i bambini!

2. Don Bosco ha accolto i bambini e “questa cara gioventù”; è stato un prete così! E chi non vorrebbe averlo come amico, maestro, guida? Ed a chi – tra i giovani – non piacerebbe diventare un prete come lui? Amico dei ragazzi, interprete dei loro sentimenti più profondi e veri, animatore del loro cammino e del loro stare insieme… Adulto e, nello stesso tempo, più giovane di loro!
Prima dei talenti che hanno resa così singolare la sua vita, prima delle sue geniali intuizioni pedagogiche e delle sue qualità umane (che ce lo fanno sentire ancora tanto vicino a 200 anni dalla nascita), dobbiamo considerare il segreto racchiuso nell’anima di quest’uomo. Era un uomo di Dio. Ha creduto all’amore di Cristo e si è lasciato fare da lui: ha camminato alla sua presenza. Da qui la sorgente della sua gioia, l’inesauribile dedizione nel dono di sé. Non solo è stato accogliente con i piccoli, ma ha fatto proprio lo “spirito d’infanzia”: Essere come i bambini; un programma esigente e semplice.
Per don Bosco significava quello “spirito dell’infanzia” che ti fa sentire amato dal Padre preventivamente e incondizionatamente. Non per meriti acquisiti. Dio ama, come un papà e una mamma amano il loro bambino; semplicemente perché è “loro”!
3. Perdonate questo riferimento personale: il mio primo incontro con don Bosco è accaduto quando ero bambino. Nel sussidiario della terza elementare c’era una pagina dedicata a lui. L’illustrazione lo ritraeva ai bordi di una giostra con tanti ragazzi attorno. Da allora ho sempre collegato la sua persona alla gioia; anzi, ad una delle sue espressioni più eloquenti: il gioco.
Don Bosco si è fatto “giocoliere” tra i ragazzi. Ha avuto una grande intuizione: nel gioco si liberano e si fanno circolare talenti. Il gioco è una dimensione importante della vita (chi lavora volentieri, vive il lavoro stesso come gioco e tanti giochi simulano i lavori!).
Il gioco non è solo relax, una sosta dalla fatica, ma muove creatività, fantasia, libertà, impegno… Per don Bosco il gioco era una cosa seria: scuola di vita, palestra dove ognuno si misura con se stesso. Il gioco è gratuità.
Nelle memorie di don Bosco si narra del suo incontro con uno dei primi ragazzi dell’Oratorio. Un altro prete stava scacciando in malo modo quel monello. Don Bosco ferma il ragazzo e gli dice con garbo e con una certa solennità: “Ho una cosa importante da dirti. Aspettami dopo la Messa”. Il ragazzo non se ne va. È incuriosito: nessuno mai si è rivolto a lui con la promessa di una cosa importante… Finalmente, dopo la Messa, don Bosco chiede al ragazzo: “Sai leggere?”. “No”, risponde. “Sai scrivere?”. “No”. “Sai fare un mestiere?”. “No”. “Sai cantare?”. “Neppure”, replica il ragazzo. “Sai fischiare?”. “Sì!”, risponde finalmente il ragazzo. Con un ragazzo che sapeva fischiare don Bosco ha iniziato un capolavoro di pedagogia: l’Oratorio. C’è una grande idea dietro: andare ostinatamente alla ricerca del positivo che è nell’altro. In ogni persona c’è qualcosa, presente in germe, che può sbocciare. Ha solo bisogno del clima necessario per venir fuori. Mi hai fatto come un prodigio, canta il Salmo 138. E ancora: la tua bontà mi fa crescere (Sal 17).
È l’essenza del metodo educativo salesiano. “L’educazione è cosa del cuore”, scriveva don Bosco. Da qui il “prevenire” piuttosto che il “reprimere”.
“Farsi bambino”: una parola che può trarre in inganno. “Farsi piccolo”, “credersi piccolo” può nascondere infantilismo o falsa umiltà. È proprio del bambino non restare piccolo. Il bambino cresce, e non può che essere così; riceve la vita dai genitori e l’aiuto dai grandi e questo gli consente di svilupparsi fisicamente, intellettualmente e spiritualmente. Se Gesù ci esorta a diventare come bambini è perché vuol ricordarci che non abbiamo mai finito di crescere!
4. Nella biografia di don Bosco troviamo il riferimento ai suoi sogni. Come interpretare questo? Don Bosco non era un “sognatore”, ma una persona assolutamente concreta, attenta alla realtà, coinvolta nelle vicende del tempo. Eppure ha ricavato dai suoi sogni progetti e scelte. Gli è stato riconosciuto in questo un carisma speciale. Che rapporto c’è tra sogno e realtà? C’è chi vede nel sogno l’emergere del proprio vissuto e dell’inconscio: nel sonno si allenta la vigilanza e viene fuori il passato. Don Bosco sembra dirci che nel sogno è adombrato l’ideale. Nel sogno c’è futuro e orizzonte! Per lui è stato così. Il sogno è stato vocazione! Vale per i ragazzi e vale per noi adulti: “Quando eravate ragazzi – diceva don Bosco – vi ho voluto bene, adesso che siete grandi ancora di più”.
A San Domenico Savio ha insegnato il segreto della santità e del sogno: “Fare la volontà di Dio sempre, subito e con gioia”.