Periodico Montefeltro ottobre 2018

Giornata Mondiale della Pace

Omelia XXXIV domenica del Tempo Ordinario Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo

Pennabilli (Cattedrale), 25 novembre 2018

Conferimento dei ministeri

Dn 7,13-14
Sal 92
Ap 1,5-8
Gv 18,33-37

(da registrazione)

Oggi, in tutta la Chiesa, da un capo all’altro del mondo, risuona un’unica acclamazione: «Gesù, nostro Re!». Profumi d’incenso, cori possenti… Ma adesso Gesù, fissando negli occhi, con amore, ciascuno di noi, fissando negli occhi la sua Chiesa domanda: «Dici questo da te oppure altri ti hanno persuaso?». È una parola, quella che suggerisce Gesù, che mette in crisi, una parola che apre i cuori alla verità. «Chi sono io veramente per te? Oltre le frasi fatte, le liturgie convenzionali e gli slanci. Se mi elimini dalla tua vita speri di regnare più tranquillamente nel tuo piccolo feudo oppure senti la mia regalità come una tua possibile liberazione?». In verità la sovranità di Gesù è un antidoto alla brama di potere, di contare, di apparire che cova in ogni essere umano. «Il mio regno non è di questo mondo (Gv 18,36)», dice Gesù. Questo non significa che Cristo è Re di un altro mondo, ma che è Re in altro modo.
Consentitemi un approfondimento. L’evangelista Giovanni riferisce gli atti processuali culminanti prima con l’incoronazione di spine di Gesù e poi con la sua crocifissione. L’umanità incredula presentata da Pilato e dai Giudei lo sbeffeggia come re per burla. In realtà è Dio che lo sta incoronando. Il brano può essere letto da un punto di vista storico e da un punto di vista teologico. Storicamente Pilato ha fiutato un pretendente politico che potrebbe sconvolgere gli equilibri della realpolitik romana. A Pilato non importano le complicate questioni religiose riguardanti il Messia. Lo preoccupa l’indiziabilità politica di Gesù sulla base delle accuse mossegli dal potere giudaico. «Dunque tu sei re?» (Gv 18,37). Si fronteggiano da una parte colui che detiene il potere e la spada e dall’altra il prigioniero disarmato. Che fa Gesù? Gesù non si smarca, ma vuole aiutare il governatore a capire l’accusa. Conferma di essere re, ma in modo assolutamente eterogeneo rispetto ai sospetti di Roma e anche rispetto alla grossolana accusa dei Giudei. Il suo regno non è di questo mondo, ma cambierà il mondo perché un’altra è la verità della storia. A questo punto Pilato è ancora più confuso: di quale regalità si tratta? Gesù è un re senza corte, senza esercito, senza appoggi politici, senza un seguito se non un gruppo di straccioni. Una regalità evanescente, legata esclusivamente alla verità. Ma che cos’è la verità? Pilato dovrà concludere per l’innocenza politica di Gesù, anche se firmerà l’atto di condanna.
Dal punto di vista della teologia, la lettura di fede degli atti processuali scorge nei fatti il realizzarsi del progetto di salvezza del mondo che ha in cuore Dio. L’accusa è vera: Gesù è Re, ma è Dio che lo incorona. Gesù è Re, perché viene da Dio. Il suo primo trono fu una mangiatoia, l’ultimo una croce. E da questa non ha voluto scendere. Il regno di Gesù non è una delle tante società esistenti, seppur potrebbe essere la migliore, ma la suprema rivelazione che la comunione con Dio è possibile per ogni uomo, a qualunque realtà politica appartenga. Non abbia paura Erode, non tema Pilato; la regalità di Gesù rivela quanto Dio ami l’uomo. Il suo è il regno dell’amore, l’amore che serve l’altro, che lava i suoi piedi, che fascia le sue ferite, che sostiene nel laborioso cammino. Il regno di Dio è lo spazio dove non solo Gesù ma tutti possiamo essere re, perché liberi di amare, ossia di rendere felice l’altro.
Nel momento della condanna ad una morte orrenda Gesù resta libero di amare, non si lascia sommergere dalla negatività, continua a trasformare il male dell’ingiustizia nel bene del perdono. La stessa libertà è di fronte a noi come programma di vita. Liberi di servire.
Cari amici, care amiche, oggi venite presentati per essere istituiti ministri, come lettori, come accoliti o come incaricati ministri straordinari della Comunione. È molto bello quanto sta per accadere questa sera nella nostra cattedrale. Stiamo per accogliere e benedire il vostro desiderio di corrispondere a quella che vi è sembrata un’intima chiamata del Signore: «Vuoi regnare con me, cioè servire?». Siete accompagnati dalla buona testimonianza dei vostri parroci, dalla vostra comunità, incoraggiati da tanti amici e dal favore della vostra famiglia. Attesto come sia provvidenziale che questa liturgia si celebri proprio oggi, solennità di Cristo Re.
Carissimi, vi assicuriamo la nostra preghiera, vi auguriamo un ricco ministero sotto la guida dei vostri parroci e di chi vi segue per incarico del Vescovo, il diacono Graziano. Dite, con gioia nei vostri cuori, a Cristo, che è Re di cuori: «Io sono tuo». Gesù Risorto vi accompagni e sia la vostra forza. Così sia.

Accoglienza della vita

Voci di giovani in missione

Istituzione nuovi ministri

Omelia nella XXXIII domenica del Tempo Ordinario

Scavolino, 18 novembre 2018

Giornata del ringraziamento

Dn 12,1-3
Sal 15
Eb 10,11-14.18
Mc 13,24-32

(da registrazione)

Il Vescovo deve sentirsi a casa sua in ogni assemblea; in un’assemblea di metalmeccanici all’interno di una fabbrica, oppure con un gruppo di insegnanti, ma, essendo figlio dell’ortolano di Stellata di Bondeno, in quest’assemblea mi trovo ancor di più a mio agio, perché fin da bambino partecipavo alle Giornate del ringraziamento al Signore per i doni della terra. Abbiamo ricordato le persone in difficoltà, in questi giorni, a causa del maltempo. Stavolta è capitato altrove, altre volte è successo da noi: fa parte della natura. Questo ci insegna la solidarietà e ci invita a camminare di più insieme.
Quando la Sacra Scrittura parla del creato lo fa sempre con un tono di grande ammirazione e soprattutto di stupore per la varietà delle creature che vivono in esso. Fin dalla prima pagina della Bibbia viene sottolineato come Dio benedica la molteplicità, la diversità, la pluralità di quello che produce la terra. «E la terra produsse germogli, erbe che producono seme secondo la propria specie e alberi che fanno ciascuno frutto con il seme, secondo la propria specie. Dio vide che era cosa molto buona» (cfr. Gen 1,12)». La stessa meraviglia per la diversità esplode anche nel Cantico delle Creature che il coro ha intonato all’inizio della celebrazione: «Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba». La varietà della vita è dunque un dono prezioso, un valore intrinseco che va tutelato.
Dobbiamo avere molta gratitudine per papa Francesco per la sua enciclica Laudato si’. Importante il primo documento sull’evangelizzazione, Evangelii Gaudium, ma era una tematica soprattutto intraecclesiale; bellissima l’esortazione apostolica Amoris Laetitia che parla dell’amore nella coppia e nella famiglia, ma l’enciclica Laudato si’ è veramente universale, dedicata a tutta l’umanità.
Qual è il problema che viviamo oggi? L’Italia dei mille borghi e dei mille campanili ha saputo resistere all’emergenza che è il contesto della globalizzazione commerciale che oscura la varietà delle specie, specializzando la coltivazione in un settore o in un altro. L’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO) ha lanciato un appello: negli ultimi cinquant’anni il 75% della biodiversità delle colture è andata perduta; si è perduta la genetica delle piante. Questo è molto grave. La biodiversità è stata sottoposta a grandi interessi commerciali. Però, la nostra agricoltura, i nostri ambienti – in Italia soprattutto – ha saputo far fronte. C’è stato l’impegno e la riscoperta delle biodiversità; si è avuto un atteggiamento di protezione verso i semi più antichi, le piante e i frutti dimenticati. Questo ha fatto sì che quest’anno (2018) è stato dichiarato l’anno del cibo italiano. Lo dico con gratitudine al Signore, ma anche con riconoscimento per l’agricoltura italiana che ha saputo essere a favore della biodiversità.

Abbiamo potuto ascoltare, nel Vangelo di Marco, una piccola e breve apocalisse, ma molto drammatica. Direi – se mi consentite – che mai come questa pagina di Vangelo mostra come l’interpretazione dipenda dall’angolatura con cui viene letta. Ammettiamo di essere di quelli che al mondo stanno bene, che hanno posto solide radici e hanno davanti un futuro garantito. Per loro questo Vangelo diventa un forte richiamo, come a dire: «Stai in guardia perché tutto passa. Apri bene gli occhi e considera ciò che conta veramente, finché sei in tempo». La vita stimata del pianeta Terra è di circa 4,5 miliardi di anni. Quello che Gesù dice è molto reale: quando nel sole terminerà l’idrogeno, elemento fondamentale per innescare le reazioni termonucleari responsabili della maggior parte dell’energia emanata dalle stelle, il nostro sistema collasserà. La vita stimata è di circa 4,5 miliardi di anni, ma è possibile che la Terra muoia anche prima per cause imprevedibili oppure perché distrutta dall’umanità. Allora Gesù ci mette in allerta, invitandoci a considerare quello che vale veramente nella nostra vita. Ho fatto un accenno al sistema solare, ma nell’anima quante volte viviamo dei crolli, quante volte una luce si spegne, quante volte un universo interiore si sbriciola e stiamo male.
C’è un altro modo di leggere questa pagina. Per chi è dentro una grande tribolazione e si sente come ghiaia messa dentro alla betoniera enorme che è la storia, questa pagina di apocalisse può suonare come una riscossa, come una promessa. «Vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza» (Mc 13,26). Ognuno può dire: «Viene per me!».
Due modi di leggere, due categorie di persone che alla luce di questa pagina reagiscono in modo diverso, ma probabilmente tutt’e due le situazioni ci appartengono, pertanto possiamo far nostre tutt’e due le interpretazioni. Un’apocalisse che ci mette in guardia, ci dà il senso del nostro limite, ci ricorda che siamo friabili, fatti di materiale deperibile, e ci invita alla saggezza di puntare su ciò che rimane. Dall’altra parte, quando siamo nella prova, nella difficoltà, veniamo spinti a guardare avanti con speranza.
Vorrei concludere con un brevissimo accenno a come Gesù fa parlare le piante. «Guardate il fico (una pianta che vale per tutte)… ». Sembra quasi che le leggi dello Spirito siano specchiate nella creazione e ogni essere vivente, perfino un granello di polvere, è un messaggio di Dio. La sapienza dell’albero: «Quando i suoi rami si fanno teneri – dice Gesù – e mettono le foglie (piccole gemme che l’albero spinge fuori da sé, da dentro a fuori, come un piccolo parto), voi sapete che l’estate è vicina (cfr. Mc 13,28). In realtà le gemme annunciano la primavera piuttosto che l’estate, ma in Palestina, al tempo di Gesù, la primavera era brevissima; anche questo ci sta ad indicare che egli è vicino, è alle porte. Da una gemma, da una lezione che possiamo toccare con mano, impariamo il futuro di Dio che sta alla porta e bussa e non viene con un dito puntato, minaccioso, ma viene con un abbraccio, un germoglio di vita. Vieni, Signore Gesù!

Omelia nella XXXI domenica del Tempo Ordinario

Belforte, 4 novembre 2018

Dt 6,2-6
Sal 17
Eb 7,23-28
Mc 12,28-34

(da registrazione)

Oggi in Italia si ricorda la fine della Prima Guerra Mondiale, cento anni fa. Ognuno di noi ha qualche nonno o bisnonno che ha combattuto e, in molti casi, ha lasciato anche la vita. «Una inutile strage», disse papa Benedetto XV: 18 milioni di caduti. Abbiamo un dovere di riconoscenza verso di loro. Abbiamo il dovere di fare memoria. Preghiamo per tutti. Oggi faremo una grande invocazione per la pace.

Ho molte cose da dirvi alla fine di questa settimana trascorsa in mezzo a voi.  Quando penso a Belforte all’Isauro la prima immagine che mi viene in mente sono le chiavi attaccate alle porte. Le chiavi attaccate alle porte dicono fiducia. Belforte è un borgo nel quale ci si offre aiuto reciproco e il conoscersi bene è la prima risorsa insieme alla collaborazione tra municipio e parrocchia, tra istituzioni educative e associazioni, fino alla realtà che ho visitato poco fa: “Belfare” (geniale il nome!). Le chiavi attaccate alle porte mi hanno fatto ricordare che in una parrocchia soppressa della nostra diocesi, l’ex chiesa parrocchiale di Santa Flora in Sapigno (Anno Domini 1674), nella canonica è scolpita sulla porta una frase molto significativa: «Porta patens esto nulli claudatur honesto egenos vagosque induc in donum tuane concordia fratrum quovis muro tutior (Porta sii aperta, non chiuderti all’onesto. Fa’ entrare nella tua casa poveri e viandanti. La concordia dei fratelli è più sicura di qualsiasi muro)». A proteggere la casa e a darle sicurezza è l’amore che vi si vive.
L’adorazione e la preghiera hanno fatto da sfondo alla visita del Vescovo, in particolare durante il tempo della visita ai malati. Grande è il valore della preghiera: come le mani alzate di Mosè mentre il popolo combatte (cfr. Es 17,8-16). Dobbiamo recuperare la preghiera, soprattutto in famiglia. Due sono stati gli appuntamenti con maggior partecipazione. Al campo santo ho notato raccoglimento e devozione. Il primo messaggio che ho lasciato è la santità da cercare nella vita ordinaria, tra le persone a noi vicine, non in modelli astratti, ideali o sovrumani. Così, un laico può incontrare santi sul posto di lavoro, un vescovo nelle sue Visite Pastorali, un parroco nella benedizione alle famiglie, un paziente in un medico di ospedale e viceversa. Belforte ha l’onore di custodire la casa della Serva di Dio Maria Francesca Ticchi. È nata qui, è vostra concittadina, fa parte di voi, è cresciuta come le vostre bambine, poi, divenuta grande, ha chiesto con lo stratagemma di una bugia di poter consacrarsi direttamente al Signore. Una bugia perché si è spacciata per sua sorella un po’ più grande, che aveva lo stesso nome, con la complicità del parroco, perché non aveva l’età canonica per andare in convento. Gli innamorati sono pronti a tutto!
Il secondo messaggio, che ho dato nella cappella del cimitero, è stato un invito a riflettere sui Novissimi, cioè “le ultime cose”: morte, giudizio, inferno, paradiso. Un discorso sulla fine? In verità è stato un discorso sul fine della nostra vita, perché la domanda fondamentale è: «Per chi vivo?». Oggi abbiamo tanti idoli, tante sirene che ci condizionano e rischiano di schiacciarci nell’immanenza, nelle cose materiali. Recuperiamo la dimensione spirituale! Questo è stato oggetto del confronto con i membri del Consiglio pastorale. Provocatoriamente ho detto: «A Belforte come va con la fede?». La risposta è stata: «Gli anziani l’hanno mantenuta e la tengono salda, sono un esempio per tutti». In effetti, ho fatto visita a molti anziani e ho trovato persone di fede e di preghiera che ricevono ogni mese la visita del parroco che porta loro Gesù Eucaristia. «Noi adulti – hanno aggiunto – abbiamo tante distrazioni: impegni, lavoro, ambizioni, ecc. I giovani danno l’impressione di abbandono completo della pratica religiosa». Che fare? Anzitutto bisogna partire dal positivo che è in ognuno, perché ogni persona che viene al mondo nasce con una scintilla divina. Siamo fatti di Cielo e non può il cuore non aprirsi alla bellezza, alla bontà, alla verità: cos’è questo se non apertura a Dio? Da parte nostra – è stato detto – dobbiamo offrire ai giovani testimonianza pratica, esperienze forti, comunicazione che catalizza; occorre mettersi a livello dei ragazzi, cercare di accompagnarli, di ascoltarli e di suscitare in loro domande. Poi, essere vicini a loro in quella grande provocazione che è il dolore che, prima o poi, in un modo o in un altro, arriva e può dischiudere l’intelligenza, la coscienza e il cuore.
Ho incontrato scuole, istituzioni e associazioni e in quei contesti si è detto che la politica è «una forma alta della carità». Che altro è la politica se non ricercare il bene comune, mettersi a servizio di tutti, partecipare? E il volontariato che cos’è se non “fare volentieri”, con passione. Ringrazio per la cortesia, anzi per l’amicizia con la quale sono stato accolto nel Consiglio comunale, nelle scuole elementari e all’asilo nido.
Grazie anche della considerazione e del tempo che mi è stato dato durante la visita alle vivaci aziende di Belforte che assicurano lavoro e sono un presidio sul territorio.
Quanti incontri in questi giorni… Volti, nomi, situazioni. Vorrei, se fosse possibile, abbracciare tutti. Lo farò certamente con la preghiera. Ricordo i ragazzi e le frasi di Vangelo che mi hanno saputo dire quando ho chiesto loro: «Qual è la frase più bella del Vangelo?». Così ricordo gli sposi; insieme abbiamo meditato sul matrimonio come sacramento che aggiunge un valore inestimabile all’amore umano e dà forza a quella che è una vera e propria missione, la vita di famiglia.
Con un gruppo di adulti ho vissuto e meditato la pagina del Vangelo di Marco che racconta la risurrezione di Gesù: donne che vanno al sepolcro dove era stato posto Gesù, donne capaci di affrontare il dolore e l’oscurità della tomba e, proprio lì, l’annuncio della risurrezione: «È risorto! Non è qui». Se Gesù non fosse risorto, vana sarebbe la nostra fede (cfr. 1Cor 15,14). È proprio perché lui è vivo che ci riuniamo in assemblea come questa mattina, l’assemblea grande parrocchiale a Belforte o le assemblee delle chiese di Viano e di Torriola (almeno una volta ogni quindici giorni) o le assemblee occasionali a Campo, ma un’unica realtà parrocchiale, un unico cuore attorno al nostro don Franco del quale ho potuto conoscere da vicino la bontà, lo spirito sacerdotale, l’ospitalità. Sono stato una settimana in casa con lui: vitto, alloggio, lavoro pastorale e preghiera insieme, la sera e la mattina. Grazie don Franco!

Infine, ci portiamo a casa l’insegnamento dal Vangelo di oggi, un Vangelo che dobbiamo vivere per non essere “lontani” dal Regno di Dio, perché Gesù elogia così lo scriba che gli dice la sua frase di Vangelo: «Non sei lontano dal Regno di Dio, beato te» (cfr. Mc 12,34). Che Gesù lo possa dire anche di noi! Ecco: «Amare Dio con tutto il cuore… e il prossimo come se stessi» (Mc 12,30-31). La novità sta nell’unità di quelli che appaiono come due comandamenti distinti: amare Dio e amare il prossimo. Sono un unico comandamento. Dio non si presenta come concorrente dell’uomo. Sarebbe così se si dovesse scegliere fra l’amore per lui e l’amore per il prossimo. Ma – avete sentito – lo scriba adopera la congiunzione “e”, non la disgiuntiva “o”. Ed è anche la testimonianza che ci offre Gesù. Lui ha un grande amore per il Padre; questo amore lo trattiene sul monte a lungo a pregare e gli fa alzare gli occhi al cielo prima di gesti importanti, ma, nello stesso tempo, Gesù va ad incontrare malati, a soccorrere poveri e peccatori, a radunare folle disperse come pecore senza pastore. Dunque, un’unica fedeltà: a Dio e all’uomo.
Come messaggio per la Visita Pastorale vi lascio questa consegna: «Amare sempre, amare tutti, amare per primi». Così sia.

Omelia nella Solennità di Tutti i Santi

Pennabilli (Cattedrale), 1 novembre 2018

Ap 7,2-4.9-14
Sal 23
1Gv 3,1-3
Mt 5,1-12

(da registrazione)

La Prima Lettura è una pagina impegnativa tratta dall’Apocalisse, un libro di profezia per capire la storia, pieno di immagini. L’Apocalisse scrive di angeli ai quali è dato il potere di «devastare la terra»; effettivamente la storia ci appare caratterizzata da cuori assediati dal male, innocenze deturpate, coscienze ambigue, alleanze infrante, orizzonti oscurati, ingiustizie celate e ipocrisie palesi… Tuttavia – questo è il messaggio centrale dell’Apocalisse – c’è un angelo che sale da Oriente, che grida la fine di questa devastazione. Il compito di questo angelo è imprimere sulla fronte degli uomini il sigillo di Dio: un tau. Il tau è una lettera dell’alfabeto ebraico a forma di croce. Gesù un giorno dirà che ogni discepolo deve portare il tau, cioè la croce. Chissà se Gesù non alludesse tanto al suo supplizio sulla croce, ma al compiersi di una pagina del profeta Ezechiele, il profeta sfortunato (come spesso accade ai profeti) che deve assistere alla distruzione di Gerusalemme. In visione scorge uno scriba vestito di bianco mandato da Dio a perlustrare la città e a mettere il segno del tau sulla fronte di quelli che in questa dissoluzione, nonostante tutto, continuano ad avere fiducia in Dio: «Uomini che sospirano e piangono per tutti gli abomini che vi si compiono» (Ez 9,4). Probabilmente Gesù pensava davvero a questa pagina del profeta Ezechiele. Ma il numero dei salvati di cui parla l’Apocalisse è 144.000, un numero iperbolico (12 per 12 per 1000), un po’ come le stelle che Abramo aveva l’incarico di contare (cfr. Gn 15,5), tanti sono coloro che vengono salvati da questa devastazione. Detto in termini più semplici è il trionfo della grazia, dell’amore del Signore, della prossimità efficace di Dio, dono soprannaturale che supera le umane capacità percettive. Eppure la grazia trasforma l’uomo, rendendolo figlio di Dio, fratello di Gesù, dimora dello Spirito Santo.
Oggi è il giorno dei santi, e il nostro sguardo punta dritto sull’Agnello, l’Agnello immolato di cui parla l’Apocalisse (cfr. Ap 14,1). Da lui scendono fiumi di vita, colate di Cielo che ci avvolgono, ci trasformano, ci fanno santi. Allora si accorciano le distanze, viene esaudita l’invocazione dei discepoli: «Padre, sia festa la tua volontà, come in cielo così in terra» (cfr. Mt 6,10). La terra e le stelle esauriranno le loro scorte, questo mondo finirà, ma la fine della mondanità è segnata da un’altra unità di misura: avanza il Regno di Dio, la signoria di Dio. Quando due o tre sono uniti nel nome di Gesù questa signoria è già instaurata, presente (cfr. Mt 18,20). Quando si offre e si accoglie il perdono il nuovo già germoglia. Quando si vincono le seducenti tentazioni del male, si assapora già la gioia vera: le beatitudini!
Ci sono santi canonizzati; nell’urna esposta possiamo vedere le reliquie di santi martiri raccolti nelle catacombe. Quando si fonda una chiesa e si pone in essa un altare, occorre – è un uso antichissimo dei primi cristiani – mettervi le reliquie dei martiri e dei santi. Tanti sono i santi canonizzati. Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Papa Francesco ne hanno canonizzati molti: bisogna aggiungere pagine al Messale! Questo è un segno fortissimo in un momento in cui la Chiesa sta soffrendo per scandali ed esempi cattivi. E invece in tutti i continenti crescono grappoli di santità. Poi, ci sono miliardi di santi che non vengono canonizzati, non diventano famosi, non vengono posti nelle nicchie, non appaiono nei dipinti dei grandi artisti, ma sono autentici testimoni della santità. E – quel che vale – sono notissimi a Dio.
Lunedì 9 aprile scorso è stata pubblicata la terza esortazione apostolica di papa Francesco dal titolo “Gaudete et exsultate”. Sono due parole che appaiono nel Vangelo delle beatitudini, in particolare nella beatitudine legata ai perseguitati, a quelli che patiscono per la fede. Gaudete et exsultate: godete e siate nella gioia. La lettera del Santo Padre ha come argomento la chiamata alla santità nel mondo contemporaneo. La santità – afferma papa Francesco – va cercata nella vita ordinaria, tra le persone a noi vicine. Può accadere che un laico incontri i santi nel luogo di lavoro; un vescovo ne incontri nelle sue visite pastorali; un parroco nella benedizione delle famiglie; il Papa nella Curia Romana… La santità non va cercata in modelli ideali, astratti, sovrumani. Anche se ci sono santi difficilmente imitabili, come San Francesco d’Assisi o come San Pietro d’Alcantara (addirittura criticato da Santa Teresa d’Avila per l’asperità delle sue penitenze). Essi sono icone, modelli di cui dobbiamo imitare lo spirito, ma non dobbiamo copiare i loro modi di fare. Papa Francesco fa comprendere come la santità non sia frutto dell’isolamento, ma si sperimenti nel corpo vivo del popolo di Dio. Quindi invita a non cercare vite perfette, senza errori. Anche i santi hanno le loro caratteristiche, i loro piccoli difetti di carattere. I santi sono persone che, anche tra imperfezioni e cadute, hanno continuato a credere e a fidarsi. Così sono piaciuti al Signore. La Beata Angela da Foligno in una sua esperienza mistica trascritta dal direttore spirituale si rivolse a Gesù con queste parole: «Perché devo sempre cadere e rialzarmi, perché non mi fai santa subito?». Gesù le ha risposto: «Angela, mi piaci così, quando cadi e ti rialzi». Possiamo tutti diventare santi, dobbiamo coltivare questo desiderio. La santità mette insieme umiltà e grandezza; si può applicare ad un lavoratore normale, a una nonna o a un papa: è la stessa santità. Auguri!