Omelia nella Veglia di preghiera “I venerdì in Santa Casa”

Loreto (AN), Santuario della Santa Casa, 30 luglio 2021

Pellegrinaggio diocesano USTAL-UNITALSI

Mc 16,1-20

Perché questa pagina di Vangelo oggi che non è il giorno di Pasqua nè dell’Ascensione?
Questo Vangelo è di grande aiuto per il cristiano evangelizzatore, il cristiano missionario. Di per sé il Vangelo di Marco termina in modo piuttosto brusco al versetto 8: «Le donne, dopo aver visto il sepolcro vuoto, uscite fuggirono via dal sepolcro, perché erano piene di timore e di spavento e non dissero niente a nessuno perché avevano paura». Un finale sorprendente. In realtà, chi legge questo Vangelo conferma che poi le donne hanno parlato e la storia è andata avanti. Questa finale, però, crea un effetto sconcertante. Non ci aspetteremmo che il Vangelo finisse così. Obbliga il lettore a ricominciare a leggere il Vangelo secondo l’invito dell’angelo che esorta a tornare in Galilea, come a dire: «Ricominciate il cammino: incontrerete Gesù e – scoprirete – che tutti gli incontri hanno le stesse caratteristiche degli incontri con il Risorto».
Tuttavia, probabilmente agli inizi del II secolo, si è sentito il bisogno di aggiungere un’altra conclusione al Vangelo di Marco, una conclusione che mette un po’ meno in crisi. Infatti, il testo riassume, per così dire, gli episodi pasquali: l’apparizione a Maria di Magdala, ai due di Emmaus, agli Undici… Però il riferimento si conclude sempre con una parola piuttosto dura: «Non credettero». Anche in quest’ultima apparizione, quella in mezzo ai discepoli mentre stavano a mensa, Gesù li deve rimproverare per la loro incredulità e durezza di cuore. Poi, insieme al rimprovero, Gesù dice letteralmente: «Andando in tutto il mondo predicate il Vangelo ad ogni creatura». Come è possibile se non credono? Noi avremmo detto: «Se sei in difficoltà, fermati, rifletti, prega, fai un ritiro, confrontati col tuo padre spirituale…». Invece, Gesù sta dicendo che persino il dubbio può essere motore per il tuo annuncio missionario. Se una parte di te è in difficoltà con la fede e stai lottando, può essere che il tuo annuncio sia più vero. Se tu fossi già a posto e non avessi alcun combattimento dentro di te probabilmente faresti più fatica a metterti nei panni di chi ti ascolta. Non riusciresti ad essere vicino a chi cerca il senso della vita. Dubiti? Allora vai ad annunciare, perché annunciando incontrerai il Signore, che si farà presente nel tuo annuncio. Gli studiosi di Marco dicono che questa ultima parte del suo Vangelo è, per così dire, una sorta di piccolo manuale per il missionario, perché è una sintesi con alcune apparizioni, con la registrazione dei dubbi con relativa risposta, ecc. È bello conoscere la storia di questi versetti, che probabilmente i primi cristiani portavano con sé per essere incoraggiati ad annunciare il Vangelo, quando dovevano riferire quanto era successo a Pietro, agli apostoli, alle donne.
Permettete un’ultima brevissima considerazione. Ho sottolineato che, alla lettera, Gesù dice: «Andando in tutto il mondo annunciate tutte queste cose…». Gesù non dice soltanto di raggiungere tutti, di andare in tutti gli angoli della terra. La prima parola è un verbo nella forma di gerundio: «Andando», cioè «mentre andate», ad indicare movimento, partecipazione, relazione. Andando, cioè vivendo, dite il Vangelo con la vostra vita. Anzi, che la vostra vita sia un annuncio. Evangelo è parola che significa “buona notizia”, “gioia”, come ci ricorda papa Francesco (Evangelii gaudium).
La pagina di Marco si conclude con la proclamazione di una svolta, di un cambiamento, di una novità, che riguarda persino le relazioni con il creato e con gli altri: scacciare i demoni, parlare lingue nuove, prendere in mano serpenti… Nessuna magia, si tratta semplicemente di scacciare il pensiero che non sei amato: questo è il dubbio che il diavolo può insinuare. Azzeccherai le parole giuste. Inoltre, sarai creativo, non avrai paura di nulla, persuaso che il Signore opera con te. Il Vangelo si chiude proprio così: «Allora essi partirono…». Quando parliamo di missione ci si riferisce non tanto all’attività della Chiesa nei paesi lontani, ma a quel compito di annuncio e di testimonianza che Gesù consegna ad ogni cristiano nel giorno del Battesimo e che affida alle nostre comunità.  Ogni cristiano, ogni battezzato, parte ogni giorno, incaricato della missione di far conoscere Gesù. Ripeto: prima con la vita, soltanto dopo con le parole; con la vita «predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro». L’evangelizzatore sa che accanto a lui ha il Signore, anzi sa che il Signore lo precede. In questi giorni abbiamo constatato le meraviglie che il Signore fa in mezzo a noi.

Omelia alla Giornata sacerdotale durante il pellegrinaggio USTAL a Loreto

Loreto (AN), Basilica della Santa Casa, 30 luglio 2021

Gal 4,4-5
Magnificat Lc 1,46-55
Lc 1,26-38

All’epoca ero troppo giovane per capire la portata del dibattito che, dentro e fuori il Concilio Vaticano II, andava infiammando i teologi. Era l’inizio degli anni ‘60. Qualcosa era arrivato anche a noi studenti del Seminario.
Questo il dibattito: scrivere un documento intero del Concilio sulla Madonna oppure dedicarle un capitolo alla fine del documento fondamentale, la costituzione dogmatica sulla Chiesa? Parrà una questione solo tecnica e secondaria. In realtà, la decisione avrebbe orientato la fede della Chiesa circa il “posto” di Maria nella vita, nel culto e nella teologia della Chiesa stessa. A partire dal XVII secolo ci fu tutto un movimento mariano che ha fatto devotamente a gara a chi inventava un titolo inedito in onore della Madonna, o lanciava una nuova festa, o ne affermava un privilegio in più. Lo sforzo del Concilio, invece, si rivolse a ridimensionare gli aspetti devozionali per ricollocare la Madre del Signore all’interno della storia della salvezza, accanto al Cristo, e quindi all’interno della Chiesa: la Madonna è il membro più eccelso, il modello più perfetto, ma non al di fuori, né al di sopra della Chiesa. Maria brilla dello splendore del Verbo incarnato. Ciò che il Concilio insegna di Maria, Vergine, Madre di Dio, non è stato per nulla sminuito, ma semplicemente inserito in una prospettiva che sottolinea, senza equivoci, la sua condizione di creatura, di redenta, di membro del Corpo Mistico.
Riguardo alla Madonna, il Concilio ha tenuto in gran conto l’esigenza di un ritorno alla sobrietà delle Scritture. Così facendo, ha reso la figura della Madonna più grande e più vicina allo stesso tempo. È avvenuto come quando si restaura un quadro togliendo gli strati di tempera più recenti che formano quasi una crosta: l’immagine riappare nello splendore dei suoi colori originali, voluti dall’artista. Penso al restauro della Madonna di Montegiardino (RSM), uno dei quadri più belli che abbiamo sul nostro territorio.
«È la prima volta – disse Paolo VI alla fine dell’ultima Sessione del Vaticano II – che un Concilio ecumenico presenta una sintesi così vasta della dottrina cattolica circa il posto che Maria Santissima occupa nel mistero di Cristo e della Chiesa». È questo il motivo per cui sacerdoti, catechisti, educatori, quando parlano di Maria, partono sempre da quanto di lei si dice nel Nuovo Testamento. È un nuovo modo di parlare di Maria, più essenziale, meno indulgente al sentimentalismo (non che non ci voglia il sentimento…). Si potrebbe dire che il Nuovo Testamento abbia percorso tre tappe successive.

Nel primo momento – in un primo strato del Nuovo Testamento – tutta l’attenzione è concentrata su Gesù, il Cristo. La Madonna è annunciata come colei che genera: «Quando venne la pienezza del tempo Dio mandò suo Figlio, nato da una donna» (Gal 4,4). Appena un accenno, neppure il nome, ma un accenno preziosissimo: la grandezza di Maria sta nell’essere la Madre del Signore.

Nello strato successivo della formazione del Nuovo Testamento si mette in luce Gesù nel suo ambiente; la sua prima predicazione registra una crisi: una parte degli ascoltatori non crede a Gesù, fra questi anche un gruppo di suoi parenti. Gli autori dei Vangeli sono preoccupati di illustrare quali siano i veri legami con Gesù: non quelli della carne e del sangue, ma quelli della fede, di chi ascolta la sua parola e fa la volontà del Padre. In questo contesto Maria viene indicata come la Madre di Gesù, prima discepola. Apparentemente ci sono dei testi sulla Madonna che sembrano riduttivi. «Gesù, qui fuori ci sono tua madre e i tuoi fratelli», dicono i discepoli a Gesù. E lui, volgendo lo sguardo a loro, dice: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? Chi fa la volontà del Padre mio è per me madre, fratello, sorella…». Non è un ridimensionamento di Maria, ma è dire la sua grandezza di discepola. Maria ha concepito il Signore, prima che fisicamente nel suo grembo, nel suo cuore con il suo “sì” alla chiamata del Signore.

Nel terzo strato, a partire dalla comunità di Gerusalemme, si è sentita l’esigenza di incorporare all’annuncio di Gesù anche il racconto delle sue origini umane. Sono i cosiddetti Vangeli dell’infanzia. Nel Vangelo di Luca la Madre di Gesù ha un’enorme importanza: brilla il suo “sì”, risplende l’adombramento dello Spirito Santo su di lei, come un tempo sull’arca durante l’esodo. Luca poi, aprendo il racconto degli Atti degli Apostoli, pone la presenza orante di Maria nel Cenacolo, partecipe alle vicende della Chiesa nascente, madre dei discepoli del Signore (Gv 19,25-27).
Gli scritti giovannei – Vangelo ed Apocalisse – collocano la Madre di Gesù nel mistero della “sua ora”, quella della morte e risurrezione. In questo mistero, con un procedimento di inclusione, Maria è posta all’inizio e alla fine della vita pubblica di Gesù, a Cana quando anticipa “l’ora” di Gesù e sul Calvario. Nell’Apocalisse Maria è la donna vestita di sole. Oso chiamarla Cielo di Dio.
A volte tra i cristiani serpeggia l’obiezione che la Bibbia dica troppo poco di Maria e che sarebbe stata la pietà popolare a sviluppare e imporre dogmi e determinate forme di devozione, sancite poi dall’autorità della Chiesa. Occorrono alcune precisazioni. Non c’è una verità mariana a sé stante, si tratta sempre di verità relative a Cristo o alla Chiesa. Il dogma della incarnazione, ad esempio, include Maria Madre di Dio, quello dell’Immacolata Concezione è dentro al grande dogma della redenzione, quello dell’Assunzione di Maria al Cielo dentro alla grande verità della risurrezione della carne. Non tutto quello che la fede dice di Maria è formulato esplicitamente nelle Scritture, ma ad esse fa riferimento, appoggiandosi alla lettura che ne hanno fatto la Tradizione, i Padri e la Liturgia. La Scrittura, ad esempio, non afferma espressamente l’Assunzione, tuttavia, insieme alla Tradizione, mostra Maria unita alla persona e all’opera del Salvatore; da questa sua unione deriva la sua partecipazione al trionfo glorioso di Cristo. Altrettanto dobbiamo dire dell’Immacolata Concezione di Maria, una qualità implicitamente affermata nel Vangelo, quando riferisce le parole dell’angelo: «Ti saluto (rallegrati), o piena di grazia, il Signore è con te… Hai trovato grazia presso Dio» (Lc 1,28.30). Nella Tradizione della Chiesa il comune senso della fede ha riconosciuto in Maria una incomparabile innocenza e santità, arrivando ad acquisire anche la certezza della sua esenzione dal peccato originale. Maria è figlia di Adamo e nostra sorella, congiunta con tutti gli uomini, bisognosi di essere salvati. Anche lei è stata redenta da Cristo, ma redenta in modo ancor più sublime: «Non viene tirata fuori dal fango come noi; è preservata dal cadervi» (CEI, La verità vi farà liberi, Catechismo degli adulti, n.764).
Siamo qui questa mattina nella casa di Maria, qui dove il Verbo si è fatto carne, dove il Cielo si è unito alla terra. Maria è il punto di tangenza fra il Cielo e la terra, quasi sacramento dell’incontro con Dio e inizio della Chiesa sacramento. Mentre accarezziamo le pietre della Santa Casa, annerite dal tempo, così eloquenti nella loro povertà, così avvolte dal silenzio, rinnoviamo il nostro “sì” (ognuno sa a che cosa riferirsi). Affidiamo alla carità della Madre del Signore ogni nostra preoccupazione, le sofferenze di questi giorni difficili, il desiderio di una ripresa, anzi di una rinascita. La vogliamo pregare con qualcuna delle parole di Dante Alighieri: «Vergine Madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura, termine fisso d’etterno consiglio, tu se’ colei che l’umana natura nobilitasti sì, che ‘l suo fattore non disdegnò di farsi sua fattura. Nel ventre tuo si raccese l’amore, per lo cui caldo ne l’etterna pace così è germinato questo fiore. Qui se’ a noi meridïana face di caritate, e giuso, intra ‘ mortali, se’ di speranza fontana vivace. Donna, se’ tanto grande e tanto vali, che qual vuol grazia e a te non ricorre, sua disïanza vuol volar sanz’ali» (Dante Alighieri, Divina Commedia, Canto XXXIII del Paradiso). Così sia.

Omelia nella XVII domenica del Tempo Ordinario

Pennabilli (RN), Santuario B.V. Grazie, 25 luglio 2021

Celebrazione eucaristica con i Referenti della Camminata del Risveglio

2Re 4,42-44
Sal 144
Ef 4,1-6
Gv 6,1-15

Quest’anno nel Programma pastorale della Diocesi è in evidenza il fatto che ogni battezzato è missionario. Quando ascoltiamo i missionari, rimaniamo impressionati dal loro ardore, dal loro coraggio e dalla loro predicazione: sono un dono e diciamo grazie.
Non c’erano, quel giorno, che cinque pani e due pesci. Niente di più. Cibo davvero irrisorio per cinquemila persone, ma tra loro era presente colui che è il Pane di vita. «Chi viene a me – dirà Gesù – non avrà più fame» (cfr. Gv 6,35). Con questo niente offerto da un ragazzino Gesù ha sfamato la folla. Ha rotto quei pani, li ha spezzati in piccole porzioni e li ha condivisi. Nel Vangelo di Giovanni, a differenza dei Vangeli sinottici, Gesù non consegna il pane ai discepoli perché lo distribuiscano: è lui stesso che lo dà. Ma lui, in fondo, si è lasciato a sua volta spezzare offrendo la sua vita come cibo. Questo segno – i teologi dicono che è un segno prolettico, cioè anticipatore – annuncia la croce. Sul Golgota Gesù è stato spezzato come questi pani per essere condiviso, per dare la vita al mondo. E tutto questo ci rinvia a quelle che sono le nostre ferite. Anche noi a volte ci sentiamo un po’ spezzati; la vita assomiglia ad uno sbriciolamento, ma può essere presa anche come una Eucaristia. Sì, Signore, ci uniamo alla tua offerta. Accettiamo di essere consegnati, spezzati, offerti, perché viviamo la tua Pasqua. In noi vive la tua vita e noi possiamo dire che non viviamo per noi, ma tu vivi in noi.
C’è un altro dettaglio significativo nel Vangelo. Gesù torna ad andare di qua e di là dal lago. Propone una traversata, ma la vera traversata a cui invita Gesù non è di tipo nautico: è il passaggio dalla superficialità di una esistenza dove tutto si compra – «Dove compreremo così tanto pane?» –, alla dimensione della gratuità e della fiducia. Siamo di fronte alla sproporzione tra la nostra disponibilità e le necessità del mondo: ciò che abbiamo a disposizione è veramente poco, però, se non ci fossero quei cinque pani e due pesci, non ci sarebbe la moltiplicazione. Gesù ci dice che la nostra vita così piccola, così modesta, ha risorse infinite. Il problema è che a volte non ci crediamo, non ci fidiamo. Eppure, quel poco è indispensabile perché Dio lo possa moltiplicare.
A volte ci capita di guardare solo o soprattutto la nostra pochezza, la nostra insufficienza e questo pensiero produce amarezza, un avvitamento su noi stessi e non si considerano, invece, le necessità degli altri e l’invito del Signore: siamo ripiegati su di noi e non crediamo abbastanza al dono ricevuto. Bisogna crederci. Mi riferisco soprattutto alla vostra vocazione ad essere referenti della Camminata del Risveglio. Siamo appassionati del mattino della Pasqua, del mattino della Pentecoste: la Camminata del Risveglio ha anche questo rimando. Ciascuno di voi ha a che fare con la sua comunità, il suo borgo, e col grappolo di persone da accompagnare non solo alla Camminata del Risveglio, soprattutto durante questo mese che la precede, ma anche durante l’anno. Il 22 agosto saremo all’Eremo di Carpegna. Dovremo essere persuasi noi e persuadere le persone a noi affidate della bellezza di convergere tutti verso la Madonna del Faggio.
Concludo riferendomi ad una legge della geometria: tutto ciò che sale verso un unico punto converge. Buon convergimento e buona conversione!

Festa della Vita

Festa del Beato Domenico Spadafora

Omelia nella XVI domenica del Tempo Ordinario

Mercato Vecchio (PU), 18 luglio 2021

Professione come Oblati di Cristian Valenti e Angelo Migliozzi

Ger 23,1-6
Sal 22
Ef 2,13-18
Mc 6,30-34

«Per l’ammirabile conversione di tutta la sostanza del pane nel Corpo di Gesù Cristo e di quella del vino nel suo prezioso Sangue si contiene veramente, realmente e sostanzialmente il Corpo, il Sangue, l’Anima e la Divinità del medesimo Gesù Cristo». Eucaristia: tesoro della Chiesa! Vale più di ogni altra realtà. Per questa realtà vale la pena dare tutto. Continuo a dire “realtà”, ma sarà bene che dica la “Persona del Signore”, che è in mezzo a noi.
Angelo e Cristian, con la vostra scelta di vita, povera, casta, obbediente, aiutate tutti noi a considerare l’Eucaristia come la fonte e il culmine di tutta la vita, di tutta la missione della Chiesa. Voi, con il carisma di Maria Maddalena dell’Incarnazione, accompagnati dalle sorelle, in unità con tutta la famiglia degli Adoratori e delle Adoratrici, ci state indicando una dimensione esistenziale, un’antropologia di prim’ordine: l’adorazione! Adorare è attitudine profondamente umana; significa esprimere gratitudine, dare lode, dichiarare amore, chiedere perdono e stare con le mani alzate, le braccia elevate per tutti, e soprattutto il silenzio che attende.
Veniamo al Vangelo. Ci parla degli apostoli che tornano dalla missione che Gesù ha loro affidato. Dice il Vangelo «che tornano da Gesù». Di solito nel Vangelo di Marco c’è molte volte «andare da lui», «tornare da lui», con il pronome personale, mentre qui c’è il nome: Gesù. Quante cose evoca il nome di Gesù! Quanta tenerezza!
Gli apostoli gli parlano di quanto hanno fatto e di quanto hanno insegnato. Gesù li invita al riposo con lui, in un luogo solitario, loro soli. Sembra quasi una drammatizzazione del Salmo 23 che abbiamo cantato: «Il Signore è il mio pastore, su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce…». Un giorno Gesù estenderà l’invito a tutti: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi darò riposo» (cfr. Mt 11,28). Dunque, un invito al riposo, alla sosta, ad un tempo di intimità con lui. Qualcuno forse pensa: «Tempo perso!», mentre la terra di Israele è piena di ciechi che gridano lungo i bordi della strada, di madri da consolare, di lebbrosi da sanare, di peccatori da recuperare, di intelligenze e cuori bisognosi di ritrovare senso. Gesù invita i messaggeri a tornare a lui. Se fossi il parroco, a questo punto orienterei la meditazione su temi pertinenti a questo tempo di vacanza, con l’immancabile considerazione che purtroppo tanti non ne hanno la possibilità; offrirei una riflessione sull’utilità del tempo libero, ma ancor più sulla necessità di essere liberi a tempo pieno; inviterei a dedicare tempo alla preghiera, a non tralasciare la Messa, a non trascurare la lettura di un buon libro e – perché no? – a preparare una bella Confessione. Ma c’è dell’altro… Come talvolta accade, nel Vangelo ci sono delle apparenti contraddizioni, situazioni che confliggono fra loro, che fanno scintille: sono scintille preziosissime. Qui, ad esempio, Gesù invita alla solitudine, indica un luogo per il riposo e poi fa dietrofront: quando vede la folla che lo insegue sente la compassione; la compassione sembra far cambiare qualcosa nei programmi di Gesù. È come se per Gesù il vero riposo non consista tanto nello stare in disparte quanto nel prendere su di sé gli altri, le relazioni, soprattutto chi ha bisogno.
Sorge spesso in noi il dilemma tra preghiera e lavoro, come se si dovesse scegliere fra l’una e l’altro. In realtà, la tensione non è tanto fra azione e contemplazione, ma piuttosto fra ansia e serenità. L’unica cosa importante è cercare il Regno di Dio e il Regno di Dio consiste nell’amare, una capacità che ognuno costruisce e allarga dentro di sé. E’ meno faticoso – dopo tutto – accogliere l’altro che difendere le proprie rigidità che stancano tanto, perché chiedono troppe energie per difenderle. I rapporti, soprattutto in alcuni momenti, fanno paura, perché, come la contemplazione, esigono il vuoto interiore. Eppure, è questo vuoto che riposa. «Marta, Marta, ti agiti per molte cose», così ha detto Gesù alla donna sfinita dai preparativi per il pasto. E continua: «Una cosa sola importa: il riposo di Maria per ascoltare lui, la sua capacità di lasciare tutto per accoglierlo» (cfr. Lc 10,41-42). Gesù non si tira indietro di fronte alle molteplici relazioni; sembra che non lo affatichino. La compassione desta in lui un altro riposo. Viene a proposito quanto scrive sant’Agostino: «Dove c’è l’amore, dove si ama, non si sente la fatica e, anche quando c’è fatica, si ama questa fatica».
Carissimi Angelo e Cristian, come gli apostoli, imparate da Gesù ad essere – perché contemplativi e adoratori – sempre più a disposizione. Non appartenete a voi stessi! Continuate ad ascoltare, con i vostri fratelli e le vostre sorelle, il grido dell’umanità ed a consegnarlo alla compassione del Signore.

Campo adulti AC

Omelia nella XIV domenica del Tempo Ordinario

Belforte all’Isauro (PU), 4 luglio 2021

60° anniversario di ordinazione presbiterale
di don Francesco Alessandrini

Ez 2,2-5
Sal 122
2Cor 12,7-10
Mc 6,1-6

Quando si incontra un profeta si pensa subito a chi legge il futuro. Nella Prima Lettura, Ezechiele, raccontando la sua esperienza, dice ben altro: «Lo Spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi…». Avrebbe preferito star seduto, stare nascosto, non essere al centro. Invece: «…E io ascoltai colui che mi parlava. Mi disse: “Io ti mando ai figli di Israele”». Dunque, il profeta è uno investito dallo Spirito di Dio, inviato ai fratelli per annunciare la Parola di Dio, anzi a parlare per incarico di Dio. C’è una sfumatura significativa tra i due termini, perché il profeta, ad un certo momento, proprio per l’attitudine che ha all’ascolto, pronuncia parole che sanno di Cielo, di Paradiso, di Dio. Impresa non facile, rischiosa, perché il profeta propone spesso una parola scomoda.
I nazaretani andavano tutti i sabati in sinagoga, ma Gesù aveva cominciato a dire parole completamente nuove, sorprendenti, al punto da scioccare: i nazaretani “inciampano” su Gesù. «Ma da dove gli viene questa sapienza? Ha ascoltato il rabbi con noi ogni sabato. Da dove gli viene questa parola così nuova?».
Caro don Franco, mi unisco a te con tutto il cuore e, insieme con te, vorrei adoperare le parole di Maria – so che vuoi molto bene alla Madonna e che lei ha una tenerezza particolare per te –, parole di ringraziamento e di lode al Signore: «Perché ha guardato alla mia piccolezza e ha fatto in me cose grandi». Dentro a questo grazie, che tu dici ora celebrando l’Eucaristia, c’è la mia partecipazione e c’è la partecipazione grata di tutto un popolo. A volte guardiamo al prete come ad un animatore sociale. Si dice del prete che è l’uomo che dà consigli, che sa essere vicino, ed è vero. Ma è quel suo salire i gradini dell’altare che costituisce l’essenziale.
Don Franco, tutti diciamo grazie per i sessant’anni in cui hai celebrato l’Eucaristia. Quando eravamo studenti ci dicevano di celebrare ogni Messa come se fosse la prima, come se fosse l’ultima, come se fosse l’unica.
Per l’effusione dello Spirito Santo sei stato pastore buono in mezzo al gregge; hai celebrato i Battesimi, hai introdotto un popolo nel seno della Trinità, perché battezzare significa “tuffare” nella Trinità Santa; hai benedetto tanti matrimoni, famiglie cristiane; hai accompagnato ammalati e li hai segnati con l’olio per la guarigione interiore; hai dispensato il perdono dei peccati e la gioia di essere nuovi.
All’origine della missione del prete c’è una chiamata singolare. Un giorno il Signore si è avvicinato ad un ragazzo, Francesco Alessandrini, e gli ha detto: «Dammi le tue mani, dammi i tuoi piedi, dammi il tuo cuore e la tua intelligenza, perché io voglio fare di te una mia presenza». Il ragazzo, allora, si sarà spaventato… Ma ha detto il suo “sì”!
Il prete è la persona più povera di questo mondo, è del legno di cui tutti siamo fatti, è della stoffa di tutti noi. Quando parla autorevolmente dice parole non sue, parole di un Altro; compie azioni sublimi, ma non sono azioni sue, sono azioni di un Altro. E anche lui, come l’apostolo Pietro, deve pregare: «Signore, allontanati da me, sono un peccatore»; e gridare: «Signore, salvami!». È la persona più povera di questo mondo, ma nel contempo è la persona più straordinariamente ricca, perché pronuncia parole sovrumane: «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue…», «Io ti assolvo…».
Il coro ha cantato: «Ecce sacerdos»: parole misteriose, ma non perché sono in latino. «Tu es sacerdos in aeternum secundum ordinem Melchisedech» è una parola che colloca il sacerdote in una dimensione soprannaturale. Cosa vuol dire essere sacerdote secondo l’ordine di Melchisedech? L’espressione propria dell’Antico Testamento conteneva una punta di polemica, perché c’era un altro ordine sacerdotale, strutturato sociologicamente: era il sacerdozio ebraico. Vi era un cerimoniale raffinatissimo, solenne, spettacolare, che lo riguardava. Che cosa celebrava il culto dell’antica legge, dell’antico Israele? Si potrebbe dire, semplificando e schematizzando, che per prima cosa il sacerdozio si costituiva per separazione. C’era un popolo sacerdotale, il popolo di Israele, per questo separato dagli altri popoli. Di mezzo al popolo di Israele, era stata scelta una tribù, la tribù di Levi, separata dalle altre tribù per il culto. Nella tribù di Levi veniva eletta una sola famiglia sacerdotale e il sommo sacerdote, preso da quella famiglia, una volta all’anno saliva i gradini del tempio ed entrava nel Santo dei Santi per fare la grande oblazione; non poteva candidare se stesso, sapeva che non poteva raggiungere l’Altissimo, allora prendeva un agnello immacolato, lo metteva sul fuoco e, alla fine, che cosa restava di questa sorta di piramide cultuale che saliva verso l’alto? Quasi nulla. Il culto proclamava che Dio è inaccessibile, trascendente. Pertanto, il culto rimaneva qualcosa di esterno, convenzionale.
Il sacerdozio secondo l’ordine di Melchisedech è figura del sacerdozio di Gesù. Il sacerdozio di Gesù non è soltanto nuovo, è capovolto, perché l’Altissimo, il Signore, nella pienezza del tempo, scende. Il Verbo di Dio assume l’umanità. Nell’unica persona di Gesù di Nazareth il divino e l’umano, la natura divina e umana si congiungono senza confusione, senza mutazione, senza divisione e inseparabilmente. Non c’è separazione, ma abbraccio. Non solo: Gesù vive le nostre giornate, attraversa senza esenzione il dolore innocente. Non c’è creatura sulla terra che possa dire: Gesù mi è estraneo. Ha assunto tutto. È sceso negli inferi, ha attraversato la morte: questo mistero davanti al quale anche lui, come uomo, ha tremato. Vediamo celebrato il sacerdozio da Gesù non nello sfarzo del tempio di Gerusalemme, ma sul Golgota, con le braccia spalancate sulla croce. Il sacerdozio di Gesù è personale, esistenziale, dice il suo “sì”, per la redenzione del mondo, al Padre, alla sua volontà. Ecco la prima Messa, l’unica Messa. Le nostre non sono altro che una rinnovazione di quella di Gesù. Voi direte: l’abbraccio dell’incarnazione, fenomenale; l’abbraccio della nostra vita, straordinario; l’abbraccio fino alla morte, incredibile… Viene da dire: non si può andare oltre! Gesù, per la forza della risurrezione che è in lui (e che, attraverso lui, ci avvolge tutti), prende un grumo di materia, lo trasforma con le sue parole: «Questo è il mio corpo», e l’abbraccio si fa ancora più serrato e intimo. Si è fatto uomo, ha vissuto le nostre giornate, ha attraversato il dolore, è morto sulla croce, ha conosciuto gli inferi, la tomba e dopo la sua risurrezione si dona in un pezzo di pane. Nel pane consacrato c’è il Signore! Ma il sacerdozio di Gesù si spinge oltre, fino al punto di perdere il suo perdersi per noi, dona il suo donarsi e lo fa nel sacerdote. Ad un certo punto Gesù cede se stesso al prete! San Francesco d’Assisi diceva ai suoi frati: «Se vedete per strada un arcangelo e un umile sacerdote, chi dovete salutare per primo?». «Il sacerdote!».
Gesù ha ceduto a don Franco la sua capacità di cedersi. Don Franco tra poco celebrerà l’Eucaristia e dirà le parole di Gesù: questa è la vita di un prete. Dopo viene tutto il resto, perché l’Eucaristia ha le sue conseguenze: seguire i ragazzi, accompagnare gli ammalati, spendere la propria vita, ma la radice e l’energia vengono dall’altare. Se vuoi capire un prete, guardalo mentre sale i gradini dell’altare. Così sia.