Omelia di Natale – Messa di Mezzanotte

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di San Leo, 24 dicembre 2016

Is 9,1-6
Sal 95
Tt 2,11-14
Lc 2,1-14

Buon Natale!

Carissimi,
state sfidando il buio per inseguire una luce… siete persuasi? E questa luce brilla!
Permettetemi di iniziare il commento ai misteri che celebriamo con una citazione poco natalizia, anzi tragica. Comincia così. «Uno ad uno, sulla scena, cadono nell’oblio della morte. Amleto ha bevuto il veleno dalla coppa. Ne è rimasto un sorso. Orazio, l’amico sopravvissuto alla tragedia, vorrebbe consumarlo. “No, – sussurra Amleto – tu vivi e racconta. Racconta di me e della mia storia […], il resto è silenzio”».
Così l’epilogo dell’Amleto di Shakespeare. Citazione poco natalizia?! Ma è proprio per un “racconto” che ci siamo dati appuntamento, piccoli e grandi, nel cuore della notte. Anche il più piccolo e il più sprovveduto tra noi potrebbe raccontare, raccontare di un editto di Cesare Augusto, di Giuseppe, che da Nazareth è salito a Betlemme insieme alla sua sposa «per farsi registrare». È tempo di censimento. E potrebbe raccontare di Maria, che era gravida e di come partorì in un luogo di fortuna e avvolse in fasce il suo bambino, lo depose in una mangiatoia e di come non c’era posto per loro nell’albergo.
Il posto… Quante allusioni possibili: il posto dove abitare per chi cerca una casa; il posto di lavoro per tanti giovani che cospargono il territorio di curriculum; il posto dentro al cuore di qualcuno.
Un racconto. Che cosa c’è di più semplice? Quanti racconti di bambini nati in condizioni altrettanto precarie, venuti al mondo in terra straniera o stranieri alla loro terra. Quante storie di bimbi che non trovano posto. Fra i tanti racconti quello che ci ha mobilitati stanotte ha del paradossale, dell’incredibile: il neonato, che noi stasera adoriamo, è «lo splendore del Padre», «irradiazione della sua gloria», «Verbo eterno», «Figlio», «splendore del Fulgore divino» (così dicono di lui le divine Scritture).
«Beato chi non si scandalizza di me», dirà un giorno quel bimbo divenuto grande. E di rincalzo, il Battista, a nome di tanti e, come tanti, deluso, in un primo momento, da un Messia così dimesso e diverso da come se l’attendeva dirà: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro»? (Mt 11,3).
Un redentore-salvatore dovrebbe apparire forte, vincente e convincente; capace finalmente di dire basta all’ingiustizia, a chi è prepotente…
Viene, invece, come bambino: inerme, infante (che non riesce a parlare), profugo, esposto all’imprevisto, in balia degli eventi.
Siamo nel nucleo centrale della fede cristiana, in ciò che la differenzia in modo specifico. Il confronto con altre fedi ed esperienze religiose ci costringe a ritrovare l’identità. Non è vero che tutte le religioni si equivalgono (salvo che, per religione, si intenda un sentimento o un’etica). Può essere che il confronto con altre religioni metta in crisi e, dentro noi, crei contrasto, spiazzi. Come accade a chi improvvisamente si accorge di essere sospeso. Sente vertigine. Ebbene, noi questa sera proviamo le vertigini davanti ad un Dio che si è fatto uomo: se le cose stanno così, qualcuno potrebbe dire che è troppo. È incredibile (stupore assai salutare…).
Questo racconto ci espone alla nuda e disarmante essenzialità della fede cristiana.
Un racconto tutt’altro che infantile, o favoloso o scontato. Se ti lasci abitare da questo paradosso, pian piano constati che i conti tornano, perché la vita cambia. È un racconto sovversivo: sovverte la nostra idea di Dio. Sovverte la pratica stanca e abitudinaria della nostra fede. Sovverte il modo di pensare e di stare in questo mondo. Dio si fa uomo. Sceglie l’ultimo posto. Il mio. Viene per me, per darmi modo di vincere il male fino a dissolvere in me i pensieri cattivi e impuri; viene per restituirmi audacia, a vincere la pigrizia e la mia abitudine ad occuparmi solo del mio interesse; viene ad insegnarmi a rompere col peccato e con la superbia. E mi dice come si fa!
Tra meno di un quarto d’ora il racconto di Betlemme arriverà al suo epilogo. Riprenderà così: «Nella notte in cui fu tradito egli prese il pane nelle sue mani, lo benedisse, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli e disse: “Prendete e mangiate, questo è il mio corpo dato per voi…”» (cfr. Mt 26,26).
È venuto bambino nel presepio. Viene ora nel dono del pane spezzato. Dichiara, con parole impegnative: «Abito in questo pane». Un pane spezzato e condiviso lo mette di nuovo al mondo. Presenza che mi scoppia ogni giorno tra le mani… Così accade, se ci facciamo caso, ogni volta siamo disposti a condividere, ad amare senza possedere, a dare senza prendere, a dire la verità nella carità. Insomma: ad amare per primi. «Ma a vivere così si diventa vulnerabili!». Ma è il solo modo d’essere felici. Bisogna cominciare subito. Se credevamo d’essere qui per intervenire ad una cerimonia, ci siamo sbagliati. Il racconto ha riacceso una luce nella notte. Il racconto deve avvalersi della perizia dello storico; ha bisogno della profondità del teologo; ha bisogno della fantasia e dell’arte del narratore; ma soprattutto – questo racconto – ha bisogno del coinvolgimento del cuore e della fede. I primi cristiani lo chiamavano kerygma e riconoscevano nel racconto una forza intrinseca, quasi sacramentale. Allora raccontate ai bambini, raccontate ai giovani, non “rubiamo” loro il racconto di Gesù, “racconto del Cielo”! Facciamocene dono l’un l’altro. Il Signore sarà presente nel nostro racconto. Auguri!