Omelia IV domenica di Quaresima

Novafeltria (RN), 14 marzo 2021

Festa del Ringraziamento RnS

2Cr 36,14-16.19-23
Sal 136
Ef 2,4-10
Gv 3,14-21

Nicodemo è un membro del sinedrio, il consiglio supremo degli Ebrei. È un uomo colto. Ha dedicato molti anni allo studio e alla ricerca sincera della verità. Una notte, furtivamente, va a consultare Gesù. Comincia a parlare, ma non formula nessuna domanda. Lo saluta rispettosamente come Maestro, quindi afferma senza mezzi termini: «Sappiamo che sei venuto da Dio». Ma il discorso viene interrotto da Gesù: la verità che egli porta non è una teoria, ma una vita nuova. Deve nascere un uomo nuovo, con atteggiamenti nuovi. Forse Nicodemo non capisce, o forse si sente troppo vecchio per intraprendere questa avventura. Gesù spiega che ciò che appare impossibile all’uomo non è impossibile a Dio. Nascere è un avvenimento unico, ma è anche un processo. Significa intraprendere un cammino sconosciuto e avanzare in esso. In effetti il dialogo con Nicodemo non poteva più proseguire data la sua evidente difficoltà a capire: «Come può… Può forse… Com’è possibile?». Gesù si stupisce che un insigne teologo d’Israele non conosca queste cose che in fondo sono soltanto terrene. Nicodemo avrebbe dovuto sapere dalle Scritture che nel tempo messianico ci sarebbe stata una “rinascita” ad opera dello Spirito (cfr. Ez 36-37). Comprenderà Nicodemo le cose del Cielo?

In questo dialogo notturno Gesù richiama un episodio dell’esodo (Num 21,4-9) allorché Mosè innalzò il serpente nel deserto. Nel deserto gli Ebrei erano assaliti dai serpenti che li mordevano e li uccidevano. In verità c’era un veleno più potente che li intossicava: l’insoddisfazione e l’amarezza. Invece di essere contenti del cammino di liberazione, si lamentavano continuamente delle dure condizioni del viaggio (mancavano il pane e l’acqua, si soffriva il caldo e l’assalto dei predoni, e poi c’erano i serpenti e gli scorpioni…). Si rivoltarono contro il Signore: «È un Dio crudele e inutile: ci ha fatto uscire dall’Egitto per farci morire nel deserto. L’unica cosa che finora ci ha dato è la manna, un cibo nauseabondo, leggero, senza gusto, sempre quello!».
Allora Mosè fece un serpente di bronzo e lo mise sopra un’asta, in modo che chiunque lo guardasse fosse guarito. Ma Giovanni dà un nuovo significato all’episodio, facendo del serpente innalzato nel deserto un simbolo di Cristo che accetta di essere crocifisso, perché chiunque crede in lui abbia la vita. Il baricentro del brano è il versetto 16 che, come un bengala, illumina la notte di Nicodemo ed ogni altra notte: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna». Faccio notare la bellezza di questo verbo al passato – «ha tanto amato il mondo» – per indicare non un’attesa, una speranza futura, ma una sicurezza, un dato certo. Tutta la storia biblica – scrive un autore – comincia con un «sei amato» e termina con un «amerai». La notte di Nicodemo, alla fine, è illuminata: non è un eroe, è un furtivo visitatore notturno di Gesù ma, poiché si è sentito amato e accolto, lo ritroveremo alla fine, a chiedere il corpo del Crocifisso a Pilato e a portare circa 30 kg di una misura di mirra e di aloe (cfr. Gv 19,39).
Gesù sarà innalzato in croce dai giudei, ma nella prospettiva teologica di Giovanni è innalzato nella gloria del Padre. La croce di Gesù diventa il centro di gravitazione universale (cfr. Gv 12,32) e sorgente della vita divina per i credenti. Tutta la vita di Gesù è la rivelazione dell’identità di Dio amore e del suo rapporto con gli uomini. Gesù dirà: «Ho manifestato loro il tuo nome» (Gv 17,6). Nell’Innalzato la comunità credente vede il nome di Dio: «Dio è amore» (1Gv 4,8) e la manifestazione tangibile è nel dono del Figlio. Non un amore a parole, o un vago sentimento, ma fattuale e storico. Notare come il verbo amare viene immediatamente tradotto col verbo donare: il Padre dona il Figlio, il Figlio dona la vita, e noi? Domandiamo al Padre: «Donaci il pane che fa vivere».
Non un amore ristretto fra angusti limiti nazionali, ma universale. L’Innalzato è visibile da tutta l’umanità bisognosa di redenzione. L’Innalzato, a dispetto delle apparenze per cui si scorge solamente il fallimento, è invece la suprema manifestazione dell’amore gratuito, totale e universale di Dio verso le sue creature. Parafrasando parole rivelate da Gesù ai mistici, non resta che “guardarlo” (Teresa d’Avila). La beata Angela da Foligno ha udito questa voce: «Guarda se in me vedi altro che amore» e Caterina da Siena, di rincalzo: «Non i chiodi mi tengono appeso alla croce, ma il mio amore per te». Sarà nostra cura durante la settimana rivolgere di frequente lo sguardo al Crocifisso. Se fino ad ora Dio si manifestava nel tempio e attraverso la parola dei profeti, ora l’Innalzato è il nuovo tempio da cui Giovanni vede scaturire sangue ed acqua (cfr. Gv 19,34), figura della roccia da cui scaturisce l’acqua nel deserto.

Un’ultima osservazione, più vicina alla nostra esperienza. Anche il nostro cammino è irto di difficoltà. Ci lamentiamo. Siamo pieni di amarezza. Non siamo come vorremmo essere. E non è questo il serpente che ci morde? Se alziamo lo sguardo e offriamo le nostre fragilità al Signore, nell’amore ritroviamo il senso del nostro soffrire. Finché non facciamo spazio dentro la nostra esistenza al mistero di un Dio che non ci salva dalla croce, ma per mezzo della croce, non riusciremo ad alzare lo sguardo. Padre Pio diceva: «Tanta gente sale a San Giovanni Rotondo per domandarmi di essere liberati dalla croce, pochi mi chiedono come si fa a portare la croce…». Questo è quello che ci manca: accettare che il Signore ci salvi attraverso ciò che i nostri occhi percepiscono come fallimento. Spero che questo sia di speranza per ciascuno di noi: accogliere la croce dentro la nostra vita, misteriosa strada che il Signore ha costruito per venirci incontro con la sua Pasqua.