Omelia nella Festa di San Leo

San Leo (RN), Cattedrale, 1° agosto 2022

Gn 12,1-4
Sal 16
Fl 4,4-9
Mt 7,21-27

1.

Cari amici, siamo saliti sul monte. Poggiamo i piedi sulla roccia del monte Feretro. Abbiamo percorso lo stesso sentiero che san Leone ha tracciato rivivendo l’esperienza spirituale di Abramo: «Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò» (Gn 12,1). Per fede. Solo per fede.

2.

Mettersi in cammino e salire montagne ci riporta allo stile di Gesù. Cinque sono i monti che hanno un significato particolare nei Vangeli (specialmente in Matteo). Saliamo su questi monti accompagnati dal Salmo 16 che caratterizza questa liturgia. La salita al monte ha di per sé una forte valenza simbolica: salire comporta fatica e distacco, ma anche orizzonti che si aprono e visioni che si allargano; chi sale sul monte vive una certa solitudine e profondi silenzi, ma diventa sempre più solidale con i compagni di viaggio. Che cosa hanno in comune queste cinque montagne? Hanno in comune l’annuncio della gioia. Saliamo.

3.

Sul monte delle Beatitudini (cfr. Mt 5,1-12). C’è tanta folla. Gesù sale nel punto più alto della collina. Sarà per farsi ascoltare? Per farsi vedere da tutti? Probabilmente quel suo piglio solenne ha un altro significato: quello che sta per dire è assai importante, sta per parlare con il massimo della sua autorevolezza. Dalla sua postazione vede volti e cuori. Sa quello che c’è in ciascuno. Conosci dolori, lacrime, speranze, attese. Vede me, vede te che ascolti, vede ognuno di noi, povero o perseguitato, amante della giustizia e costruttore di pace… Per ben otto volte ripete: “Beati”, cioè felici. Gesù si occupa della nostra felicità. Felicità: parola grossa. A noi basterebbe molto meno. Soprattutto non ci piace una felicità differita, rinviata all’aldilà. A prima vista parrebbe che Gesù intenda proprio così, ma le sue parole dicono altro. I poveri, i piangenti, i perseguitati, sono beati adesso perché Dio è dalla loro parte. Dio non ama le lacrime, ma quelli che piangono. Non ama il dolore, ama chi lo porta. Sussurra al nostro cuore: «Sono con te nel riflesso più profondo delle tue lacrime per moltiplicare il coraggio, per fasciare le ferite». Chiede di salire sul monte, cioè di fare nostro il suo atteggiamento, per tirarci fuori dalla mentalità corrente e per vedere Dio all’opera nella nostra vita. Dunque, non un’esortazione: «Beati sarete se…», ma una constatazione: «Beati siete!». «Ho detto a Dio: sei tu il mio Signore, senza di te non ho alcun bene» (Sal 16,2).

4.

Sul monte della preghiera (cfr. Lc 6,12-16; 11,1-2). Sul monte della preghiera il Signore prepara i discepoli e li attende. Nell’intimità dell’incontro parla così: «Non angustiatevi per nulla, ma in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti, e la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù». Non è intimismo, semmai è speranza e voglia di continuare a spendersi e a donarsi: «Il Signore ama chi dona con gioia» (2Cor 9,7). «Io pongo sempre innanzi a me il Signore, sta alla mia destra, non posso vacillare» (Sal 16,8).

5.

Sul monte della Trasfigurazione (cfr. Mt 17,1-8). Gesù sta per salire a Gerusalemme: l’attendono il tradimento, la cattura, il processo, l’abbandono, la condanna, la crocifissione. Solitamente si interpreta la trasfigurazione come anticipazione della risurrezione: siano forti i discepoli e non si perdano d’animo quando arriverà il momento della prova. Tutto era previsto!

Preferisco un’altra lettura, altrettanto possibile. Gesù si trasfigura e diventa fulgore e datore di gioia, proprio in quel frangente. La trasfigurazione non è luce promessa per domani, ma è amore che rende luminosi anche il dolore, la fatica, l’assenza di vie di fuga, da subito. È proprio “nel mentre” – perdonate la forma sgrammaticata – che accade lo splendore della verità che è l’amore. L’amore trasfigura. Trasfigura le cose ardue, i passaggi difficili, persino i fallimenti. Se le onde sembrano travolgere il cuore, al fondo c’è calma: «Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue mani è la mia vita» (Sal 16,5).

6.

Sul Golgota (cfr. Gv 19,17). Gesù viene estromesso dalla città. Come Isacco sale l’erta della montagna del sacrificio. Sulla croce è spogliato di tutto: perde il suo posto in sinagoga, le folle, gli amici, persino la percezione della prossimità del Padre. Gesù, l’Abbandonato! Nello smarrimento di Gesù possiamo vedere i nostri smarrimenti; nel suo perdere il nostro perdere, nella sua oscurità, la nostra oscurità. È un’esperienza dolorosa, ma anche di fiducia e di liberazione. Appena un accenno all’attualità: siamo in un’epoca di smarrimento; non tanto sul piano etico. Anche. Ma soprattutto sul piano del pensare. Qualcuno ha parlato di “notte culturale”; c’è chi denuncia i cedimenti strutturali nell’antropologia (ad esempio scambiare per diritti quelli che sono ingiustizie palesi, come l’aborto, soppressione di una creatura indifesa) e architravi dell’umanesimo che vacillano (nel Vangelo appena proclamato abbiamo sentito la parabola dei due architetti: quello che sapiente che costruisce sulla roccia e quello sprovveduto che costruisce sulla sabbia). Così chiude il suo romanzo uno scrittore americano del ‘900: «Ahimè, mi manca il coraggio e il cuore mi si spezza! Signore, abbiate pietà del cristiano che dubita, dell’incredulo che vorrebbe credere, del forzato della vita che si imbarca solo nella notte, sotto un firmamento che non è più rischiarato dai fari dell’antica speranza» (Thomas Hardy). C’è chi, spaventato, si ancora alla cultura già appresa e non s’arrischia su nuovi cammini. C’è chi vorrebbe affrettare la nascita del nuovo come per incanto, strattonando. C’è chi, non volendo scomodarsi, rinuncia a cercare e lascia ad altri la fatica del cambiamento.
Gesù crocifisso è speranza. È cifra dell’essenziale. Di ciò che resta. In lui la vera modernità: il permanente valore della vita spesa per amore. «Signore, mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena nella tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra» (Sal 16,11).

7.

Sul monte dell’Ascensione (cfr. Mt 28,16-20). Siamo sul monte dell’Ascensione, ma preferisco chiamarlo “monte della missione”. Gesù ha dato appuntamento ai discepoli nella Galilea delle genti: da lì era partito. I discepoli non mancano all’appuntamento: vedono Gesù Risorto, lo adorano, alcuni dubitano… Nonostante ciò, Gesù si avvicina, dà loro fiducia; per il potere che gli è stato dato in cielo e in terra dice: «Andate, dunque, e ammaestrate tutte le nazioni» (Mt 28,19). E aggiunge: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Li manda liberi, leggeri, solo col Vangelo. Scrive un autore contemporaneo: «In questo tempo che non si capisce se è un tramonto o un’aurora, il compito dei credenti è ancora quello di tenere accesa, per il bene di tutti, la semplice fiamma della via evangelica. Forse più nessuno si aspetta seriamente qualcosa dalla Chiesa. Eppure, tutte le volte che essa restituisce ossigeno alla fiamma del Vangelo qualcuno alza lo sguardo. Magari solo da lontano la osservano come un segnale da non perdere d’occhio. Essa non deve pretendere di mettersi alla testa di tutti. La luce che ha fra le mani è anzitutto per se stessa. Per non smarrire la strada. Ma quando è capace di tenerla viva, i suoi riflessi trascinano anche le moltitudini. La Chiesa torna ad essere degna dello sguardo umano quando offre il suo disarmato e gratuito chiarore. Ovunque essa sia» (G. Zanchi, L’arte di accendere la luce, p. 10). Proprio in questo tempo di fragilità è necessario continuare a credere nello Spirito che genera e rigenera la comunità e continuare a vivere il Vangelo che ci è stato affidato, senza preoccuparsi troppo dei numeri. Accettando la nostra fragilità, rimanere fedeli. Innanzitutto, rimanere fedeli all’essenziale. Nella gioia. Sì, è così: «La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che incontrano con Gesù […]. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia» (EG 1).