Omelia nella II domenica di Quaresima

Pennabilli (RN), Cappella del Vescovado, 25 febbraio 2024

Gen 22,1-2.9.10-13.15-18
Sal 115
Rm 8,31-34
Mc 9,2-10

La Trasfigurazione si è impressa fortemente nel ricordo dei primi discepoli di Gesù. Viene raccontata, a varie riprese, dai Sinottici, nella Prima Lettera di Pietro e anche dall’evangelista Giovanni, sia pure senza la spettacolarità della teofania (in Gv 12,24-28 Gesù parlerà del chicco di grano caduto per terra e si sentirà la voce del Padre che lo glorifica). La narrazione secondo l’evangelista Marco si può leggere da due prospettive: la prospettiva del catecumeno che si prepara a ricevere il Battesimo (è anche la nostra prospettiva, nel cammino verso la Pasqua) e la prospettiva dell’uomo-Gesù (collegata alla sua vicenda pasquale).

Secondo la prospettiva del catecumeno, questo brano è fondamentale per i discepoli incamminati verso il Battesimo come per il nostro cammino verso la Pasqua. Abbiamo appena iniziato la Quaresima e potremmo sentire già la fatica della seconda tappa: ce la faremo ad arrivare fino in fondo?
Ricordo un’esperienza di montagna; eravamo in cammino verso il “Cimon de la Pala” (Pale di San Martino). Dopo un tratto di sentiero abbiamo abbandonato prima il bosco, poi il prato e siamo arrivati alle roccette, quando è scesa una fitta nebbia che ha avvolto completamente la vetta. Qualcuno ha pensato di fermarsi, avvertendo la stanchezza e valutando l’incertezza atmosferica. Improvvisamente si è aperto uno squarcio nelle nubi ed è apparsa la cima della montagna: quella visione ha infuso coraggio e ci siamo rimessi in cammino…
Questa pagina è molto utile per noi, per riprendere il cammino, sapendo che davanti abbiamo la prospettiva della risurrezione di Gesù e il passaggio verso la vita nuova.

È importante anche considerare questo episodio dal punto di vista di Gesù. Gesù ha appena annunciato ciò che gli sta per accadere: è il primo annuncio della Passione (Mc 8,31). Comprendiamo il suo stato d’animo. È di fronte ad un interrogativo. Lo rendiamo con parole nostre: «Sono nella prospettiva giusta? Sto facendo il Messia come vuole il Padre? Così vado verso la morte… Non sarà il caso che mi limiti a fare semplicemente qualche miracolo, a raccontare massime edificanti e buone prassi?». L’ostilità dei contemporanei sta diventando totale: a parte la piccola squadra che lo segue, tutti gli altri gli sono contro. Gesù è, per così dire, ad un tornante della sua vita. E cosa fa? Sale sul monte. Vuole vivere un momento forte di intimità col Padre; noi diremo un momento di discernimento o di verifica vocazionale. Lo fa, da pio israelita, con le Sacre Scritture. Quando l’evangelista scrive che Gesù è insieme a Mosè ed Elia, adopera, in fondo, una formula tecnica, le Sacre Scritture si chiamavano così: Mosè (a cui era attribuito il Pentateuco), Elia (scritti profetici e altri scritti). Del resto, quando Gesù si affianca ai due discepoli di Emmaus parla di quello che «si riferisce a lui in Mosè, nei profeti e nei Salmi» (cfr. Lc 24,27).
Gesù entra nella dimensione della preghiera, dell’intimità col Padre e vuole associare a sé tre discepoli: Pietro, Giacomo e Giovanni. È sul punto di donare la sua vita, è il momento in cui inizia la sua autodonazione. Attorno a lui c’è appena questo piccolo grappolo di discepoli. Mi viene da pensare alle nostre Eucaristie. Talvolta, sull’altare, Gesù sta per dare sacramentalmente la sua vita e lo fa alla presenza di sei o sette persone; ma se anche fossero cento, che cosa sarebbero in confronto alla sua autodonazione per l’umanità intera? “I tre” sono stupefatti, atterriti. L’evangelista racconta il loro spavento di fronte a questa intimità che Gesù vive con il Padre, accompagnata da una luce potentissima: «Le vesti di Gesù diventano splendenti, bianchissime: nessun lavandaio avrebbe potuto farle così bianche». È un momento di Trasfigurazione. Pietro dice: «Signore, facciamo tre tende: una per te, una per Mosè, una per Elia. È bello per noi stare qui». La frase di Pietro è certamente generosa, bella, anche noi diciamo così a volte: «Com’è bello, Signore, stare con te». Tuttavia, la proposta sottende due equivoci. Il primo: Pietro vuole costruire una tenda, non sta davanti a Gesù che si autodona. Scatta subito in lui l’homo faber, che deve progettare, costruire, fare… Per fare una tenda servono un telo o una quantità notevole di frasche, da cercare; occorrono i picchetti, il palo principale che regge la tenda… Pietro non resta più davanti a Gesù. Questo capita tante volte anche nella nostra preghiera. A me succede, mentre sono in meditazione o in adorazione, di fermarmi per annotare qualche appunto in vista di un’omelia o di un incontro con i giovani; allora vado a cercare una matita, un quaderno… Dobbiamo imparare a stare, stare accanto a Gesù.
Il secondo equivoco è quello di voler rinchiudere Gesù sotto una tenda o in una nicchia per custodirlo. Nell’inconscio è come se si volesse incasellarlo. Ma Gesù non ci sta!
Il Padre fa udire la sua voce: «Non occorre costruire una tenda: io ti avvolgo con la nube…». La nube è segno di tenerezza, di un abbraccio.
La nube richiama la nube dell’esodo, un riferimento assolutamente pertinente per noi che siamo in cammino verso la Pasqua. Quella nube risplende nella notte, ripara dal sole che dardeggia nel deserto e accompagna nel cammino: segno della presenza di Dio con il suo popolo. Da quella nube viene una voce: «Ascoltate il Figlio mio…».
Sottolineo un altro particolare: la capanna o la tenda in ebraico si dice “succot”. La Festa delle capanne o delle tende era una festa nel calendario delle celebrazioni ebraiche. Si celebravano in primavera e si ricordavano con la costruzione di tende o di capanne i quarant’anni che il popolo aveva trascorso durante l’esodo (è un po’ come a Natale noi costruiamo la capanna di Gesù Bambino, la capanna dei pastori, ecc.). Anche gli ebrei costruivano le capanne, per celebrare il ricordo dei quarant’anni nel deserto, quando abitavano nelle tende, e soprattutto la fedeltà di Dio che ha accompagnato il suo popolo. Da notare che, al tempo di Gesù, la festa delle “succot” acquisiva un nuovo significato: si annunciava che il Signore stava preparando la grande tenda, sotto la quale erano convocate tutte le genti. Era un riferimento alla risurrezione, alla vita per sempre, al paradiso, diremmo noi.
Pietro, Giacomo e Giovanni scendono dal monte con “Gesù solo”. È lui l’essenziale. Tutto il resto è conseguenza o contorno. Vale per noi: siamo solo all’inizio della Quaresima, perseveriamo in questa tensione, stiamo seduti ai piedi del Signore, come fa Maria, non cadiamo, come dice papa Francesco, nel “martalismo”, cioè nell’attivismo di Marta. Il tempo della Quaresima è stare con “Gesù solo”. Buon cammino.