Omelia nella IV domenica di Pasqua

Miniera (RN), 25 aprile 2021

At 4,8-12
Sal 117
1Gv 3,1-2
Gv 10,11-18

L’autore del IV Vangelo non solo è “aquila” che penetra il mistero del Verbo fatto carne, ma è artista, sapiente architetto, formidabile sceneggiatore: colloca il celebre discorso di Gesù sul Buon Pastore tra due grandi feste. Qualche capitolo prima è menzionata la festa ebraica delle Capanne, alla fine si fa riferimento alla festa della Consacrazione del Tempio. Poco dopo la festa delle Capanne Gesù ridà la vista ad un cieco dalla nascita. Quel cieco non solo ha recuperato la vista, ma “vede” in Gesù l’inviato di Dio, il Messia. Senza averlo conosciuto preventivamente quel cieco crede in Gesù: «Adesso ci vedo!» (cfr. Gv 9,25). Vede e crede. I farisei e le guide del popolo che, loro malgrado, constatano il segno di quella guarigione non vogliono credere e «restano ciechi». Si chiudono all’evidenza. Per questo Gesù è in aperta polemica con loro. Nonostante il vantaggio di cui dispongono per la conoscenza delle Scritture, sono «guide cieche». Nei giorni che precedono l’altra festa – quella della Dedicazione – nelle liturgie ebraiche si legge il capitolo 34 del profeta Ezechiele, dove si parla di Dio «pastore d’Israele», un pastore che si prende cura davvero del suo popolo. È inevitabile in quei giorni di festa fare memoria dei “cattivi pastori” che avevano permesso la profanazione del Tempio. L’oracolo di Ezechiele preannuncia l’invio di un altro pastore che esprimerà la premura del Signore, un pastore come Mosè, come Davide. Gesù annuncia che è lui quel pastore, quello vero. Notare l’enfasi su quel «Io sono»: già con questa espressione – nel Vangelo di Giovanni ricorre varie volte – Gesù proclama la sua origine divina. Dio, buon Pastore, si rivela in Gesù.
Gesù si presenta, dunque, come il Pastore “buono”, cioè vero. “Buono” qui non è inteso in senso morale o psicologico. Attenzione, sembra dirci Giovanni, a non sbagliare pastore, a non investire la propria fiducia in pastori che non sono tali.
Il testo greco – lo dobbiamo sottolineare per correttezza – parla di «Pastore bello». Semmai, proprio perché bello dentro, sarà anche buono…
Quel Pastore è bello perché ha uno stile ed una logica di vita che rendono bella la sua vita, perché caratterizzata dal dono di sé. Questa è pure la bellezza dei santi e di tutti quelli che continuano a spendersi e a donarsi senza riserve.
Nei pochi versetti proclamati nella liturgia di oggi viene ripetuta una delle più forti e affettuose dichiarazioni d’amore. Per ben cinque volte Gesù dice che «dà la sua vita». Non c’è dubbio, la preposizione adoperata nel testo ha un significato esplicitamente oblativo. Il Pastore bello dà la vita per le pecorelle, cioè a motivo di loro, perché hanno bisogno di lui; dà la vita per le pecorelle, perché si fa avanti al posto loro; dà la vita per le pecorelle, cioè a loro vantaggio. Egli redime, espia, salva.
In questa dichiarazione d’amore non è taciuto il sacrificio, il “fare posto” e l’umiltà di chi ama. Ma ancora una volta non viene tanto in rilievo il prezzo da pagare, ma il frutto e la fraternità che crescono attorno al sacrificio. Scriveva sant’Agostino: «Dove c’è l’amore, dove si ama, non si sente fatica e anche quando c’è fatica si ama questa fatica» («Ubi amatur iam non laboratur et si laboratur etiam labor amatur»). Non c’è altra bellezza che questa. L’allegoria del Pastore si evidenzia nel confronto col mercenario. Il mercenario ha sicuramente esperienza e professionalità, ma, rispetto al pastore, ha un’altra motivazione: è pastore per guadagnarsi da vivere. Le pecore non sono «le sue»; per questo si mette in gioco solo fino ad un certo punto: non gli importa delle pecore e, quando arriva il lupo, scappa. Il mercenario non è bello!
Durante una traversata sul lago di Galilea i discepoli, travolti dalla tempesta e dalle onde, hanno gridato a Gesù che dormiva sulla barca: «Non ti importa che moriamo?» (cfr. Mc 4,35-41). Gesù risponde con i fatti al loro grido: le pecorelle gli importano, eccome! Gli appartengono: chi le tocca, tocca lui. Gesù non fugge quando ci sono problemi nella nostra vita: resta accanto. Dice il Vangelo che non permette che le sue pecore siano «disperse»: un verbo allusivo alla morte che disperde e disintegra la creatura. Gesù è per noi sorgente di vita per sempre.
Il Pastore buono è bello e anche forte: vede arrivare il branco dei lupi e lo affronta. C’è bellezza nelle nostre comunità? Sì, quando c’è qualcuno che dà la sua vita. Di Gesù è detto che ha il potere di dare la vita: questo è l’unico potere di Dio. Donando la sua vita, la riprende: perché a chi dà, sarà data una misura pigiata, scossa e traboccante (cfr. Lc 6,38). Chi dà tutto, ha già ricevuto tutto!
Questa è l’interpretazione più azzeccata della dimensione vocazionale della vita. Oggi, “Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni”, chiediamoci: dove sono chiamato a dare tutto?