Omelia nella Messa crismale

Pennabilli (RN), cattedrale, 28 maggio 2020

Is 61,1-3.6.8b-9
Sal 88
Ap 1,5-8
Lc 4,16-21

1.
«Canterò per sempre l’amore del Signore. Il Signore ha trovato me/ con il suo santo olio mi ha consacrato/ la sua mano e il suo braccio mi accompagna/. E io canto: tu sei mio Padre/, mio Dio e roccia della mia salvezza». Così parafrasando il Salmo responsoriale.

Cari fratelli presbiteri,
è per questo che siamo qui: per cantare all’amore del Signore, per la predilezione con cui ci ha scelti, per la decisione con cui ci ha inviati, per la certezza con cui ci accompagna mediante il suo Spirito: «Lo Spirito del Signore è su di me». Ognuno lo canti con gratitudine. È in mezzo a noi il Signore Gesù: egli «è colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre» (Ap 1,5-6).
Cari fratelli e sorelle presenti, pregate con noi, grati per il Battesimo e per l’unzione che ci ha resi popolo sacerdotale, profetico e regale. Pregate per noi, perché sappiamo vivere il sacerdozio ministeriale a vostro vantaggio.

2.
Nella liturgia dell’Ascensione abbiamo riascoltato con quale tono perentorio il Signore ha inviato i discepoli. Erano ancora scossi, increduli e perplessi: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra, andate dunque!» (Mt 28,18-19). Satana aveva tentato di lusingare Gesù sul monte altissimo delle tentazioni, promettendo gloria e potere (cfr. Mt 4,1-8). È il Padre che dà a Gesù il vero potere sul monte Calvario, per la sua obbedienza e spoliazione sulla croce. Andate, dunque, «non abbiate paura, io ho vinto il mondo (cfr. Gv 16,23)». Ricordate la visione di Paolo dalla quale ha inizio il suo ministero in uno dei luoghi umanamente più impossibili e refrattari al Vangelo: Corinto (cfr. At 18,9-13)!
La nostra missione è la stessa di Gesù: su lui, prima che su noi, scese lo Spirito per fasciare ferite, asciugare lacrime, spezzare catene, annunciare la grazia del Signore. Lo Spirito ora si posa su «vasi di creta» (2Cor 4,7), su strumenti fragili, bisognosi di incoraggiamento, di motivazioni solide e di compagnia. La buona notizia affidata alla nostra responsabilità è «potenza di Dio» (Rom 1,16), brilla di luce propria al di là delle nostre meschine presunzioni!

3.
Qualche tempo fa papa Francesco ha messo in evidenza le amarezze che possono condizionare la vita e la missione dei presbiteri. Prima di rinnovare le promesse sacerdotali guardiamole con serenità per poi superarle. Stride che chi porta il lieto annuncio, la gioia del Vangelo, lo faccia con animo amareggiato. Non è l’apostolo un servitore della gioia (cfr. 2Cor 1,24)? Seguiamo con parole nostre, passo passo, le riflessioni di papa Francesco.

4.
La prima amarezza può affiorare sul nostro cammino di fede. C’era dell’amarezza anche nei discepoli di Emmaus: «Noi speravamo… ma con tutto ciò sono passati tre giorni…» (cfr. Lc 24,21). È l’amarezza che affiora pian piano sui fallimenti, le delusioni, le fragilità, l’irraggiungibilità della meta. Talvolta, viene a causa di situazioni di deserto: aridità nella preghiera, apparente inefficacia della grazia, ricadute… Bisogna guardare dentro a questa amarezza; non è detto sia una colpa: è quello che sentiamo. Va accolta: può essere una grande occasione. La radice sta nel confondere attese e speranza.  Un conto sono le attese, un conto la speranza. Le attese nascono dai nostri progetti, dai nostri calcoli, da noi stessi. Inutile dire che qui il nostro io è al centro e magari sogna ricompense, avanzamenti, gratifiche… Vien da chiedersi: «Che cosa cerco veramente?». È necessario essere schietti con se stessi. È una situazione pericolosa sia quando le attese sono compiute: «Anima mia, hai a disposizione molti beni per molti anni, riposati, mangia e bevi e datti alla gioia» (Lc 12,20), sia quando arrivano le delusioni. La speranza, invece, attende, ma attende da un Altro. Sboccia quando non ci si difende più e ci si arrende, riconoscendo il proprio limite. Non si guarda a se stessi. Si capisce che non ci si salva da sé. Nasce allora l’abbandono fiducioso: «Come un bimbo in braccio a sua madre» (Sal 131,2). Un autore spirituale antico – l’autore della “Nube della non conoscenza” – scriveva ai principianti nel cammino spirituale: «Quando ti accorgi di non potercela fare in nessun modo a ricacciare quei pensieri, mettiti tutto accovacciato dinanzi a loro, come un soldato povero e debole, sopraffatto in battaglia e ragiona così dentro di te: “È da pazzi continuare a lottare con loro, ormai sono perduto per sempre”. In questo modo ti abbandoni a Dio, mentre sei nelle mani dei tuoi nemici. Ti prego di prestare molta attenzione a questo espediente. Infatti, se tu lo metti in pratica, va a finire, secondo me, che ti sciogli in lacrime. Sono peraltro certo che questo stratagemma, se lo si intende bene e per il verso giusto, non è altro che la vera e la piena conoscenza di quel che sei in realtà: un essere miserabile e corrotto, ancor peggio che niente. Una tale conoscenza e coscienza di sé è l’umiltà stessa e questa umiltà fa sì che Dio in persona, nella sua potenza, scenda a vendicarti dei tuoi nemici e che nel suo amore infinito ti risollevi a sé per asciugare i tuoi occhi spirituali così come fa un padre con il proprio figlio che sta per finire nella fauci dei cinghiali o di orsi inferociti (Anonimo, La nube della non conoscenza, Áncora, 1981, p. 191).

La mia concittadina, santa Caterina Vegri (1413-1463), ha scritto un’operetta ascetico-mistica intitolata “Le sette armi spirituali”. Le prime due armi, indispensabili per la vittoria, sono la diffidenza di sé, la confidenza in Dio.

5.
C’è amarezza nella vita del prete quando si isola dagli altri. Solitudine ed isolamento sono due distanze di natura diversa. La solitudine cristiana è quella di chi – chiusa la propria stanza – si intrattiene con il Padre nel segreto (cfr. Mt 6,6). Ma allora è una solitudine desiderata, cercata, perché virtù. È la solitudine creata in noi dalla vita interiore e necessaria alla vita interiore. È virtù che fa spazio, assicura condizioni, crea capacità di accoglienza, di accumulo e di custodia, come una conca con l’acqua che sale pian piano e trabocca. E di che cosa se non di amore? Solitudine piena d’amore, per amore, per l’Amore! Ma poi dona, effonde vita: è una benedizione! Come i nevai sulle cime dei monti che diventano torrenti e dissetano le valli… Ben diverso da questa solitudine evangelica è l’isolamento. L’isolamento è un dramma quando riguarda la vita del prete. Un prete isolato prima o poi si spegne.
Può essere isolato rispetto alla realtà stessa della grazia: non sente d’essere circondato “da amici celesti”. Ritiene che la sua vicenda, le sue afflizioni, non tocchino nessuno. Tiene lontano lo Spirito Santo.
Può essere isolato rispetto alla storia. Tutto sembra consumarsi qui e ora: vede solo se stesso. Non ha l’abitudine a mettersi nei panni degli altri. Ogni cosa si apre e si chiude con lui, dimenticando il senso continuo della storia del popolo di Dio a cui appartiene: come se nulla ci sia stato prima e nulla dopo. Un sintomo di questo isolamento è la tendenza a non considerare chi l’ha preceduto, a non far crescere quello che è iniziato prima di lui. Accade, talvolta, che entrando in una comunità, faccia “tabula rasa” di quello che c’è, senza preoccuparsi di continuare il bene che non ha iniziato lui. Personalizza troppo la sua impronta, senza tenere conto di chi sta intorno e di chi verrà dopo. Non si sente parte di un cammino comunitario.
C’è un isolamento anche rispetto agli altri. Si manifesta come incapacità di instaurare relazioni significative di fiducia e di condivisione. Gli altri sono antagonisti. Gli succede di “paragonarsi” con gli altri. Il paragone è un demone che porta all’autoreferenzialità o alla tristezza. Ricordate Saul allorché sentì le fanciulle della città che gli attribuivano mille, mentre a Davide attribuivano diecimila (cfr. 1Sam 18,7)? Quando mi isolo i problemi sembrano unici e insormontabili: «Nessuno può capirmi… ». Questo pensiero finisce per ingigantirsi e rinchiude sempre più nel proprio io. Il demonio non vuole che mi apra, che parli, che condivida… Il prete isolato si tira fuori da tutto, amaramente. Forse è anche bravo e geniale, ma si avvita su se stesso: non ha la dimensione del “noi”.

6.
Ci sono, poi, le amarezze nella vita del prete date talvolta dal rapporto con i pastori. Si perdona il vescovo se sbaglia; si tollera se ha sensibilità diversa, ma fa soffrire quando è autoritario, magari in forma delicata: allorché ha fretta di imporre progetti, ha ansia per le iniziative facendole diventare il metro della comunione. Ma la comunione non coincide con l’unanimità delle opinioni. È vero, i preti devono essere in comunione col vescovo e il vescovo con i preti: non è questione di democrazia, ma di paternità.
Un altro atteggiamento del pastore che può suscitare amarezze è la non equità: la tentazione di circondarsi dei “suoi”, dei “vicini”, con il rischio di non riuscire a distinguere tra chi compiace e chi consiglia in maniera disinteressata. Il pastore deve tenere conto dell’opinione di tutti, salvaguardando la rappresentatività del gregge, senza preferenze. Questi atteggiamenti del pastore fanno soffrire il gregge che spesso accetta senza esternare nulla. Il Codice di Diritto Canonico dice: «I fedeli hanno il diritto, anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri pastori il loro pensiero su quel che riguarda il bene della Chiesa» (can. 212 § 3).
Ma c’è un’altra situazione nella quale il pastore può essere motivo di amarezza per il suo gregge: quando, preso dai molti uffici, dalle emergenze e dai problemi gestionali, trascura il “munus docendi”. Egli è maestro della fede, del retto credere… È suo compito vegliare «sulla integrità della fede, sulla santità della vita, sulla devozione autentica e sulla carità fraterna» (cfr. Messale Romano, Messa per la Chiesa locale, Post Communio).
Il popolo di Dio ha il diritto di avere dei preti che insegnano a credere e a pregare; i presbiteri hanno diritto di avere un vescovo che insegni a sua volta a credere e a sperare nell’unico Maestro, «via, verità e vita».
C’è abbondante materia per l’esame di coscienza del vescovo. Ma c’è anche l’invito ai presbiteri perché siano la sua consolazione. Così sia.