Omelia nella Solennità del “Venerdì Bello”

Pennabilli (RN), Santuario della Madonna delle Grazie, 17 marzo 2023

Gen 37,3-4.12-13.17-28
Sal 104
Lc 1,26-38

Carissimi, la tradizione ci ha consegnato la memoria di un avvenimento straordinario: una lacrimazione dell’immagine della Santa Vergine, evento gelosamente custodito, trasmesso fedelmente da una generazione all’altra con lo stesso fervore, la stessa meraviglia e la stessa gratitudine. Un evento di lacrime, ma tramandatoci come bellezza, chiamato, da quel venerdì del 1489 (allora era il 20 marzo), il “Venerdì Bello”!
Non stupisce che la Madre del Signore sia venerata in tanti dei nostri borghi e delle nostre chiese come la Vergine Addolorata, testimonianza delle sofferenze di queste popolazioni, ma qui è la stabat mater lacrimosa, accanto al Figlio Gesù e accanto a questo popolo.
Il Cielo è vicino alle nostre vicende?
L’umanità risorta del Signore e l’umanità della Vergine Assunta sono umanità trasfigurate e gloriose, divina quella di Gesù, divinizzata quella della Madre, la prima della creazione ad entrare nella gloria, in corpo e anima, segno e anticipo della nostra vocazione alla santità e alla divinizzazione.
Sull’immagine della Santa Vergine, qui a Pennabilli, in questa chiesa, furono viste lacrime. Le lacrime sono punto d’incontro fra corpo e anima: esprimono sentimenti, accompagnano la preghiera, indicano un dolore esteriore ed interiore, fisico e spirituale; una distinzione – quest’ultima – improbabile, perché il dolore e le lacrime dicono l’unità della persona nella sua realtà psicofisica.
Quanta tristezza ci capita di scorgere sui volti che incontriamo, specialmente – mi rivolgo ai sacerdoti – in queste settimane di visita alle famiglie. Quante lacrime vengono versate ad ogni istante – in questo istante – nel mondo; una diversa dall’altra, e insieme formano come un oceano che invoca compassione e consolazione.
Le più amare sono quelle provocate dalla malvagità umana: le lacrime di chi si vede strappare violentemente una persona cara, di chi si sente abbandonato, fallito, incompreso. Questi sono giorni di lacrime: lo testimonia la cronaca; sofferenze costantemente presenti nei nostri cuori di pastori e nella nostra quotidiana preghiera: ci mettiamo nei panni degli altri: «Piangere con chi piange…» (cfr. Rom 12,15).
E che dire delle nostre lacrime? Ci sono lacrime che ci fanno onore. Il Messale e la Tradizione spirituale ci esortano a chiedere il dono delle lacrime, come segno della partecipazione del cuore alle sofferenze degli altri e alla Passione del Signore. Nei momenti di tristezza, di senso di inadeguatezza, nella malattia, nel lutto, nella critica che punge, nella persecuzione… Come scrive papa Francesco, «ognuno cerca una parola di consolazione, cerca paternità e fraternità; sente forte il bisogno che qualcuno gli stia vicino e provi compassione per lui, che possa realmente capire il suo dolore». Ci sono occhi che spesso rimangono fissi sul tramonto e stentano a vedere l’alba di un giorno nuovo» (Veglia di preghiera “per asciugare le lacrime”, 5 maggio 2016).
Le lacrime sono ben note nelle Sacre Scritture, un tema ricorrente nella storia della salvezza: c’è un’umanità che piange, un popolo in cerca di liberazione, cuori, volti, occhi bagnati di lacrime. Basta sfogliare il libro dei Salmi, il nostro libro di preghiera. «Torrenti di lacrime gli scendono dagli occhi» (Sal 119,136). «Irroro di lacrime il mio letto» (Sal 6,7). «Signore, non essere sordo alle mie lacrime» (Sal 39,16). L’orante insiste: «Le lacrime sono mio pane giorno e notte» (Sal 42,4). «Le mie lacrime nell’otre tuo raccogli» (Sal 56,9). Il profeta Geremia tante volte allude al pianto: «Occhi che grondano lacrime» (Ge 14,17). «Il mio occhio si scioglie in lacrime» (Ge 13,17). «I miei occhi sono consumati nelle lacrime» (Lam 2,11). «Nell’andare se ne va e piange» (Sal 126,6).
Ma il salmista sa che «chi semina nelle lacrime, mieterà con gioia» (Sal 126,6): è la promessa!
«Signore, hai liberato i miei occhi dalle lacrime» (Sal 116,8): questo è motivo di gratitudine.
Sì, il Signore «asciugherà le lacrime» (Is 25,8), «tergerà ogni lacrima dai loro occhi» (Ap 7,17;21,4).
Si potrebbero considerare le lacrime di diversi personaggi biblici colti nell’atteggiamento delle lacrime; sarebbe molto bello e incoraggiante.
Giuseppe, venduto dai fratelli, piange cinque volte: sembra essere il personaggio biblico più propenso alle lacrime. Tre volte piange di gioia per rapporti riallacciati, per una fraternità ritrovata… Piange così forte che lo sente tutto il palazzo del faraone. Versa lacrime di dolore – è la quarta volta – per la morte di Giacobbe, suo padre, ma c’è una quinta lacrimazione, la più pungente: è quando i fratelli, dopo la morte del padre, vanno dal vicerè (Giuseppe è il fratello che ha fatto carriera), si prostrano davanti a lui per chiedergli pietà. Giuseppe piange perché non credono alla sua misericordia, al suo cuore (cfr. Gn 15-21). Sono le lacrime più amare.
Faccio un salto nel Nuovo Testamento, ad una persona di cui non sappiamo neppure il nome: la donna silenziosa che, nel Vangelo di Luca, bagna di lacrime i piedi di Gesù e li asciuga con i capelli (cfr. Lc 7,38): lacrime che contengono il dolore per il suo peccato e la consolazione per il perdono.
Paolo di Tarso. Mi piace considerare le lacrime dell’Apostolo. Ritroviamo in lui le nostre. Esorta con lacrime, scrive lettere tra le lacrime (2Cor 2,3.4; 9,7.8.12). Sono lacrime di delusione.
Ma è soprattutto Gesù che vediamo in lacrime: per la morte dell’amico Lazzaro (cfr. Gv 11,35-36) e alla vista di Gerusalemme ingrata (cfr. Lc 19,41). Di lui, l’autore della Lettera agli Ebrei ricorda che, nei giorni della sua vita terrena, «offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime» (Ebr 5,7).
Il nostro ministero, cari fratelli sacerdoti, è un ministero di consolazione, un quotidiano asciugare lacrime, un piangere con chi piange (cfr. Rom 12,15), quasi per far nostro l’invito di Gesù a non piangere su di lui ma sui nostri figli (cfr. Lc 23,28) fino a proclamare la beatitudine: «Beati voi che ora piangete, perché riderete» (Lc 6,21). Siamo annunciatori, spesso incompresi, della Risurrezione.
Spendo ora una parola sulle lacrime di Dio, tornando alla domanda iniziale: «Il Cielo è vicino alle nostre vicende? C’è sofferenza in Dio? C’è partecipazione al dolore umano?». La teologia ha sempre affermato l’impassibilità di Dio. Dio, assoluta perfezione, non conosce il limite, la privazione, lo scadere del tempo. Dio è lo splendore del vero, senza ombra alcuna. È l’assoluto. Dio è incorruttibile bellezza e armonia.
Come possono esserci lacrime nell’Essere supremo? Come anche solo immaginare una qualche forma di sofferenza in colui che è Eterna beatitudine?
I filosofi hanno considerato la sofferenza nel suo aspetto di limite, imperfezione, mancanza. In questo senso è, quanto meno, contraddittorio mettere insieme lacrime e perfezione divina. La prospettiva cambia completamente quando la sofferenza viene collocata nell’ambito dell’amore. Allora viene riscattata dalla sua negatività: più grande è l’amore, più comprensibile è il dolore.
Certo, Dio non è un uomo! Siamo ben lontani dalle rappresentazioni del paganesimo.
Per la fede cristiana, Dio si fa uomo, piange lacrime salate come le nostre, assume il limite, ama sino alla follia.
Che Dio conosca la sofferenza dell’uomo è ben chiaro già dalla vicenda vocazionale di Mosè, al quale è stato dato di sentire le parole di Dio misericordioso: ho visto la sofferenza del mio popolo, ho sentito il suo lamento… (cfr. Es 3,7-10).
Dunque, Dio vede, sente, partecipa e, soprattutto, ama. E in Gesù Cristo vuole provare come sta l’uomo sotto il peso della croce, come patisce l’uomo per l’amarezza dell’ingratitudine, come risuonano nel petto i battiti del cuore umano e quanto è abissale l’oscurità delle notti dell’anima.
Siamo qui per fare Eucaristia, per dire il nostro grazie, per rinnovare la nostra consacrazione alla Madonna delle Grazie, alla quale abbiamo tanto da chiedere, e per stringere i vincoli della fraternità sacerdotale e universale.