Omelia nella VI domenica del Tempo Ordinario

San Marino Città (RSM), 11 febbraio 2024

XXXII Giornata Mondiale del Malato

Lv 13,1-2.45-46
Sal 31
1Cor 10,31-11,1
Mc 1,40-45

Questa pagina di Vangelo è una pagina pasquale. Si potrebbe dire che tutto il Vangelo è pasquale, però questo brano è speciale, perché è speciale la malattia di cui Gesù si prende cura. Un lebbroso è uno che ha la morte nel corpo. Nell’antichità la lebbra era l’emblema della maledizione (cfr. Lev 13,1-2). Oltre la malattia, il lebbroso si porta dietro uno stigma: «Sei un maledetto!». Le persone vedono nella decomposizione del corpo quello che succede nell’anima: il peccato fa nel cuore ciò che la lebbra fa nel corpo. Qualcuno pensa che quello che gli succede sia il risultato del suo peccato. Il lebbroso sente la reazione dell’altro, una reazione di fastidio, di rigetto, di disagio forte. Il lebbroso è un fallimento fatto persona: questa la mentalità dell’epoca. Oggi, invece, la lebbra si cura. Un santo, padre Damiano De Veuster, missionario nelle isole Hawaii, accettò di abitare in una piccola isola in cui erano relegati i lebbrosi. Visse con loro per dieci anni, ridimensionando l’opinione che fosse una malattia così tanto contagiosa, ma soprattutto permise di avviare sperimentazioni e cure. Il lebbroso, al tempo di Gesù, è un uomo isolato, la quint’essenza della non relazione: non può vivere relazioni, perché ogni relazione deve passare sotto un giudizio severo, negativo, da parte degli altri. «Tu emani cattivo odore», gli dicono. Questa frase venne rivolta a Gesù quando volle salire al sepolcro dell’amico Lazzaro: «Non andare, Signore, già manda cattivo odore» (cfr. Gv 11,39). Il lebbroso già emanava un odore sgradevole, ma più sgradevole è avere davanti agli occhi ciò che ci è più ripugnante: fare questa fine. Il lebbroso mette davanti la morte, perché è un morto che cammina. Così la cultura antica.

Perché questa pagina di Vangelo è una lettura pasquale? L’evangelista Marco propone l’episodio come una guarigione emblematica. Il corpo, dentro la tomba, finisce proprio così, come il corpo di un lebbroso. Marco è di un realismo e di una crudezza assolute, perché mostra che la fede cristiana non è l’insegnamento di una regola del buon vivere, ma qualcosa di ben più grande. Il Vangelo dice che la tua vita non può finire così. Il Vangelo, di fronte alla tragedia mortale del lebbroso, dice “no”: il tuo corpo risorgerà. Non diciamo, come i sapienti di Atene quando san Paolo fece l’annuncio della risurrezione, della vita per sempre, del paradiso, che più corrisponde all’implorazione del nostro cuore. «T’ascolteremo un’altra volta su queste cose» (cfr. At 17,33), gli avevan detto. Proclamazione di totale scetticismo. Questo è l’annuncio che la Chiesa deve fare oggi. Va benissimo il nostro impegno – lo dico agli amici dell’USTAL-UNITALSI, qui presenti, che si dedicano al volontariato e fanno visita agli ammalati –, ma non dimentichiamo che l’essenziale è l’annuncio della risurrezione.

L’incontro di Gesù con il lebbroso è come l’incontro finale che avremo con il Signore Gesù. Ogni episodio del Vangelo di Marco, ce lo dicono gli esegeti, in realtà è un incontro col Risorto. È un Vangelo brevissimo, appena 16 capitoli, e si chiude senza finale (finisce con l’avverbio greco “car” che si può tradurre con “perché?”). Poi, è stata scritta una breve aggiunta canonica, ma, di per sé, il Vangelo termina con le due discepole che vanno alla tomba di Gesù, constatano che è vuota, e accolgono l’annuncio evangelico: «Andate in Galilea, là lo incontrerete» (cfr. Mc 16,1-8). È un detto di tipo simbolico. È come se Marco riavvolgesse le vicende della vita di Gesù e le leggesse dal punto di vista della risurrezione; l’incontro del lebbroso con Gesù è l’incontro di un malato con Gesù Risorto, un “ritorno al futuro”. Per questo il brano è fondamentalmente pasquale e viene promesso il recupero della nostra corporeità. La pienezza della persona, anima e corpo, sarà avvolta dalla vita e dalla gloria della risurrezione. I Padri della Chiesa dicevano: «Il punto di arrivo della salvezza è la salvezza del corpo». La promessa è del corpo. Gesù non si sottrae al farsi avanti di questo lebbroso; la lebbra non impedisce a Gesù di lasciarsi toccare, anzi il Vangelo dice che Gesù provò dentro di lui una sorta di compassione: viene usato un verbo greco che indica un movimento viscerale, come quello che avviene nel grembo materno. Gesù, in quel momento, vibra come una madre che sta per dare la vita. Tocca il lebbroso: c’è il contatto fisico. Questo era vietato non solo per motivi igienico-sanitari, ma per anche per motivi religiosi: si contraeva impurità rituale. Gesù lo sa. Prende su di sé la malattia, l’impurità: diventa lui impuro.

Alla fine del brano viene detto che Gesù non entrava più in città, ma abitava in luoghi deserti. Il motivo, di per sé, è che non vuole passare per un guaritore. Lui è il Salvatore: un conto è guarire, un conto salvare. Se guarisce è per dimostrare che può salvare, che può dare senso a tutto. Marco allude al farsi lebbroso di Gesù: d’ora in poi non entra più in città, anche lui ora va in luoghi deserti.
Il lebbroso viene inviato al tempio, dove i sacerdoti hanno l’incarico di verificare se veramente la malattia è superata (un po’ come, durante il Covid, si veniva mandati a fare il tampone…). Non si andava a mani vuote, occorreva portare una vittima sacrificale. Questo “salvato” non va al tempio, ma grida la bella notizia della guarigione. Prima del culto, sembra dirci l’evangelista, c’è la testimonianza: «Io, l’escluso, il maledetto, colui che manda cattivo odore, l’inavvicinabile, ora sono salvato…. C’è stato uno che si è avvicinato, si è preso cura di me, non ha provato ribrezzo, mi ha toccato». Questo è il kerygma: «La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita dei discepoli che hanno incontrato Gesù» (EG 1). Gesù ti salva.

E l’offerta sacrificale? L’offerta sacrificale c’è già: è Gesù. In effetti, sta incominciando la crisi nel rapporto di Gesù con i capi del popolo; si profila la crocifissione. Lui è la vittima. Dirà san Paolo: «Lui si è fatto peccato al posto nostro per darci la vita» (cfr. 2Cor 5,21). Il lettore del Vangelo di Marco può dire: «Il lebbroso sono io che sono stato salvato».
Domandiamoci: quali sono le mie lebbra? Che cos’è che mi tiene fuori dalla relazione? Forse il mio carattere, forse un errore che ho commesso, forse il partire sempre da me, dal mio punto di vista… Questo mi fa stare lontano dagli altri. Lasciamoci toccare da Gesù che è l’unico capace di non abbandonarci mai. Questo cambia la nostra vita. Così sia.