Omelia nella XII domenica del Tempo Ordinario

San Marino Città (RSM), 21 giugno 2020

Ger 20,10-13
Sal 68
Rm 5,12-15
Mt 10,26-33

Comincio con una confidenza: mi sono regalato la carta geografica con i percorsi di san Paolo, grande apostolo e grande missionario. Ha percorso circa 20.000 km, con i mezzi di allora, sulle strade di allora. Ha affrontato il Mar Mediterraneo, smisurato per la comprensione di quel tempo. È approdato a Malta, da lì è arrivato in Italia, a Pozzuoli e poi a Roma. I testimoni antichi assicurano che ha raggiunto anche la Spagna.
Perché esordisco in questo modo? Per agganciarmi al discorso missionario pronunciato da Gesù e che l’evangelista Matteo raccoglie nel capitolo 10. Abbiamo letto soltanto la finale, ma un tema di tutto il capitolo 10 è questo: la missione è un atto di itineranza. Certo, si può essere missionari anche da contemplativi; basti pensare alla piccola Teresa di Lisieux, che è stata proclamata patrona delle missioni pur non essendo mai uscita dal suo monastero. Tuttavia, il Signore manifesta la necessità che la buona novella che Gesù ha sussurrato nel nostro cuore sia proclamata «dalle terrazze» (Mt 10,27) a tutti e che «la Parola corra» (cfr. Rom 10,18). Si tratta di un atto di giustizia, ma anche di amicizia verso tutti i popoli della terra. Non è un dettaglio da poco: l’essere missionari si radica profondamente nella nostra identità di cristiani. Trovo dell’inquietudine, in senso buono, addirittura nella Trinità. Le tre Divine Persone sono in movimento, in danza, in pericoresi l’una nell’altra, in un dono d’amore infinito in cui trovano la loro essenza. Un unico Dio in tre Persone. È un Dio missionario, perché manda. Pensate all’atto della Creazione: non è stato altro che, in fondo, l’esprimere da parte di Dio, liberamente, il suo dinamismo, la sua volontà di amare e di donare l’essere. Torno a precisare che parlo di inquietudine, ma togliete tutto quello che c’è di negativo in questa parola. Il Padre è “inquieto” fino a mandare il Figlio per redimere l’umanità e salvare il mondo. Il tema della missionarietà si radica nella vita intima di Dio. E chi c’è di più “inquieto” di Gesù in questa accezione di dinamismo, di desiderio di partecipare a quella che è la gioia del Regno di Dio? Gesù dirà: «Sono venuto a portare il fuoco, e come vorrei che questo fuoco fosse già acceso» (Lc 12,49). Anche nelle parabole, nei piccoli dettagli, emerge tutta questa benefica inquietudine: la donna che spazza la casa per cercare la moneta perduta e non si dà pace finché non l’ha trovata… chissà in quale fessura del pavimento si è cacciata quella monetina (cfr. Lc 15,8-9)! Così il pastore che lascia novantanove pecore per cercare la centesima che si è smarrita nei greppi delle colline aride della Palestina. Poi finalmente torna a casa felice con la pecora che si era perduta sulle sue spalle (cfr. Lc 15,4-6). Anche il padre della celebre parabola del “figliuol prodigo” è sulla terrazza e guarda se il figlio ritorna. È un padre inquieto, “missionario” (cfr. Lc 15,20). La missione non nasce dall’esigenza di propaganda: questa idea è assolutamente estranea al Vangelo. Come dice spesso il Papa, noi non facciamo missione “per proselitismo”: la missione è un’esigenza della vita pasquale. Se riguardate i racconti della risurrezione di Gesù, vedrete che ogni racconto si conclude con dei verbi di moto: «Andate a dire», «Annunciate a tutti», «Dite ai miei discepoli che vadano in Galilea». Noi non siamo altro che delle scintille del grande evento della risurrezione nel quale siamo immersi, scintille in movimento: la missione. Gesù ci raccomanda di non avere paura. Da dove possono venire le paure per un missionario? Gesù dice per tre volte: «Non abbiate paura». La prima: «Non abbiate paura perché non vi è nulla di nascosto che non sarà svelato». Quindi, quello che sentite all’orecchio annunciatelo. Non tenetevelo per voi, non chiudetevi nel catacombismo, non chiudevi nel “rispetto umano”. Chiede che abbiamo il coraggio di testimoniare la nostra fede. «Non abbiate paura – ripete Gesù – non siate reticenti». Certo, occorre una testimonianza che sia proporzionata, trasparente e contestuale. Una testimonianza proporzionata alla situazione, al luogo. Una testimonianza trasparente: far parlare la vita. Poi, Gesù insiste ancora: «Non abbiate paura della persecuzione». Domani, 22 giugno, ricorderemo in Diocesi san Tommaso Moro, un uomo di grande cultura, filosofo, letterato e martire, vissuto all’inizio del XVI secolo. Viene chiamato dal sovrano Enrico VIII a rivestire la carica di Cancelliere del Regno di Inghilterra. Tommaso è incorruttibile, assolutamente lontano dalla ricerca del proprio interesse. Ad un certo punto sa resistere alle pretese del Re e obbedisce alla sua coscienza e ai principi che significavano fedeltà al Signore, alla sua Chiesa. Fu rinchiuso nella torre di Londra e poi, non avendo cambiato parere, fu decapitato. Tommaso Moro è di quelli che non hanno avuto paura. Ci ha lasciato anche una preghiera per chiedere il buonumore. C’era ben altro a cui pensare nella torre di Londra…
Gesù dice per la terza volta: «Non abbiate paura», come a dire «siate audaci, fatevi speranza in un mondo ferito». Questo è il tema del Convegno che si terrà domani, al quale parteciperanno persone impegnate nella politica, nell’amministrazione e nell’educazione. Ma non è solo per loro, è per tutti. Preghiamo “per loro”, preghiamo “con loro”.
Qualche tempo fa ho letto nelle Fonti Francescane quello che san Francesco insegna riguardo l’obbedienza. Parla di tre livelli di questa virtù. Primo livello: fare quello che ti viene comandato, secondo il tuo stato di vita, secondo le esigenze. Secondo livello: chiedere licenza, cioè sottoponi quello che ti viene in mente al discernimento del Superiore. Terzo livello: chiedere di andare ad annunciare il Vangelo “agli infedeli”, cioè andare nelle terre lontane a parlare di Gesù (FF 736, Vita seconda di Tommaso da Celano, c. CXII). L’obbedienza più grande è ascoltare l’urgenza missionaria che sboccia dal nostro cuore rinnovato dalla Pasqua. Così sia.