Omelia nelle Esequie di mons. Mansueto Fabbri

Novafeltria (RN), 26 marzo 2024

2Tm 4,6-8
Sal 22
Gv 12, 23-28

Porto il saluto del nostro Vescovo eletto Domenico, che rivolge le sue condoglianze, partecipando con la preghiera a questa celebrazione.

Filone d’Alessandria racconta così la morte di Mosè. Mosè era particolarmente amato dal Signore e caro agli uomini. Venne anche per Mosè il momento di lasciare questo mondo: aveva 120 anni. La morte si rifiutò di obbedire al comando di Dio. «Posso, forse, togliere il respiro ad un uomo così mite?». Dio, allora, mandò angeli, ma anche questi rifiutarono. Come spegnere i suoi occhi e la fiamma di un cuore così ardente d’amore per il suo popolo? Allora Dio stesso scese sul monte, si avvicinò all’amico Mosè, lo pregò di distendersi, di comporre le mani sul petto, di chiudere dolcemente gli occhi. Dio si chinò su di lui e con un bacio gli portò via l’anima (cfr. De Vita Mosis).

Care sorelle, cari fratelli, gli ultimi giorni di don Mansueto assomigliano tanto a quelli di Gesù nella sua Passione. Come Gesù continuava a soffrire, così anche don Mansueto, sazio di giorni e pressoché senza grosse inquietudini. Come Gesù continuava a pregare – mi correggo – era diventato preghiera; non dico che pregava “in automatico”, perché può apparire dispregiativo, ma la sua anima era davanti a Dio. Come Gesù continuava ad amare: «Avendo amato i suoi, li amò sino alla fine» (Gv 13,2). Tutta una vita spesa per il Vangelo e per la Chiesa di cui ha amato i pastori, i papi della sua vita, di cui ha letto biografie, voluminose e documentate: da Pio XI a papa Francesco; i suoi vescovi, i vescovi della Diocesi: da mons. Raffaele Santi a mons. Domenico, il Vescovo eletto che, appena qualche settimana fa, ha voluto visitarlo. Di lui don Mansueto teneva la foto sulla parete nella sua stanzetta; i sacerdoti, che ricordava con il proprio nome, uno per uno, ogni giorno nella preghiera di intercessione, ma anche tantissimi di voi, cari parrocchiani (e non), che siete stati in quella lista fortunata.

Dilexit Ecclesiam, la Chiesa concreta, quella che sussiste nella Chiesa particolare, non in astratto, questa Chiesa, la Diocesi: a cominciare dal Seminario, nel quale fu educatore e maestro, poi l’Azione Cattolica per la formazione e l’apostolato dei laici, il servizio ai catechisti e agli educatori percorrendo e ripercorrendo il Montefeltro da un capo all’altro: ritiri, incontri, meditazioni; il legame con l’Istituto dei Missionari della regalità di Cristo che non l’ha sottratto ai doveri e ai rapporti diocesani, semmai li ha motivati e sorretti; soprattutto la parrocchia: Pennabilli e le parrocchie dintorno fino a Casteldelci, poi Novafeltria per trent’anni. Per don Mansueto la Diocesi non era una circoscrizione territoriale, era sua famiglia, e sulla Diocesi ha saputo tessere un ricamo di amicizie, di collaborazioni e di presenza (immancabile, sempre in prima fila, attentissimo nei nostri incontri). Entusiasta del rinnovamento portato dal Concilio Vaticano II: uno sguardo nuovo sulla Chiesa, mistero e popolo di Dio, rinnovamento liturgico, riscoperta del laicato e dei carismi, dei nuovi movimenti (ha avuto contatti col Movimento dei Focolari, con Comunione e Liberazione, con gli amici Volontari della Sofferenza, con l’UNITALSI), adesione cordiale ed entusiasta al Rinnovamento nello Spirito e, per moltissimi anni, l’impegno nel Cammino neocatecumenale. Poi il Tribunale Ecclesiastico Flaminio, in cui ha ricoperto il ruolo di giudice: sapeva essere rigoroso e imparziale, qualche volta destando disappunto in chi l’avrebbe voluto dalla propria parte o indulgente. Misericordioso e accogliente, invece, nel ministero della Confessione. Quando mi aspettava, in cima alla scala, mi faceva pensare al padre misericordioso della parabola del figliuol prodigo. Ogni volta un abbraccio. Portava con sé un piccolo crocifisso, ogni volta invitando a considerare quelle braccia sempre spalancate. Nell’esortazione rimandava immancabilmente al mistero pasquale con parole profonde, ma comprensibili perché accompagnate dalla sua commozione, ogni volta come se fosse la prima. Tutto è narrato nella sua autobiografia; da non perdere anche l’aggiunta riguardante l’infanzia.
Se nella Prima Lettura abbiamo ascoltato l’esito della lunghezza e profondità di vita di don Mansueto: «È giunto il momento di sciogliere le vele, ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede» (2Tm 4,6-7)… Se nel Salmo 22 vediamo la testimonianza del suo fiducioso abbandono al buon Pastore che «fa riposare su pascoli erbosi e conduce ad acque tranquille» (cfr. Sal 22), nel Vangelo possiamo assaporare lo splendore e le dinamiche del mistero pasquale. «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato», e noi sappiamo bene che tipo di gloria il Padre riserva a Gesù. L’ora, rinviata per sei volte se stiamo al Vangelo di Giovanni, ora scocca. È il momento dell’innalzamento sulla croce di Gesù, centro di gravitazione universale, dal quale attirerà tutti a sé.
Infine, la mini-parabola del chicco di grano. Il Vangelo ha di questi paradossi: una lezione sul mistero dell’intera esistenza umana, così complicata, spiegata da un chicco di grano che ha saputo morire. L’accento – ve ne sarete accorti – non è sul morire, ma sul produrre frutto. È una scommessa: perdi la tua vita, cioè la doni e la spendi per gli altri, e la ritrovi piena di frutti, di relazioni, di amori corrisposti. «Se uno mi vuol servire, mi segua; dove sono io – dice Gesù – sarà anche il mio servitore». Questo il messaggio che ci consegna don Mansueto: la compagnia del Signore, la spiga strapiena di chicchi, la vita ritrovata, piena di senso, e il paradiso; il paradiso come lo insegna la Sacra Scrittura, dalle prime pagine alle ultime: nella Genesi è un giardino lussureggiante dove tutto ci sarà donato in abbondanza (cfr. Gn 2,15) e, alla fine, il libro dell’Apocalisse ne parla come di una nuova Gerusalemme, dove Dio asciugherà ogni lacrima, dove non ci sarà più la morte né il dolore (Ap 21,4). Questi testi si esprimono con immagini, non sono reportage, e tuttavia sono assai importanti; tutte le raffigurazioni hanno in comune promesse di gioia, di pace e soprattutto della visione felice di Dio e della comunione con lui per sempre.

Vedremo, ameremo, canteremo (cfr. La città di Dio, XXII, 30).
Vedremo. Vedremo quel volto che abbiamo cercato e desiderato tutta la vita, oggetto talvolta della nostra inquietudine: «Dio dove sei?», altre volte della nostra implorazione: «Mostrami il tuo volto».
Ameremo. Ameremo, perché siamo stati creati per questo. Riconosceremo le relazioni, non più intaccate dall’egoismo, che abbiamo costruito sulla terra, ognuno verso i propri cari, verso il proprio grappolo di vita e di amici, tutti resi capaci di un amore sempre nuovo, perché di amare non si è mai sazi: «Quando dici basta nell’amore, sei finito» (Sant’Agostino, Sermone 169).
Canteremo. Canteremo per la gioia, non ci sarà più limite di tempo e la gratuità non dovrà più guardarsi dai calcoli meschini di quaggiù. Si realizzerà quanto profetò Ben Sirach: «Nel glorificare il Signore, esaltatelo quanto più potete: ne sopravanza sempre; per esaltarlo raccogliete le vostre forze, non stancatevi, perché non finirete mai» (Sir 43,30). Gloria e lode a te Signore Gesù. Per sempre.