Omelia Quarta Domenica di Quaresima

Sante Cresime

Lunano, 30 marzo 2014

 

1Sam 16,1.4.6-7.10-13

Sal 22

Ef 5,8-14

Gv 9,1-41

 

Un cieco qualsiasi lungo la strada… Ci piacerebbe conoscere il suo volto e il suo nome e interrogarlo sul “prima” e sul “dopo” l’incontro con Gesù. Un incontro fortunato, inatteso e risanatore. Gesù gli ha ridato la vista: era cieco dalla nascita. Adesso vede tutto per la prima volta! Una festa per i suoi occhi e per la sua mente. Il suo nome non ci è stato tramandato, forse per dirci che quel cieco è ciascuno di noi; il cieco innominato è l’interprete della nostra condizione umana di non-vedenti. In effetti, vediamo solo quello che è racchiuso dentro l’orizzonte della nostra vista, non riusciamo a vedere oltre. Gli uomini hanno allargato gli orizzonti mediante la tecnologia: il telescopio per le grandi distanze, il microscopio per l’infinitamente piccolo, l’internet per istantanei e planetari collegamenti audio e video…

Ci sono poi messaggi e sentimenti affidati a segni grafici convenzionali. L’analfabeta, benché in buona vista, non può leggerli. Rimangono indecifrati. Chi sa leggere può andare più in profondità decifrando e interpretando. Chi sa leggere può navigare verso altri orizzonti.

Ma c’è, nel cieco che siamo noi, una sete d’infinito; sta affacciato alla finestra del suo cuore e vorrebbe “vedere” il prima e il dopo della sua esistenza. In altre parole: vorrebbe vedere il senso del suo esistere e del suo destino. Questo desiderio struggente è ben espresso dal canto di Giacomo Leopardi, il poeta dell’Infinito.

Gesù si avvicina a noi, cura i nostri occhi e ci permette di vedere “oltre”. Ci fa dono della fede. La fede ci consente di conoscere, di avere lo stesso sguardo di Gesù.

Certo, è una sfida per noi. Dal nostro posto in chiesa fissiamo il Crocifisso: per quanto possa sembrare “incredibile”, la fede ci fa vedere nell’uomo inchiodato alla croce il Signore, rivelatore dell’amore di Dio. Tra poco il sacerdote alzerà l’ostia consacrata: si farà grande silenzio e gli occhi di tutti vedranno, nel dono di un pane spezzato, la presenza del Risorto. Grande dono la fede!

Quando ci riuniamo attorno ad una bara, pur tra le lacrime, intravediamo eternità di vita. La fede ci porta a promuovere e a difendere, se necessario, valori e profezie anche quando sono impopolari. E’ la fede che ci fa considerare la bellezza che c’è nell’ “altro” e non ci fa fermare ai difetti di cui soffre e si duole. Come Dio che non guarda le apparenze, ma vede il cuore. La fede mette ordine nella nostra vita e le ripropone il suo vero senso. Signore, cura la nostra cecità, aumenta la nostra fede!

24 Ore per il Signore

Il perdono di Dio è più forte del Peccato (Papa Francesco)

La Diocesi ha risposto all’iniziativa “24 ore per il Signore” promossa da Papa Francesco, organizzando l’Adorazione e la Confessione dalle ore 17 di VENERDI’ 28 fino alle ore 17 di SABATO 29 MARZO nei tre Vicariati:

VAL FOGLIA E CONCA Nella Chiesa Parrocchiale di PIANDIMELETO

VAL MARECCHIA Nel Santuario del Crocifisso di TALAMELLO

SAN MARINO Nel Santuario del Cuore Immacolato di Maria

 

Presenza dei sacerdoti per le Confessioni

PIANDIMELETO

Dalle ore 17:00 alle ore 20:00 DON FRANCO ALESSANDRINI
Dalle ore 20:00 alle ore 00:00 DON ROUSBELL PARRADO
Dalle ore 00:00 alle ore 06.00 PADRE PIER LUIGI E LA SUA COMUNITÁ
Dalle ore 07:00 alle ore 10:00 DON ALESSANDRO SANTINI
Dalle ore 10:00 alle ore 12:00 DON GRAZIANO CESARINI
Dalle ore 12:00 alle ore 16:00 DON ROUSBELL PARRADO

TALAMELLO

ore 17-18 Don Armando Evangelisti e Don Orazio Paolucci
ore 18-19 P. Andrea Maggioli
ore 19-20 Don Mansueto Fabbri
ore 20-22 Don Sante Celli
ore 22-24 Don Maurizio Farneti
ore 00-01 Don Giuliano Boschetti
ore 01-02 Don Emmanuel Murmu
ore 02-04 Don Andrea Bosio
ore 04-06 P. Giovanni Spadola
ore 06-08 Don Mansueto Fabbri
ore 08-10 Don Giorgio Mercatelli
ore 10-12 Don Luigi Giannotti
ore 12-13 P. Giuseppe Petrisor
ore 13-16 Don Armando Evangelisti

SAN MARINO: VALDRAGONE

IL MEDESIMO SERVIZIO VERRÁ FATTO NEGLI STESSI ORARI E NEGLI STESSI GIORNI NEL SANTUARIO DEL CUORE IMMACOLATO DI MARIA A VALDRAGONE, PRESSO I FRATI MINORI.

 

 

Terza domenica di Quaresima

Basilica di San Marino, 23 marzo 2014

 

Es 17,3-7

Sal 94

Rm 5,1-2.5-8

Gv 4,5-42

 

Strade che si intrecciano attorno a quel pozzo… Gesù, stanco per il lungo cammino, si ferma al pozzo. Anche una donna di Samaria in ricerca scende a quel pozzo. C’è un incontro. Anche gli apostoli e i samaritani si muovono attorno al pozzo presso il quale Giacobbe aveva riunito le dodici tribù.

La nostra meditazione potrebbe prendere il via proprio da queste suggestioni: la strada, il pozzo, l’incontro.

Le strade percorse da questi “cercatori” non sono strade idilliache…

Gesù e i suoi compagni di viaggio sono Galilei fedeli alla liturgia del tempio di Gerusalemme. La donna e i samaritani sono avversari; tra gli uni e gli altri c’è un’antica ostilità e incomprensione.

Gesù è stanco non del ministero, semmai è il ministero che lo ha stancato, affamato e assetato: sono le ore dodici! (allusione ad un altro mezzogiorno: quello del Venerdì santo).

La donna che sopraggiunge al pozzo è vivace, intraprendente, capace di reagire, ma è una donna sconfitta, segnata da una serie di vicende affettive finite male.

Davanti a Gesù, ebreo e maschio, rivendica con orgoglio la propria appartenenza e dice: “Sei forse tu più importante di Abramo?”.

Gesù si presenta in modo semplice: ha bisogno di bere. Non parte da un tema, da una correzione, ma da un suo bisogno che manifesta umanità. E’ un chiedere che è un darsi. Gesù si mette nelle mani di quella donna per coinvolgerla. Ciò che fa partire il cammino è quel “dammi da bere”. Il mostrarsi nella sua fragilità è per Gesù non un ostacolo, ma un punto di partenza. Vale anche per noi: non facciamo mai delle nostre fragilità una scusa per tirarci indietro.

Ancora un dettaglio che rafforza l’atteggiamento umile di Gesù favorendo e facilitando l’incontro: secondo alcuni codici Gesù si mette a sedere “per terra”.

“Se tu conoscessi il dono di Dio”: il dono è Gesù in persona! E’ lui l’acqua viva!

“Acqua viva” è una espressione mutuata dall’Antico Testamento che significa vitalità divina, rivelazione, sapienza. Anche la Torah era salutata come acqua viva.

Adesso davanti alla donna di Samaria c’è l’acqua viva: è Gesù!

Gesù pian piano conduce la Samaritana alla scoperta della sua identità: giudeo, operatore di prodigi, profeta, Messia, inviato del Padre, Salvatore del mondo.

Attraverso l’incontro, la donna è passata dalla chiusura e dal dubbio all’apertura, alla meraviglia, alla fede incerta e, infine, alla piena confessione.

L’anfora rimane sul pozzo perché ci sarà un ritorno, il ritorno della donna e dei samaritani. Che cosa ci dice quell’anfora lasciata presso il pozzo?

Perché Gesù beva? Per dirci che la donna non ha più bisogno d’attingere acqua?

Forse viene lasciata lì per proporci l’esperienza sacramentale, il nostro incontro con la persona viva di Gesù attraverso il sacramento, segno della sua presenza.

Chiunque beve quest’acqua avrà un’acqua che gorgoglia dentro di lui, diventerà lui stesso pozzo d’acqua viva!

Omelia “Venerdì bello”

21 Marzo 2014
Santuario della B.V. delle Grazie di Pennabilli,

Gen 37,3-4.12-13.17-28
Sal 104
Lc 1,26-38

Entriamo in punta di piedi nella casa di Nazaret. Impariamo alla scuola di Maria il raccoglimento, condizione prima e indispensabile per andare in profondità ed ascoltare quello che il Signore vuole dirci.
L’angelo entrò da lei: anche la mia Nazaret, pur fra tante voci che l’attraversano, può essere casa del raccoglimento, spazio formativo, atmosfera spirituale. Un luogo interiore ed un luogo esteriore, vero angolo di preghiera, forse disadorno o col sapore della nostra casa; eppure è lì che Dio mi sfiora. Mi sfiora non solo nelle liturgie solenni della cattedrale, ma anche nel quotidiano più feriale; come nella Messa dove il sublime confina con una tovaglia bianca, con un calice ed un pane. Nazaret è la mia casa!
Nazaret è anche il mio cuore, quando lo custodisco e lo difendo dal chiacchiericcio, dalla impertinenza dei giudizi, dall’invadenza dell’immaginazione.
La prima parola che esce dalla bocca dell’angelo è una parola di gioia: Rallegrati, Maria. Troppo riduttivo tradurre una delle prime parole dell’evangelo con Ave. Le parole del saluto angelico appartengono più alle promesse messianiche che al galateo. Invitano Maria alla gioia prima ancora che si espliciti il dialogo con le sue conseguenze. Non si tratta di una gioia effimera e intimistica. E’ una gioia divina che spiega il senso della sua esistenza. Gioia, dunque, per un amore incondizionato che precede; per una presenza che la rende colma. Allo stesso modo Dio vuole entrare nella nostra vita, vuole abitare la nostra povertà, fecondare la nostra sterilità.
Noi moderni abbiamo qualche difficoltà a situarci di fronte ad un racconto come questo. L’evento non è certo di quelli di cui possa occuparsi la storiografia scientifica: siamo di fronte ad un evento soprannaturale, il Verbo di Dio si fa carne. Non ci interessano le modalità, ma la sostanza dell’evento.
La parlata dell’angelo a Maria è costituita da un rammendo di citazioni bibliche. In questo modo viene svelato alla fanciulla di Nazaret il compimento delle antiche scritture: Dio parla ai piccoli! Ed è ciò che fa prendere coscienza a Maria del suo destino eccezionale e a noi annuncia la vera identità del nascituro. Colui che la fanciulla di Nazaret sta per concepire è il Messia! Dio visita il suo popolo. Non sapremo mai come è avvenuto il concepimento, ma questo non è essenziale: dobbiamo rispettare l’intimità di una donna. Anche nella nostra vita è accaduta un’annunciazione: il Verbo vuol prendere carne in noi. Come Maria gli diciamo: Eccomi!

Educare ai valori e agli affetti autentici

Relatore: dott. Ezio Aceti

Seconda Domenica di Quaresima

San Leo, 16 marzo 2014

 

Gen 12, 1-4

Sal 32

2Tm 1,8-10

Mt 17,1-9

 

Sono pieno di emozione e di trepidazione nell’entrare nella prima sede dei vescovi feretrani, la più alta espressione di arte e di fede esistente nel Montefeltro.

Ma il cuore – cari fratelli – è subito preso dagli eventi naturali che in questi giorni hanno ferito profondamente la montagna di San Leo e le adiacenze della Rocca, tengono in apprensione tutta la città e mettono a dura prova famiglie e istituzioni. Porto insieme alla mia vicinanza, quella dell’intera diocesi. Al signor Sindaco vorrei significare tutta la nostra solidarietà e dare testimonianza per quanto ha fatto e sta facendo con intelligenza e impegno, insieme ai colleghi amministratori, ai tecnici e all’Arma dei Carabinieri, per tenere sotto controllo la situazione.

Siamo raccolti qui insieme per la preghiera gli uni per gli altri, davanti alla Maestà divina.

Siamo qui con delle domande nel cuore: “Signore, che cosa vuoi dirci attraverso questi eventi?”. E poi: “Come vivere da credenti tali prove?”. E come cittadini “come prevedere e prevenire?”. Ci viene ricordato anzitutto di circondare di rispetto e attenzione la natura, questa natura così bella e così fragile. Un dovere di tutti. Ma siamo anche avvertiti che la nostra vita sulla terra è caduca, in balia di mille eventualità e di crolli. “Non abbiamo quaggiù una stabile dimora” (cfr. Ebr 13, 14) – ci ricorda la Parola di Dio. Qui ci siamo di passaggio. Quanto sono stolte le nostre presunzioni e ridicole le nostre meschinità! L’anima credente s’acquieta, propendendosi verso il Regno dei Cieli: “Solo tu, Signore, non passi” (cfr. Sal 102, 27) e cantando le parole del Salmo: “Sei tu la mia roccia e il mio baluardo” (Sal 31, 4).

C’è nei Vangeli un racconto di cronaca nera riferito tempestivamente a Gesù: diciotto persone sono rimaste vittima sotto il crollo di una torre (cfr. Lc 13, 4). Si vuole una presa di posizione da parte sua. Tra gli interlocutori di Gesù, qualche teologo da strapazzo vuol fare il paladino di Dio, quasi che Dio abbia bisogno di un difensore d’ufficio! Cerca colpevoli: “Perché quei diciotto e non altri?”. Ma Gesù va ben oltre: quei malcapitati non erano più peccatori degli altri e gli scampati non i più santi. Non si deve leggere ogni disgrazia come intervento della giustizia divina, ma un’occasione per fare discernimento, per guardarsi dentro e proporsi l’essenziale. “Se suona una campana a morto – diciamo con le parole di un celebre romanziere – non chiederti per chi suona, perché suona per te”! I suoi rintocchi sono altrettanti inviti alla conversione. Un invito che raccogliamo e che diviene sostanza di questa Quaresima, impegnati – come tutta la natura di primavera – ad aprirci ad una vita nuova.

Il Vangelo proclamato in questa seconda domenica di Quaresima ci racconta la trasfigurazione. Mentre Gesù si incammina decisamente verso Gerusalemme, accade il prodigio: “Si trasfigurò davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce” (Mt 17, 2). Di solito si interpreta l’evento come l’aiuto offerto ai discepoli perché non si smarriscano nel tempo della prova. In anticipo verrebbe loro rivelato lo splendore della risurrezione di Gesù dopo la sua morte. Come dire: “Non fuggite; non esitate a seguire il maestro, non perdetevi d’animo; Gesù alla fine vincerà”. Questa non è una interpretazione sbagliata; al contrario, ha valore apologetico e incoraggia anche noi nel cammino penitenziale verso la Pasqua. Tuttavia propongo una interpretazione che tocca più in profondità la nostra vita di fede, più esperienza spirituale che apologetica. La Gloria di Gesù, in tutto il suo splendore, si manifesta mentre sale a

Gerusalemme. E’ dentro al suo donarsi (la decisione di salire a Gerusalemrne) che appare la Gloria. La trasfigurazione, dunque, accade nel presente, sul pendio stesso di quella salita, nella durezza del suo destino. Dunque, in quel “mentre”. Nella trasfigurazione di Gesù c’è la nostra trasfigurazione; proprio nel momento in cui decidiamo di donarci e di spenderci senza riserve, la Gloria prende forma. L’avrete vista, questa Gloria, risplendere sui volti di tante persone che, avvolte dalla Grazia e piene di amore, hanno affrontato le prove. L’ho vista sul volto di madre Teresa di Calcutta quando ebbi la fortuna di incontrarla: un volto scavato dalle rughe, la schiena incurvata, ma gli occhi luminosi. L’ho vista sul volto di padre Roberto, un caro amico, divorato da un cancro ma sempre proteso a vivere l’attimo presente nell’amore, con la chitarra accanto al suo letto. L’ho vista brillare tra le lacrime di mamme e di papà che vivevano nella fede un presente difficile. Dicono che talvolta le lacrime diventano perle!

Venerdì Bello

Omelia per il secondo anniversario della morte di Mons. Agostino Gasperoni

Uffogliano, 12 marzo 2014

 

1Sam 3, 1-10.19-20

Lc 11, 1-13

 

“Quorum laus est in ecclesia Dei” (LG 41)

Con queste parole la Lumen Gentium riconosce ed esalta in tanti sacerdoti l’esercizio della santità. Secondo il progetto di vita che il Concilio suggerisce ai presbiteri: “Pregando e offrendo il sacrificio per la loro gente e per l’intero popolo di Dio in nome del loro ufficio, consapevoli di ciò che compiono e imitando ciò che amministrano senza lasciarsi ostacolare dalle preoccupazioni apostoliche, dai pericoli e dalle tribolazioni, vi sappiano trovare un mezzo per ascendere a più alta santità; nutrano e animino la loro attività con l’abbondanza della contemplazione, a conforto dell’intera Chiesa di Dio”(…). “La loro lode risuona nella Chiesa”.

Sì, questa sera, nel secondo anniversario del suo passaggio da questo mondo al Padre, vogliamo ricordare la figura bella e tanto cara di don Agostino. Diamo lode al Signore e stiamo davanti a Lui come frutto della carità sacerdotale di don Agostino. Esprimiamo gratitudine per l’offerta del suo sacrificio preparato in tanti anni di donazione e di servizio, di studio e di magistero, di solitudine davanti a Dio e di compagnia con i fratelli, a immagine dello scriba evangelico che “estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche” (Mt 13, 52). Compagnia soprattutto con le famiglie, alle quali ha riservato le sue migliori risorse e  la passione per la loro formazione spirituale, pensandole non solo oggetto delle sue cure, ma soggetti di evangelizzazione e di pastorale. La famiglia evangelizza in effetti per quello che è e poi con quello che fa. Non ho avuto occasione di incontrare don Agostino, né ho potuto leggere i suoi scritti. Tuttavia, usurpando il posto che lui ha nei vostri cuori dico: pensate la vostra casa come una piccola Nazaret, la casa di Giuseppe, Maria e Gesù. Di solito si dice che la vita di Gesù a Nazaret fu il tempo della vita nascosta (effettivamente le Scritture non ci raccontano la vita di ogni giorno in quella casa e in quel minuscolo villaggio). Eppure, quei trenta anni sono rivelazione in senso pieno e forte; i trent’anni non sono solo preparazione agli altri tre! Con la sua vita a Nazaret, Gesù annuncia che il Regno di Dio è giunto. Rivela in tutta la sua pregnanza la verità dell’incarnazione (Gesù cresce come crescono i nostri bambini: impara, gioisce, piange, ecc. ); proclama il valore della nostra vita semplice e nascosta al mondo: lavoro, relazioni, fragilità, ecc. ; dice la santità della famiglia, delle relazioni domestiche, luogo per l’esercizio delle virtù: amore, pazienza, laboriosità, servizio.

E’ bella l’esperienza dei gruppi famigliari, è una esperienza da sostenere da parte dei laici, dei sacerdoti e da parte della comunità e della comunità diocesana. Sono famiglie che si mettono in rete, coltivano la spiritualità, coniugano fede, preghiera e vita di casa. Da laboratorio diventano poi portatrici nella Chiesa delle loro esperienze, scoperte e – perché no? – delle loro istanze.

Don Agostino, come il piccolo Samuele, ha ascoltato la voce di Dio che gli ha parlato mediante le Scritture di cui è divenuto appassionato cultore. Don Agostino, come Samuele, “acquistò autorità perché il Signore era con lui, non lasciò andare a vuoto una sola delle sue parole” (1Sam 3,19).

“Ascolta Israele”. È la parola che ogni giorno, più volte al giorno, il pio israelita ripete. “Ascolta”: in un tempo così “parolaio” veniamo ricondotti all’essenziale, alla più semplice delle attitudini, l’ascoltare. Attitudine semplice, ma non facile. L’ascolto vero è possibile quando ci si mette di fronte all’altro facendo il vuoto, essendo “nulla”. L’ascolto non è mera passività. È vuoto d’amore e quindi conquista, mai scontata.

Con la lettura di Luca, questa sera siamo posti davanti alla Preghiera di Gesù. Gesù non si limita a darci regole di preghiera, ma ci vuole coinvolgere nella sua relazione col Padre: “Padre, che sei nei cieli”.

Nella tradizione lucana del Padre Nostro manca il “sia fatta la tua volontà”. Don Agostino biblista ci avrebbe spiegato la differenza con la redazione di Matteo. La “volontà di Dio” come mistero e dono l’abbiamo cantata col salmo responsoriale (Sal 39). Volontà di Dio non sempre facile da comprendere e da accogliere (è mistero!), ma sempre dono perché è la realtà più bella: effusione dell’amore di Dio nei nostri cuori.

La Malattia interroga l’anima – Vivere il morire: aspetti etici del fine vita

S. Em Card. Elio Sgreccia

Omelia della Prima Domenica di Quaresima

Maciano, 9 marzo 2014

Gen 2,7-9; 3,1-7

Sal 50

Rm 5,12-19

Mt 4,1-11

 

“Militia est vita hominis super terram” (Gb 7, 1)

Ci sono le tentazioni: e chi non ne subisce! E c’è la “tentazione”, cioè la prova radicale della fede.

Le tentazioni si affacciano sugli ambiti più disparati della nostra vita. Guai andarle a cercare o mettersi nell’occasione prossima. Si può cadere! Meglio non presumere delle proprie forze. Tuttavia, sono inevitabili; per questo preghiamo “non indurci in tentazione ma liberaci dal male”. Le tentazioni sono, tuttavia, occasioni di crescita e di maturazione, di rafforzamento e di umile conoscenza di sé. Ci offrono l’opportunità di riaffermare la nostra fedeltà alla volontà di Dio e di vivere i “no” come altrettanti “sì” a Lui. Chi intraprende – come stiamo facendo con questa Quaresima – un serio cammino di fede e di conversione deve mettere in conto la prova. Le tentazioni non sono peccato, possono essere perfino un segnale che siamo sulla strada buona. Comunque, mai il Signore permette che siamo tentati oltre le nostre forze (cfr. 1Cor 10,13).Nelle prove sempre ci soccorre. I maestri spirituali insegnano non solo a non metterci nelle occasioni, ma a confidare le nostre prove ad una guida spirituale.

Ma la liturgia di oggi vuol metterci di fronte alla “tentazione”, prova radicale della fede, davanti alla quale si sono trovati i progenitori (come abbiamo sentito nella prima lettura), il popolo di Israele nel cammino dell’esodo e lo stesso Gesù. La “tentazione radicale” consiste nella tentazione di non fidarsi del Padre, nel pensare di essere soli davanti alla vita e, pertanto, consiste nel sussurrare al proprio cuore: “Se non penso io a me stesso, chi provvede?”. L’esito può essere quello della disperazione o quello dell’orgoglio e dell’autosufficienza, del non fidarsi e del bastare a se stessi.

I progenitori hanno ceduto alle insinuazioni del diavolo ed hanno steso la mano sul frutto proibito: presunzione di essere come Dio, di fare da soli, di “essere Dio”.

Il racconto delle tentazioni di Gesù secondo Matteo ha analogie impressionanti con le vicende dell’Esodo. Gesù è presentato come il vero Israele, il vero Mosè. L’analisi del testo non fa che confermare questo. Lo Spirito conduce Gesù nel deserto per essere provato. Anche Israele: “Dio lo condusse nel deserto alla prova, per educarlo come un padre educa il figlio” (Deut 8, 2-5). Il Deuteronomio aggiunge: “per quaranta anni”. Ad essi si riferisce Matteo con i suoi quaranta giorni, ben conoscendo il testo di Numeri 14, 34: “Per quaranta anni sconterete le vostre colpe, in base ai quaranta giorni che avete impiegato ad esplorare la terra. Ogni giorno conta un anno”. Il libro del Deuteronomio è un grande commento teologico all’esodo di Israele, soprattutto vuol dimostrare che il fallimento del popolo nel deserto è dovuto alla sua mancanza di fiducia in Dio. Dal Deuteronomio Matteo trae le citazioni con cui Gesù combatte le tre tentazioni. Nella prima, Satana mette Gesù nella stessa situazione di Israele: il popolo si lamenta perché ha fame. Israele non supera la prova, Gesù invece ne esce vittorioso: “L’uomo non vive di solo pane”. Nel suo deserto Gesù accoglie la volontà del Padre su di lui; vive della sua Parola.

Nella seconda, Gesù è tentato di compiere un prodigio spericolato, sensazionale e teatrale che lo accrediti come prestigioso Messia davanti alla folla attonita. Anche Israele a Massa, nel deserto, voleva costringere il Signore a compiere uno spettacolare prodigio. Per questo motivo Deuteronomio 6,16 ammoniva: “Non tenterete il Signore”. Gesù, a differenza di Israele, supera anche questa seconda prova. Sarà Messia, ma come vuole il Padre; un messia umile, sofferente, servo. “Gettati giù”: sembra il massimo della fede e invece ne è la caricatura perchè la ricerca di un Dio magico a proprio servizio. Satana è seduttivo; sembra voler aiutare Gesù “a fare il Messia”. La gente è sempre assetata di miracoli!

Anche la terza tentazione ricorda Israele: prima di entrare nella Terra era stato messo in guardia dall’idolatria. Ma Israele fallì, non ebbe fede in quel Dio che non vuole spartire con alcuno la fiducia del suo popolo. Gesù invece esce definitivamente vittorioso. Egli ha totale fiducia nel Padre. Diventerà il Signore del mondo, ma come il Padre vuole e per la via della croce, non in modo “disobbediente” e per facili scorciatoie. Il Padre sarà sempre con Lui. Gesù esce dal combattimento non solo indenne, ma vincitore. Non si è lasciato separare dalla volontà di Dio. In fondo Satana dice: “Vuoi cambiare il mondo con l’amore? Sei un illuso!”. La strada che seguirà Gesù non sarà mai quella del ricatto, della seduzione, del potere. In questa ottica cristologica e messianica il racconto acquista tutto il suo valore pedagogico per la Chiesa e per tutti noi che dobbiamo, in fondo, misurarci con la stessa tentazione: non fidarsi.