Conferenza Stampa giovedì 18 Giugno 2015 ore 11,30

“Presentazione Giornata di Riflessione e Preghiera in occasione della festa di San Tommaso Moro

Inaugurazione chiosco tana libera tutti

Periodico Montefeltro Giugno 2015

Omelia Solennità del Corpus Domini

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Castello di Montemaggio, 7 giugno 2015

 

Carissimi,
chissà perché solo a sentir parlare di messa proviamo un senso di noia. Capisco i ragazzi; ma noi adulti…
Dobbiamo ammettere che talvolta il modo di celebrare, il tono delle omelie, le ripetizioni, la pressione delle preoccupazioni personali posso­no condizionare negativamente. Ma al fondo del­la nostra difficoltà forse sta un’idea sbagliata della messa. Si pensa alla messa come ad un pesante contenitore di preghiere, lungo un’ora (quando va bene!). Un obbligo da assolvere in compagnia di sconosciuti, in un ambiente torrido d’estate e geli­do d’inverno. Un contenitore di preghiere com­plesse, estranee al linguaggio corrente, accompa­gnate da una gestualità lontana e ieratica. Preghiere che altri ci mettono sulle labbra (noi avrem­mo in cuore ben altro da dire al Signore) e a cui dobbiamo rispondere con formule stilizzate: “e con il tuo spirito”, “amen”, “Deo gratias”.
No! la messa non è un contenitore di pre­ghiere.
Se vogliamo “entrarci” consideriamola un avvenimento.
Durante la messa succede qualcosa.
Andiamo subito al centro del­l’avvenimento. La messa si apre con i “riti d’inizio”, servono alla pre­parazione dei partecipanti con umile riconosci­mento della comune condizione di peccatori.
Per prima incontriamo la liturgia della Parola, così viene chiamata la lettura ed il commento ai brani biblici, immancabili in ogni celebrazione. La messa ha – per così dire – una duplice mensa: quella in cui si spezza il pane della Parola e quella in cui si spezza il pane eucaristico (cfr. Sacrosanctum Concilium).
La messa ha una sua logica, un suo sviluppo ed una sua dinamica. Ho conosciuto persone che andavano a “prendere messa” (come dicono loro impropriamente) nel Duomo dove le messe si susseguono una dopo l’altra. Ne prendono metà dalla celebrazione precedente e proseguono con la successiva, come fa chi va al cinema a partire dal secondo tempo. Ma nella messa non siamo spettatori. Partecipiamo. Preoccupiamoci delle “cose da fare”. Incominciamo col mettere sull’altare il nostro vis­suto, le nostre giornate, la cesta colma delle fatiche e delle gioie: il pane ed il vino che il sacerdote sta per offrire ne sono il simbolo. Perché quest’operazione non sia generica diamo un nome preciso a quello che offriamo. Questo è il momento dell’offertorio.
Dopo il canto dell’ “Osanna a Colui che vie­ne” (o “Santo”) siamo coinvolti in un racconto che da duemila anni i cristiani ripetono con assolu­ta fedeltà. È incredibile come, nell’era degli spot, della tele-comunicazione, il racconto non abbia perso la sua forza. Ce ne accorgiamo (lo sentiamo e lo vediamo) guardandoci attorno: un’assemblea s’ingi­nocchia, si raccoglie in un profondo silenzio (non lo guasta neppure lo strillo improvviso di un bimbo!); il sacerdote si china e sussurra: “La notte in cui Gesù fu tradito, prese il pane, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli e disse: pren­dete e mangiate questo è il mio corpo dato per voi…”. Il racconto prosegue. Il pane ed il vino vengono presentati all’assemblea. Anche un amico non cristiano sospetterebbe che è accaduto qualcosa di grande. Il cristiano ha la fortuna di sapere che Gesù si è fatto presente nel dono di quel pane spezzato. È il momento della consacrazione.
Un miracolo? Di più. In quel gesto è ripresen­tata, resa attuale e sintetizzata tutta la vicenda di Gesù Figlio di Dio incarnato, che condivide la nostra vita e ci fa dono della sua (solo un sacra­mento può realizzare efficacemente questo miste­ro e renderci contemporanei ad esso).
Il racconto suscita, ogni volta, stupore. Coinvolge: ecco, veniamo rapiti in un movimento ascensionale che ci trasporta nel seno del Padre. Siamo collocati nel “sì” che Gesù ha detto al Padre. Non è il momento di abbassare gli occhi sulle nostre infedeltà e sui nostri peccati. Fissiamo l’ostia e il calice che il celebrante innalza sull’altare più che può. Consideriamo con quanta forza lo Spirito Santo – “Amore effuso nei cuori” (cfr. Rm 5,5), così i primi cristia­ni chiamavano la terza Divina Persona) – ci fon­da con Gesù e ci sospinga come fa il vento che gonfia una vela. Dobbiamo solo dire – anzi, cantare – “amen!”. La nostra adesione intercetta e si unisce a quella di un popolo intero: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e glo­ria per tutti i secoli dei secoli”.
Il fiato che esce dai nostri polmoni e si fa can­to è risonanza dello Spirito. E siamo voce di ogni creatura. Questo è un momento centrale della messa, a volte scivola via e ci sfugge: è il momento della dossologia.
Ho visto in una chiesa un pregevole bassorilievo in marmo bianco. Vi è scolpito un pellicano che si squarcia il petto per nutrire di sé i suoi piccoli.
Fin dall’antichità il pellicano è simbolo euca­ristico. Un inno medievale (autore Tommaso d’Acquino) canta così: “Pie pellicane, Jesu Domine”. Gesù ci nutre di sé; disponibile per saziare la nostra fame. Fame di che cosa se non di lui, pane vivo disceso dal cielo (cfr. Gv 6,51)?
Siamo al momento tanto atteso e desiderato della comunione. Ci si preparare pensando e considerando a chi si va a ricevere (a questo serve anche l’ora di digiuno richiesta prima della comunione) ed essendo in comunione autentica con il Signore (nella sua grazia). Dovremmo stimare tanto la Comunione da detestare il peccato e le sue false promesse. Conosciamo la fatica di sbarazzarsi del peccato. Ci hanno insegnato, tuttavia, che non è il peccato a tenerci lontano da Gesù, ma il non volerci riconciliare con lui. Il perdono di Gesù ogni volta sor­prende, turba, disarma, converte, conquista, abbraccia, fa crescere…
A Dio importa molto anche di chi, in que­sto momento della vita, forse, non può accostarsi al sacramento, ma, intanto, può fare comunione con la parola di Gesù e con lui nel fratello. E questo non è davvero poco.
Ci pare poco?
 

Solennità del Corpus Domini a San Marino

C’è un popolo che esce festante per le vie della città. Porta con solennità un Pane. Per la fede in Colui che in quel pane è presente canta la sua gioia al “Dio con noi”, come Davide davanti all’Arca dice: “Davanti a Jahvè io danzo”!
Ma qualcuno potrebbe paragonare la processione al cammino delle tribù di Israele attorno alle mura di Gerico: fu per conquistare quella città.
In verità, questo popolo che esce con il Santissimo Sacramento dell’Eucaristia è mosso da una sincera e profonda “cortesia”: vuole col suo passaggio benedire la città, le sue istituzioni, le sue attività. Portare il Corpo di Cristo tra le case è un “dire bene” della vita, della famiglia, del lavoro, della scuola, della relazione, ecc.
Non è di questo popolo la strategia della fuga dalla città e tanto meno la strategia dell’aggressione. Semmai, la sua strategia è quella della presenza per collaborare, costruire, migliorare, ricominciare, se è necessario.
È festa della Visitazione: Dio visita il suo popolo.
Sì, percorriamo la città per aiutarci a cogliere tutta la dimensione pubblica e sociale della nostra fede e per aiutarci a stabilire rapporti tra la nostra fede ed i problemi dei fratelli e del mondo. Ciò esige per noi di rivedere il nostro rapporto col mondo, rapporto che oggi non può che essere un rapporto missionario: di una missionarietà soave e forte insieme, soave nella bontà del dialogo, rispettosa e amante delle persone; forte nella consapevolezza dell’identità del dono a noi fatto e della coerenza necessaria per custodirlo, difenderlo e diffonderlo.
Dio ci benedica.

Omelia e Processione per il Corpus Domini a San Marino

Basilica di San Marino, 4 giugno 2015

Omelia

Domenica scorsa una ragazza “ha preso il velo”, cioè si è consacrata al Signore nel monastero delle Adoratrici, Adoratrici del SS. Sacramento perennemente esposto nella loro chiesa. Ho partecipato al rito con una profonda commozione. Ho preso la parola concludendo più o meno così: “Suor Annunziata con la dedicazione della sua vita all’Eucaristia testimonia come sia grande questo sacramento. Per esso vale la pena spendere tutta una vita. L’Eucaristia è il bene più prezioso che abbiamo e per il quale non basta una vita intera per capirlo, adorarlo, amarlo…”.
Suor Annunziata è una provocazione per noi: siamo chiamati a fare dell’Eucaristia il centro della nostra vita, la fonte e il culmine della vita delle nostre comunità, l’abisso senza fondo della corrispondenza amorosa tra noi e il Signore.
Sull’altare, in quel pane e in quel vino, Gesù non è presente in un qualche modo, ma come corpo spezzato e sangue versato. Quando leviamo i nostri occhi verso l’ostia contempliamo il corpo di un uomo “spezzato e versato”, che cioè si dona per gli amici e che non risparmia nulla per sé.
E poiché l’Eucaristia ci fa un solo corpo con Gesù, quando diciamo le parole: “Questo è il mio corpo dato per voi… Questo è il mio sangue versato per tutti…” le diciamo di Cristo, ma le diciamo anche di noi stessi.
L’Eucaristia è pericolosa, perché ci rimette in discussione: il Corpo di Cristo contesta il nostro modo gretto di vivere, le attenzioni meticolose per il nostro corpo, il nostro istinto al risparmio della fatica, la nostra abitudine a spenderci col bilancino.
L’Eucaristia è un rischio, perché ci fa promettere di vivere un’esistenza donata: “Mangiatemi pure, consumatemi, usatemi. Il mio Corpo – dice il discepolo come il suo maestro Gesù – non è mio, è per voi. Le mie energie, il mio tempo, è a vostra disposizione”.
Con la Comunione riceviamo il Signore, la sua mentalità e la sua forza per vivere come lui. In lui il nuovo umanesimo!

Monizione per la processione

Perché una città interrompe la sua routine – come fa San Marino – per celebrare il Corpus Domini? Perché è un’antica tradizione? Ancora oggi suscita curiosità e viene osservata dai turisti come folclore. Questo ci indispettisce, ma saremmo dispiaciuti se la città rifiutasse questo segno esterno. Noi diciamo: non una fede senza festa.
Confrontando col passato, oggi la città ci appare piuttosto spopolata. Essa è il luogo del lavoro, dello stress, della fatica e nel “dì di festa” c’è chi esce per qualche ora di vacanza.
La nostra città di San Marino conosce però anche l’abbandono – soprattutto nel centro storico – dei tanti che cercano altrove lavoro e sistemazione. Tuttavia la città saluta la festa del Corpus Domini anche come occasione di una pausa a metà settimana, quando l’estate fa sentire le prime vampe di calore. Ci viene da osservare: ma è festa senza fede?
C’è un popolo che esce festante per le vie della città. Porta con solennità un Pane. Per la fede in Colui che in quel pane è presente canta la sua gioia al “Dio con noi”, come Davide che dice: “Davanti a Jahvè io danzo”!
Qualcuno potrebbe paragonare la processione al cammino delle tribù di Israele attorno alle mura di Gerico: fu per conquistare quella città.
In verità, questo popolo che esce con il Santissimo Sacramento dell’Eucaristia è mosso da una sincera e profonda “cortesia”: vuole col suo passaggio benedire la città, le sue istituzioni, le sue attività. Portare il Corpo di Cristo tra le case è un “dire bene” della vita, della famiglia, del lavoro, della scuola, della relazione, ecc.
Non è di questo popolo la strategia della fuga dalla città e tanto meno la strategia dell’aggressione. Semmai, la sua strategia è quella della presenza per collaborare, costruire, migliorare, ricominciare, se è necessario.
È festa della Visitazione: Dio visita il suo popolo.
Sì, percorriamo la città per aiutarci a cogliere tutta la dimensione pubblica e sociale della nostra fede e per aiutarci a stabilire rapporti tra la nostra fede ed i problemi dei fratelli e del mondo. Ciò esige per noi di rivedere il nostro rapporto col mondo, che oggi non può che essere missionario: di una missionarietà soave e forte insieme, soave nella bontà del dialogo, rispettosa e amante delle persone; forte nella consapevolezza dell’identità del dono a noi fatto e della coerenza necessaria per custodirlo, difenderlo e diffonderlo.
Dio ci benedica.