Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Cattedrale di Pennabilli, 3 ottobre 2015
1. «Certo, se vi sono delle buone pecore vi saranno anche buoni pastori, perché dalle pecore si formano i buoni pastori». Sant’Agostino ci riporta al cuore della questione vocazionale. Signore, come possiamo essere buone pecore? Cosa ti attendi da noi? Ce lo chiediamo con schiettezza: qual è il punto critico nel rapporto della nostra comunità, e di ciascuno di noi, con la proposta cristiana? Il nodo centrale è la fede: incontro, adesione, consegna di sé alla persona di Gesù Cristo; conoscenza del suo mistero e slancio nella sequela: da chi andremo Signore, tu solo hai parole di vita eterna. Facciamo abbastanza per conoscerlo e farlo conoscere?
Una comunità di cuori credenti ha grande considerazione per le cose di Dio, anzi per l’unica cosa necessaria (ricordate Gesù a Marta…). Un gregge così tiene in grande stima il prete, l’uomo che si mette a servizio del Vangelo, gioca la sua vita per essere strumento della grazia e si mette a disposizione come animatore e guida dei suoi fratelli. E noi, coltiviamo il germe della fede? Ragioniamo col pensiero di Cristo? Cerchiamo le cose di lassù? Da un gregge che si dà questi criteri di vita vengono buoni pastori. La messe è grande, ormai biondeggia. Il Signore chiama operai. Preghiamo perché vi siano risposte generose: per la nostra Chiesa e per il mondo. Si lavora per la pace ed è necessario, ci si impegna nel volontariato ed è bello, ci si interessa di cittadinanza ed è doveroso, ma chi pensa alla salvezza delle anime?
2. «Ma tutti i buoni pastori – continua Sant’Agostino – si identificano con la persona di uno solo, sono una sola cosa. In essi che pascolano è Cristo che pascola». Tra poco don Pier Luigi sarà pastore, ma alla maniera di Cristo.
Permettete una breve meditazione sul sacerdozio di Cristo, sacerdote nuovo. Nell’Antico Testamento c’è un popolo scelto fra tutti i popoli, particolare proprietà del Signore, separato per una destinazione sacerdotale. Dalle dodici tribù di Israele viene separata la tribù di Levi, incaricata del culto del Signore. Dalla tribù di Levi viene presa una famiglia per il Santuario: una volta all’anno il sommo sacerdote vi immola l’agnello (non può il sommo sacerdote candidare se stesso per l’offerta), e l’agnello, mediante la consumazione col fuoco, viene sacrificato. Dall’altare sale una tenue nube tra i profumi dell’incenso. Notate questo procedere per successive separazioni e distacchi; una struttura liturgica piramidale che si slancia verso l’alto arrivando ad offrire nient’altro che la propria inadeguatezza. Dio rimane oltre, al di là nella sua trascendenza: la liturgia dell’Antico Testamento celebra questo. Il sacerdozio antico rimane rituale, formale, esteriore. Confrontiamolo col sacerdozio di Gesù. È su una linea opposta, discendente, inclusiva; procede dall’alto verso il basso per successivi abbracci verso una unità sempre più forte. Il Verbo si incarna: nell’unica persona di Gesù Cristo, natura divina e natura umana sono inseparabilmente unite. Gesù, Verbo incarnato, vive la vicenda umana fino in fondo nella quotidianità di Nazaret condividendo con noi lavoro, fatiche, incontri, amicizie… Poi viene il tempo del suo cammino verso Gerusalemme fino a fare suo il dolore innocente, assumendo la sofferenza e ciò che c’è di più umano, il peccato. Sulla croce sembra toccare il vertice del suo sacerdozio; nel totale svuotamento di sé e nella radicale obbedienza al disegno del Padre si fa dono per l’umanità. «Tutto è compiuto»: sacerdote, altare e vittima; una liturgia in spirito e verità, esistenziale, personale.
3. La risurrezione stessa è un abbraccio. Un abbraccio totale. Nell’Uomo Gesù è iniziata la divinizzazione di tutta la realtà mediante l’effusione dello Spirito. Cose da capogiro, eppure così vicine, cose grandi, ma fatte proprio per noi. Nell’Eucaristia egli continua a donarsi e farsi uno con noi: un pugno di farina impastata nell’acqua, una coppa di vino, diventano sua presenza: «Prendimi, mangiami, bevimi».
C’è dichiarazione d’amore che può spingersi oltre?
Ma non siamo ancora al capolinea. Al fondo di questo abbassamento del Figlio di Dio per unire a sé il mondo ed offrirlo al Padre c’è un ultimo passo: il Signore Gesù dona il suo stesso donarsi.
Caro don Pier Luigi, si colloca qui il tuo sacerdozio, il Signore ti prende perché tu sii una sua presenza, ti cede la sua volontà di donarsi, consegna il suo “io” alle tue labbra. Potrai dire “io ti assolvo…”, “questo è il mio corpo”… Credilo ogni volta che sali sull’altare, vivilo nel quotidiano dono di te. Vita che si fa liturgia. Prestagli le tue mani, i tuoi piedi, il tuo cuore, la tua intelligenza, la tua umanità.
Altissima dignità, ma il prete è sempre un uomo. Un angelo non può essere sacerdote. Azzardo: è stato forse limitato il ministero di Gesù per il fatto che era uomo? Il prete è della stessa creta di cui è fatta l’umanità. Anche dopo la sacra ordinazione continuerai, come tutti, a sentirti fragile, inadeguato, peccatore. Dio non ha orrore degli uomini, al contrario, fa passare la sua grazia attraverso loro. Il prete balbetta appena; eppure Dio gli ordina di parlare. Rimane sempre un apprendista. Il prete è la persona più potente sulla terra perché pronuncia parole creatrici: “Io ti battezzo”; “Io ti assolvo”; “Questo è il mio corpo”… Eppure è l’uomo più povero perché queste non sono parole sue. È Gesù il buon pastore: guardalo don Pier Luigi. Considera lo Spirito Santo che effonde su di te consacrandoti con l’unzione e abilitandoti a compiere le opere del Messia e a proclamare l’anno di misericordia.