Omelia nella Celebrazione eucaristica in occasione del Convegno liturgico diocesano

Valdragone (Casa San Giuseppe, RSM), 27 ottobre 2019

(da registrazione)

Sir 35,15-17.20-22
Sal 33
2Tm 4,6-8.16-18
Lc 18,9-14

C’è una cosa che apprezzo in tutt’e due i protagonisti della parabola narrata da Gesù, il fariseo e il pubblicano: decidono di salire al tempio. Fuori di metafora, decidono di pregare, preparano la preghiera. Penso che la maggior parte della nostra preghiera sia decisa dalla preparazione. Quei due amici che salgono al tempio sono d’esempio per ciascuno di noi, ci insegnano a preparare la nostra preghiera. Ricordo che una volta accompagnai i seminaristi ad un ritiro con padre Andrea Gasparino, che negli anni ‘70 era un grande maestro spirituale. Lui parlò dell’importanza della preparazione della preghiera. Prima di fare la prima meditazione lasciò passare un giorno intero, perché fossimo in grado di accoglierla.
Il problema è come si esce dal tempio. Vediamo due esiti. Il pubblicano entra col peso dei suoi peccati, si mette davanti al Signore e non parla di sé, perché sa che è perdente in partenza. Alza lo sguardo da sé e lo mette tutto in colui che gli sta di fronte, il Signore. Il suo cuore è aperto e il Signore può infondere tutta la sua misericordia. Torna a casa diverso, cambiato, trasformato. Il fariseo, invece, va davanti a Dio pieno di sé, esibendo la bontà di tutte le sue opere. Parte bene, intona un solenne “Te deum”, ma non riesce a lasciare da parte il suo io, così ingombrante. Me lo figuro come una persona austera, santa, che faceva penitenze, mentre il pubblicano gozzovigliava e faceva la cresta sulle imposte, a servizio dei Romani.
Concludo con un testo che lessi alcuni anni fa, di una mistica palestinese, Myriam Bouardy. Myriam riferisce che in una sua esperienza soprannaturale si era trovata all’inferno. Con suo grande stupore aveva visto persone che avevano praticato la castità, persone impegnate nel sociale, liturgisti… Mancava loro l’umiltà. Il Signore, poi, l’ha trasportata in paradiso. Myriam era inorridita, perché aveva incontrato chi era stato un bevitore, chi un bestemmiatore… Ma aveva visto una cosa che non c’era all’inferno: l’umiltà. Sia lodato Gesù Cristo.

Introduzione al Convegno liturgico-pastorale “La nascita dell’uomo nuovo”

Valdragone (RSM), 27 ottobre 2019

(da registrazione)

Carissimi,
siamo gente di Pasqua! Accogliendovi, stamattina, sulla soglia di Casa San Giuseppe ho pensato con tanta gratitudine a voi, a quello che fate nelle vostre comunità parrocchiali, a quello che siete. Anzitutto, vorrei dire che questo Convegno è un regalo fatto personalmente a ciascuno di voi. Per organizzare un Convegno non basta telefonare a qualche relatore; dietro c’è tutta una riflessione, che comprende anche la decisione di invitare dei maestri di questo taglio, con queste idee e con questo stile.
Non dimentichiamo che siamo qui di domenica; il nostro pensiero va sicuramente alle nostre comunità e ai nostri parroci. Quello che stiamo facendo questa mattina non è tempo sottratto a loro (qualcuno forse lo pensa). In verità, questo tempo che dedicate allo studio e all’incontro tra voi è assolutamente un guadagno per tutti.
Questo Convegno è il primo che apre l’anno pastorale e ad esso è affidato il tema del cammino del Programma pastorale biennale kerygma-battesimo.
Vorrei consegnarvi tre piccole riflessioni, quasi tre post-it.
Non sono intenzionato a fare rivendicazioni, ma riconosco la preziosità delle donne nella catechesi, nella carità, ma anche nella liturgia, come ministri straordinari della Comunione. Vedo le donne dentro al mistero della morte e risurrezione di Cristo. Lasciamo da parte il “sarcasmo catechistico”, maschilista, col quale si dice: «Perché Gesù ha affidato il primo annuncio alle donne? Perché si propagasse più in fretta!». In verità, il Signore ha affidato alle donne l’inizio della vita nuova, come affida loro la vita nel suo momento più bisognoso di cure. Nei Vangeli vediamo Maria di Magdala, la prima a cui il Risorto si manifesta, che va subito a misurarsi con lo scetticismo degli apostoli: «Quando intesero che Gesù era vivo e che lei lo aveva visto, si rifiutarono di credere». Maria è la donna che versò tutto l’olio profumato sui capelli di Gesù, un olio costosissimo, al punto che ricevette il rimprovero dagli uomini per il grande spreco. Gesù invece ha saputo apprezzare il gesto profetico della donna in vista della sua sepoltura (cfr. Gv 12). Sono le donne che compiono le ultime cure al corpo di Gesù, con la preparazione degli aromi. Passato il sabato, tornano al sepolcro per completare quel gesto di pietà: si chiamavano mirofore, le donne portatrici del profumo. Invece, per Giuseppe di Arimatea e per Nicodemo, il seppellimento era definitivo: ci han messo una pietra sopra! Dunque, le donne hanno saputo dare una lezione di fedeltà e di coraggio, al contrario degli apostoli, che stanno chiusi “a doppia mandata” nel cenacolo.

Vi confido questa suggestione (non corretta teologicamente). Si dice: «Che miracolo la risurrezione di Cristo!», ma, a dire il vero, mi sembra più un miracolo la sua morte. Trovo ovvio che il Figlio di Dio non venga ingoiato dalla morte e che risplenda vincitore nella sua potenza, ma non trovo ovvio che lui, il Figlio di Dio fatto uomo, passi veramente nella morte. Questo è un miracolo per me. Però morte e vita in Gesù sono un unico mistero. Ebbene, noi abbiamo disponibile questo mistero: Gesù Risorto è in mezzo a noi si rende disponibile nel sacramento nel quale lui ci dona la sua vittoria, in cui egli prende su di sé la nostra mortalità e ci apre il traguardo della risurrezione: il Battesimo. Oggi approfondiremo questo sacramento e sarà bellissimo poter bere a questo fiume. Ricordo un proverbio africano: «Quando uno beve al torrente a cosa pensa? Pensa alla sorgente». Dal cuore di Gesù squarciato sulla croce esce questo fiume che poi si moltiplica in milioni e miliardi di rivoli: il Battesimo che ci ha uniti a lui morto e risorto.

Avrete notato che, nei Vangeli della risurrezione, Gesù Risorto inizialmente non viene riconosciuto; un po’ perché è incredibile per un essere umano che un morto torni a vivere, ma c’è dell’altro. Persino Maria di Magdala, innamoratissima di Gesù, lo scambia per il giardiniere; i discepoli di Emmaus fanno strada con lui, lo sentono parlare, ma non lo riconoscono; così anche i pescatori sul lago, i sette apostoli che erano scappati in Galilea anziché restare a Gerusalemme. In tutt’e tre gli episodi quando Gesù parla gli occhi si aprono. A Maria di Magdala Gesù dice una parola dolcissima: «Maria!». Ai discepoli di Emmaus spiega le Sacre Scritture e il loro cuore gli “ardeva nel petto”. Ai pescatori disse: «Gettate la rete dalla parte destra» e tutto cambiò.
Quando leggiamo la Parola di Dio e ci impegniamo a viverla, nasce in cuore la certezza che Gesù cammina con noi, vediamo delle grazie attorno a noi, riconosciamo Gesù. Non soltanto, vivendo la Parola ci accorgiamo di essere capaci di perdono e, con le sole nostre forze, dobbiamo ammettere che non ce la facciamo a vincere le tentazioni, a continuare a donarci, a spenderci. Lo possiamo solo con la forza della Parola. A volte è una “parola” che ci accompagna durante la settimana, altre volte c’è una situazione che ci fa venire in mente una frase del Vangelo; ad esempio, può capitare si sentirsi stanchi e viene in mente di smettere di donarsi, visto che nessuno se ne accorge attorno a noi; in quel momento viene in mente la parola di Gesù: «C’è più gioia a dare che a ricevere». Questa produce degli effetti, proprio come il sacramento. Parola e sacramento insieme ci trasformano.
Auguri di buon lavoro!

Omelia XXX domenica del Tempo Ordinario

Maciano, 26 ottobre 2019

(da registrazione)

25° anniversario di ordinazione presbiterale
di don Maurizio Farneti

Sir 35,15-17.20-22
Sal 33
2Tm 4,6-8.16-18
Lc 18,9-14

Gesù ci racconta una parabola per chiarire la situazione di alcuni, che sono convinti d’esser giusti e disprezzano gli altri. Dunque, la domanda che ciascuno dovrebbe rivolgersi è: «Come sto davanti a Dio?». Gesù, come un abile cameraman, fa una “zoomata” su due personaggi, due uomini che salgono al tempio per la preghiera (il tempio di Gerusalemme, il luogo – dice la Bibbia – dove Dio ha scelto di far abitare il suo nome). Il tempio era luogo privilegiato per l’incontro con Dio, come lo sono oggi le nostre chiese.
Ogni volta che salgo al tempio, cioè alla chiesa, mi rivolgo al Signore dicendo: «Salgo per te? O sono forse vittima dell’abitudine? In chiesa parlo, mi distraggo, penso ad altro?». In chiesa si viene per prendere posto sotto la coperta della preghiera, una coperta sempre troppo corta: o ci si scoprono i piedi (fuori di metafora, si han tante cose da fare) o ci si scoprono le spalle.
In quale dei due protagonisti ci rivediamo?
Il fariseo, eretto, prega in se stesso, si prega addosso. Il centro della sua preghiera non è il Signore, ma lui. Si avvicina a Dio per attirare l’attenzione di Dio su di sé, per farsi ammirare. Il fariseo ha condotto e conduce una vita onesta, osserva le leggi, non smette nella preghiera di elencare tutte le sue opere, sembra uno che intona un solenne “Te Deum”. Parla molto il fariseo, ma unicamente di se stesso. Non si preoccupa di ascoltare il Signore, è soddisfatto di sé, non ha bisogno del Signore. E così se ne torna a casa tale e quale era uscito. Non c’è rinnovamento nella sua vita spirituale. In chiesa ha portato solo la sua vanità.
L’altro personaggio, il pubblicano, si tiene a distanza. Sa che non ha nulla da offrire al Signore. Riconosce i suoi sbagli. Il suo atteggiamento esprime la sua fede. Anche se non osa alzare gli occhi al Cielo, Dio gli è vicino e il suo cuore è rivolto a Dio, non verso se stesso. La sua preghiera, trapuntata di pochissime parole, manifesta la consapevolezza del suo stato ed esprime la sua fiducia nella bontà del Signore. «Mio Dio, abbi pietà del peccatore che sono» (cfr. Lc 18,13). Risultato: è diventato un altro uomo. È un altro uomo, effettivamente, quello che esce dal tempio. Torna a casa sua “aggiustato”, cioè reso giusto, da Dio. È diventato suo amico, ridiventato figlio.
Diciamo grazie al Signore, perché attraverso questi due personaggi ci insegna la vera preghiera e attira la nostra attenzione verso la sua presenza, che è più importante del nostro “io” così ingombrante. «Signore, tu sei nelle nostre chiese, ci inviti e ci attendi, prepari per noi la tavola della tua Parola e quella del tuo pane, l’Eucaristia, che ci mostra il tuo amore senza condizioni, il tuo cuore sempre spalancato verso chi si avvicina a te».
«Questa sera, Signore, ci riempi di gioia per il dono di un tuo sacerdote tra noi, don Maurizio. È tuo e lo dai a noi come segno della tua premura di buon pastore».
Don Maurizio ricorda, insieme con noi, venticinque anni di ministero; ministero tra i giovani, per tanti anni, e poi in diverse comunità, con tante responsabilità diocesane, e qui, ora, in mezzo a noi. Mi sembra di trovare nei venticinque anni del ministero di don Maurizio, come un filo d’oro che li congiunge. È il pensiero ricorrente di considerarsi un discepolo al quale Gesù ha affidato il suo stesso donarsi, fino a percepire il brivido della Passione. Il prete – penso che don Maurizio condivida con me questa esperienza – è la persona più ricca che ci sia sulla terra: risana, benedice, perdona, consacra, ed è la persona più povera, perché pronuncia parole non sue, programma e forze gli vengono da oltre.
Ci sono stati giorni – prego il Signore che non abbiano a tornare – nei quali don Maurizio ha fatto l’esperienza di essere senza forze, senza possibilità di fare e di dire, senza possibilità di fare progetti. In quei momenti, anche a me è toccato di essere aiutato da una meditazione di musica di una grande maestro del Seicento, Dietrich Buxtehude. Contemplando le piaghe del Cristo Crocifisso, questo autore affida al Coro, prostrato ai piedi di Gesù inchiodati alla croce, il versetto di Isaia che dice: «Ecco, i piedi che evangelizzano, piedi inchiodati». Dunque, la vita del prete non è l’attivismo del propagandista, ma la dedizione dell’innamorato.
Il mio augurio a don Maurizio, con tutto il cuore: «Ad multos annos (così per tanti anni ancora)»!

Omelia nella S. Messa di ringraziamento per la professione religiosa di suor Giulia Cenerini

Pennabilli (Cattedrale), 26 ottobre 2019

(da registrazione)

Gen 12,1-4a
Sal 15 (16)
Gv 15,9-17

Carissimi,
quasi non si oserebbe commentare le parole del brano di Vangelo proclamato in questa liturgia di ringraziamento per il dono della chiamata che il Signore ha rivolto e confermato a suor Giulia. Si tratta di un dono per lei, ma è un dono anche per tutti noi, perché è tutta una comunità ad essere incoraggiata nella sua vita di consacrazione battesimale. Dio non si è stancato di noi! Diciamo il nostro “grazie” anche per le vocazioni al ministero sacerdotale e per tutte le altre vocazioni alla vita consacrata.
C’è un comandamento che Gesù dice suo e dice nuovo, inedito: il comandamento dell’amore reciproco. L’attenzione non può che cadere su quel “come”: «Amatevi come io vi ho amato». Non perché noi possiamo amare quanto ha amato Gesù – troppo piccolo è il nostro cuore rispetto al suo –, ma perché possiamo collocarci nella sua stessa lunghezza d’onda. Dobbiamo pensarci dentro al dinamismo di un amore trinitario. Il Battesimo, infatti, ci ha collocati in quell’ambiente divino – un “come” smisurato – non per suscitare in noi sentimenti di inadeguatezza, e quindi di tristezza, ma per suscitare gioia, perché, dice Gesù, «la mia gioia in voi sia piena» (Gv 15,11). Dunque, quello che può apparire un precipizio – ci verrebbe da pensare che il Signore ci colloca così in alto da farci venire le vertigini – in realtà è uno stare dentro a quel grembo da cui veniamo, appunto la Trinità. Dal seno della Trinità siamo stati pensati, amati, voluti, desiderati e quindi creati. «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15,16). Perché? Perché «portiate frutti», dice il Signore.
Proviamo a spendere una parola di approfondimento sul tema della vocazione. Nella cultura corrente quando si dice “vocazione” si finisce per indicare non tanto la chiamata di un altro, ma una inclinazione; ad esempio si dice di avere la vocazione a fare il poeta, oppure a fare il calciatore, quasi che la vocazione fosse una propensione, con l’esigenza di autorealizzarsi. Volendomi realizzare, metto in atto tutte le risorse per raggiungere quell’obiettivo. La tradizione cristiana sembra concepire la vocazione in tutt’altro modo, perché la intende come un appello ricevuto da un altro, da Dio, anzi da tutt’Altro, colui che mi fa uscire da me stesso. La vocazione, talvolta, può andare anche all’incontrario dei propri progetti, o almeno come li si è immaginati; essa è anche sinonimo di rinuncia, di sacrificio, di croce, perché bisogna dimenticarsi, rinnegare se stessi. Ricordate cosa dice Gesù a Pietro: «Un altro ti cingerà e ti condurrà dove tu non vorresti» (Gv 21,18). Tuttavia, le due concezioni, così diverse, non necessariamente sono in antagonismo. C’è un punto in cui le due sottolineature si incontrano. Il racconto della vocazione di Abramo, che abbiamo sentito proclamare, può essere letto, effettivamente, sotto questi due aspetti. C’è, da una parte, l’iniziativa divina: Dio chiama, prende la parola per primo, invita Abramo a lasciare la sua terra, il suo parentado. È un imperativo: «Parti», e c’è una promessa: «Io ti benedirò». Ma la promessa non è in forma condizionale; Dio non dice: «Se tu partirai, io ti benedirò». La Parola si impone. Abramo non ha chiesto nulla, ma quella Parola non è efficace se non incontra una libertà interiore, perché non è – quello di Dio – un ordine fatto ad uno schiavo, che non ha altra scelta che obbedire. Abramo è libero di rifiutare. Se accetta l’appello divino è perché, senza dubbio, percepisce, seppure oscuramente, risuonare dentro di lui un desiderio che fino ad allora era rimasto nascosto, magari implicito, accartocciato. Abramo ha bisogno di questo imperativo che viene dall’esterno per risvegliare quel desiderio. La chiamata è liberatrice, perché sblocca energie interiori, dispiega orizzonti impensati, ma che già erano, in qualche modo, presenti in colui che è chiamato. Allora si esce da sé, ma per incontrare un Altro. E non è questo, in fondo, il desiderio che ciascuno porta dentro di sé?

Settimana dell’educazione

Nel decennio dedicato dalla Chiesa italiana all’emergenza educativa abbiamo intrapreso un dialogo più serrato con la scuola e con gli educatori. Si è iniziato con la “Giornata della scuola”; successivamente, gli incontri e le iniziative si sono allargate abbracciando una settimana intera di appuntamenti e riflessioni. L’obiettivo di partenza è stato quello di risvegliare l’attenzione della comunità cristiana sulla scuola e l’educazione. Poi si è aperta una possibilità feconda di dialogo “con la scuola e per la scuola” e, ultimamente, con il mondo dello sport. Quest’anno la riflessione indugia su questo aspetto: educare è offrire modelli.

Gli amici della Commissione diocesana
Cultura e Scuola

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Ritiro Oreb per i giovani

Veglia missionaria diocesana

Veglia missionaria diocesana

 

La Giornata Missionaria Mondiale è stata istituita nel 1926, nella penultima domenica di ottobre, perché sia una giornata annuale di preghiera e di solidarietà in favore dell’attività missionaria della Chiesa universale ed esprime la sollecitudine di tutta la Chiesa a sostegno sia delle Chiese più giovani che di quelle in via di consolidamento.
La celebrazione della Giornata Missionaria Mondiale in tutte le parrocchie e rettorie diventa l’occasione per richiamare l’attenzione e la responsabilità della Chiesa locale a farsi carico della missione della Chiesa universale. Per il suo carattere ecclesiale e universale anche la raccolta di offerte collegata alla Giornata Missionaria Mondiale si distingue da altre finalità, ugualmente nobili, come anche da altre forme di cooperazione missionaria tra Chiese particolari.
Com’è noto, papa Francesco ha dichiarato il mese di ottobre Mese Missionario straordinario per “risvegliare maggiormente la consapevolezza della missio ad gentes” e per “riprendere con nuovo slancio la trasformazione missionaria della vita e della pastorale”, in occasione del centenario della Lettera apostolica Maximum Illud di Papa Benedetto XV promulgata il 30 novembre 1919.
Il tema di tale evento sul quale la Chiesa universale è chiamata a pregare e riflettere per una rinnovata modalità di presenza missionaria è “Battezzati e inviati: la Chiesa di Cristo in missione nel mondo”.

Venerdì 18 ottobre nella chiesa parrocchiale di Fratte di Sassofeltrio ci sarà una veglia di preghiera missionaria diocesana, con la testimonianza di don Firmin Adamon, sacerdote cattolico, originario del Benin, proveniente da famiglia musulmana. Domenica 20 ottobre la Giornata Missionaria Mondiale verrà celebrata con particolare solennità in ogni parrocchia.
È possibile scaricare il materiale dal sito: www.missioitalia.it/battezzati-e-inviatiottobre-missionario-2019

 

Conferenza organizzata dalla Pastorale Sanitaria

In occasione della festa di San Luca (18 ottobre), patrono dei medici e degli operatori sanitari, giovedì 17 ottobre alle ore 20:45 si terrà nella sala parrocchiale di Novafeltria una conferenza sul tema: “Internet e i social: dipendenza o nuova frontiera della comunicazione”.

Pellegrinaggio in Terra Santa – In viaggio verso San Marino

Aeroporto “Ben Gurion” di Tel Aviv: persone di provincia in un aeroporto così grande e moderno non possono che sentirsi in soggezione! Tra gli aeroporti del mondo è sicuramente il più presidiato per motivi di sicurezza. Mentre ci avviamo finalmente al nostro gate, non riusciamo a nascondere un velo di nostalgia. Troppo forte l’esperienza degli otto giorni in Terra Santa.
Eravamo partiti con un’idea: calcare i passi di Gesù, percorrere le strade del suo tempo, accarezzare le pietre del suo passaggio, colmare occhi e cuore degli orizzonti e dei paesaggi che anche Gesù ha guardato.
Torniamo con un’altra convinzione: il cammino sui passi di Gesù è esperienza che riguarda il cuore. Un grande merito di questo progresso dell’anima va ad Alessandra, la guida che ci ha accompagnato con professionalità, competenza e grande umanità. Non è stata il solito “cicerone”, ma un’amica per tutti, a volte maestra, a volte interprete, altre volte catechista.
Il boeing della “El Al” si alza in volo e, benché sia ormai tramontato il sole, vediamo chiaramente dall’oblò il ricamo della costa sul Mediterraneo. Abbiamo tutto il tempo – il volo durerà quasi quattro ore – per riflettere sull’esperienza vissuta e… per dormire, chi riesce. Si affollano ricordi. Ritornano immagini. Banalità: come i pasti al self service (immancabili riso, salse, verdure pasticciate, ma anche qualche tentativo di spaghetti o altra pasta all’italiana), come l’inseguimento di venditori nelle piazze e nelle viuzze, insistenti e petulanti e, alla fine, pure simpatici, come la preoccupazione di portare a casa un ricordo e un pensiero per tutti, magari anche solo un rametto d’ulivo o una carruba trovata per terra ricordando la parabola del figliuol prodigo… Non solo particolari esilaranti: rimane la volontà di tenersi in contatto e di rafforzare l’amicizia tra i partecipanti; rimangono le tante riflessioni ascoltate e, soprattutto, quei “sì” pronunciati a Cana di Galilea e sulle rive del fiume Giordano.
In tutti si è rafforzato l’impegno di pregare ogni giorno per la pace. Si è fatta più forte la convinzione che il Risorto va trovato nelle nostre comunità, dove due o più sono riuniti nel suo nome, va abbracciato in chi soffre, provando a condividere almeno un poco di quella sofferenza.
Nazaret, Betlemme, Gerusalemme… la nostra casa, il nostro borgo, la nostra città.