Discorso durante la Preghiera ecumenica

San Marino Città (RSM), 25 gennaio 2021

Settimana per l’unità dei cristiani

1.

Nell’atto della consacrazione episcopale due diaconi tengono aperto il libro dei Vangeli e lo distendono sul capo del candidato vescovo: un gesto stupendo, pieno di significato. Il vescovo è sotto la Parola. La Chiesa vive della Parola. Ricordate Gesù durante la tentazione nel deserto, quando ripesca la frase del Deuteronomio: «Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio»? La Chiesa è convocata dalla Parola del suo fondatore, Gesù.

2.

Il secondo pensiero che vorrei dire è la sottolineatura di una responsabilità: è vero che siamo sotto la Parola, ma la Parola ci è anche stata consegnata. Come Samuele è nostro compito «non lasciare andare a vuoto una sola della sue parole» (cfr. 1Sam 3,19). Servizio precipuo della Chiesa è custodire la Parola, e poi studiarla, amarla, baciarla con venerazione. La Parola è affidata a noi non perché la teniamo come un tesoro geloso, ma per trasmetterla, per diffonderla.
Per noi cattolici l’interpretazione autentica della Parola, scritta e trasmessa, è affidata al magistero della Chiesa, ma non in senso dispotico o arbitrario. È molto importante nella Chiesa lo studio della Parola di Dio sotto l’azione dello Spirito Santo.

3.

L’ultimo pensiero che vorrei dire lo prendo dal grande avvenimento di cinquant’anni fa: il Concilio Ecumenico Vaticano II. Fu un Concilio pastorale, ma in filigrana erano presenti nuovi slanci, nuovi virgulti, quasi una nuova teologia fiorita sull’antico a proposito della divina Rivelazione. Si diceva: «Che cos’è la divina Rivelazione?». La divina Rivelazione è l’insieme delle verità che Dio ci ha rivelato. Dato che Lui non inganna e non s’inganna le riteniamo per vere. Quindi la Rivelazione veniva intesa come un pacchetto di verità che ci venivano consegnate. Non restava che obbedire.
Quello che è stato insegnato non è sbagliato, ma è imperfetto, incompleto. Il Concilio ha detto una cosa meravigliosa: «La divina Rivelazione è Dio che per la ricchezza del suo amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con loro per invitarli e ammetterli alla comunione con sé» (DV 2). Allora quando prendiamo in mano le Sacre Scritture possiamo dire che sono la lettera che Dio scrive ad ognuno di noi, una lettera d’amore, scritta per stabilire una relazione con noi. Per noi leggere le Sacre Scritture non è come leggere un classico, un capolavoro che emoziona ed entusiasma. No. Quando apriamo il libro delle Sacre Scritture è Dio che si intrattiene con ognuno di noi come con un amico. Un Dio amico! Allora dietro le parole, cerchiamo la Parola, il Verbo che «si è fatto carne» (Gv 1,14).

Omelia nella Festa della Natività

Santa Maria d’Antico, 8 settembre 2019

(da registrazione)

Ester 8,3-8.16-17
Sal 89
Ap 12,1-2
Lc 14,25-33

Vi saluto tutti con tanta simpatia, in questo nostro appuntamento annuale nel giorno del compleanno della Madonna. Adesso lei è in paradiso, pertanto gli anni non contano più, ma per noi sulla terra è bello ricordare la data della sua nascita, anche se è convenzionale (non si sa esattamente la data di nascita di Maria di Nazaret, la madre di Gesù). Maria è nata in uno dei nostri giorni, è entrata nella nostra storia, è come l’aurora che porta il sole, Gesù.
La liturgia di questa sera ci fa leggere una pagina del libro di Ester, un libro della Bibbia scritto per tempi difficili come i nostri. Ma quando mai i tempi sono stati facili?
Ester, la protagonista, è una ragazza orfana che porta scritta nella sua storia personale la sofferta realtà della diaspora giudaica (l’esilio: Babilonia, attraverso i suoi principi, aveva annientato la città di Gerusalemme e portato via i responsabili, i dirigenti, la nobiltà di Israele; ciò è stato come decapitare il popolo di Israele). La vicenda di Ester si svolge nei sontuosi palazzi del re di Persia e assomiglia – spero che gli esegeti non mi sgridino – alla fiaba di Cenerentola: anche qui c’è un capovolgimento delle sorti. Ester, povera, orfana, piccola, indifesa, ad un certo punto si trova ad essere regina. Come succede questo? In breve: la regina del re Assuero, Vasti, si rifiuta di comparire davanti al re che vuole mostrare al popolo e ai capi la sua bellezza. Una femminista ante litteram, questa regina! «È un oltraggio», gridano i saggi di corte. Non sia mai che la regina si sottragga agli ordini del re! Si deve immediatamente sostituire l’orgogliosa regina. Viene bandito, allora, un concorso di bellezza: la più bella sarà regina al posto di Vasti. Anche la piccola Ester – il suo nome significa “Stella” – viene iscritta dallo zio che l’ha presa a casa sua da quando è rimasta sola e orfana. Il re rimane conquistato dalla sua bellezza e la vuole regina, accanto a lui. Intanto, a corte, un potente ministro del re, Amàn, sta organizzando un programma di sterminio degli Ebrei. Lo zio di Ester riconosce provvidenziale l’elezione della nipote: il Signore vuol servirsi di lei per salvare il suo popolo (anche Mosè era a corte e ci si trovò per caso, perché la mamma non aveva osato stendere la mano sul suo bimbo e l’ha adagiato in un cestello sul fiume Nilo; la figlia del Faraone, visto un cestello che galleggiava sulle acque, l’ha mandato a prendere, dentro vi ha trovato un bimbo, l’ha allevato ed è diventato il liberatore del suo popolo). Ebbene, Ester è come Mosè. Si è trovata, per caso (ma noi sappiamo bene che non esiste il caso, c’è un disegno), al punto giusto nel momento giusto. Per intercessione di Ester il popolo è salvo e lo zio di Ester viene esaltato, mentre il cattivo ministro viene punito. Per i Giudei era spuntata una luce, una stella: ci fu letizia, esultanza, onore. La liturgia di questa sera ci fa vedere, nella provvidenziale intercessione di Ester, il ruolo di Maria presso il Signore, che l’ha voluta come tenerissima madre e regina, accanto a Lui e accanto a noi.
Perché ricorrere a Maria? Perché la Chiesa sottolinea tanto il nostro legame con la Madonna? Per sentimentalismo? Forse che il Signore ha bisogno d’essere convinto? Sarebbe puerile pensarlo. L’Onnipotente vuole piuttosto coinvolgere la creatura nel suo piano d’amore e Maria, in questo piano, ha un posto singolare. La preghiera e il coraggio della piccola Ester sono figura della tenerezza e dell’amore di Maria. Mi viene da dire: non fu così anche alle nozze di Cana? Un avvenimento di paese, una festa di famiglia, un matrimonio. Non c’era più vino, gli sposi erano in imbarazzo. L’evangelista Giovanni, che ci ha tramandato questo racconto, fa sempre una lettura simbolica, più grande di quello che accade contestualmente. Gesù aveva detto: «Donna, non è ancora giunta la mia ora» (Gv 2,4). La Madonna insiste e sposta in avanti – scusate il paragone – “le lancette” dell’ora di Gesù.
Stasera, mentre festeggiamo la natività di Maria, la nostra festa, come gli sposi di Cana di Galilea constatiamo che il vino scarseggia. Il vino della speranza, della salute, il vino dell’amore vengono a mancare. Ci mettiamo nelle mani di Maria. Sappiamo che lei non ci sta che dal più si scenda al meno. Lei vuole che dal meno si vada al più. E allora dice ai servi e a noi: «Fate tutto quello che lui vi dirà» (Gv 2,5). Così sia.

Omelia nella celebrazione eucaristica per la festa di Santa Veronica Giuliani

Mercatello sul Metauro, 9 luglio 2019

Os 2,16b.17b.21-22
Sal 148
Gal 6,14-18
Gv 15,1-8

Santa Veronica ci introduce, mediante la sua esperienza spirituale, ad una più profonda conoscenza delle Sacre Scritture. Conoscere le Scritture è conoscere Gesù.

1.

«Ecco – dice la prima lettura –la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore». La prima cosa che balza evidente è la richiesta del Signore di una piena confidenza, di un’intima relazione, di un’amicizia con la sua creatura. Siamo nell’ambito dell’interpersonalità. Qui va collocato il nostro essere cristiani; non in una dottrina, non in una serie di precetti e neppure nell’osservanza dei riti. Questo, purtroppo, non è compreso da tutti. L’essere cristiani si gioca in un incontro, un incontro d’amore. E io vorrei dire a tutti: «Lo sai, c’è chi ha stima di te, c’è chi ti conferma che tu sei unico/unica per Lui. Il Signore ti ama immensamente». Mi sovviene una pagina del profeta Isaia: «Così dice il Signore che ti ha creato, che ti ha plasmato: “Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome; tu mi appartieni! Se dovrai attraversare le acque, io sarò con te. Se dovrai passare in mezzo al fuoco, non ti scotterai, la fiamma non ti potrà bruciare. […] Tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo”» (cfr. Is 43,1-4).
C’è stato sicuramente nella vita di ciascuno di noi un momento in cui questo annuncio ci ha stupito, commosso, forse turbato, anche convertito. È una voce soave, discreta, un’emozione interiore che, purtroppo, forse abbiamo rimosso ed è stata soverchiata da tante altre voci, situazioni, rinvii… L’evangelista Giovanni racconta il suo incontro con Gesù e annota con precisione: «Erano le quattro del pomeriggio» (Gv 1,39). Dopo tanti anni, Giovanni testimonia di non avere scordato quel momento. Vorrei, nel ricordo di santa Veronica, che in ciascuno di noi si risvegliasse questa intima parola di Gesù: «Tu sei prezioso ai miei occhi. Sei degno di stima. Ti amo». Poi c’è una parola che ritorna: il deserto. Un richiamo alla solitudine, all’essenziale, ma anche un richiamo all’abbandono fiducioso verso Colui che ti propone di seguirlo. L’anima dice: «Tu solo mi basti. Non ho altri che Te». Per il popolo di Israele, che è figura di tutti noi, il deserto fu il luogo della prova, della sete, del cammino forzato, ma fu soprattutto un luogo di amore.
Non sapevo che il diario di santa Veronica fosse di 22.000 pagine! Veronica ha registrato tutto quello che viveva intimamente per incarico dei suoi confessori. Vvoglio leggervi qualche riga: «Sento l’anima mia tutta trasformata in Dio, dappertutto trova Dio, in Dio medesimo cerca Dio». Sembra paradossale cercare Dio in Dio; delle volte l’idea che noi abbiamo di Dio è quella che ci facciamo noi; santa Veronica, invece, non cercava l’idea che lei si era fatta di Dio, ma Dio in Dio. Cercandolo, dove lo trova? Lo trova in sé ed esso la tira fuori da sé, la pone in Lui. Impazzita d’amore cerca Dio nel medesimo Dio. «Sta l’anima sola con il Solo, sola col Tutto, sola col Sommo, sola con l’Amore. Lei inabile a tutto, ma Dio opera in tutto. Lei, senza operazione, ma Dio operante. Lei in silenzio, ma in un istante diventa tutta lingua, tutto fuoco. Il suo Maestro è l’Amore e tanto basta».

2.

La Lettera ai Galati, di cui abbiamo letto l’ultimo tratto, è indirizzata a chi pensa di dover esibire davanti a Dio le proprie virtù, i propri meriti, salvo poi restare traumatizzato e deluso dalle proprie infedeltà, dalle proprie inconsistenze. Paolo in questo testo dice che se c’è una cosa di cui vantarsi è la croce del Signore, cioè il suo amore crocifisso. È un invito – ed è tutta la spiritualità di santa Veronica – ad alzare lo sguardo da sé e a riporlo in Lui. Quante volte inciampiamo su questo punto e viviamo l’esperienza cristiana come qualcosa di deludente, di frustrante: avremmo voluto colmare un vaso di virtù e quel vaso è sempre vuoto. Se uno guarda se stesso si inganna. Veronica invita a guardare Lui. A volte succede perfino di pensare che l’opposto del peccato sia la nostra virtù, raggiunta con uno sforzo di volontà; invece l’opposto del peccato è la fede che fa alzare lo sguardo verso Gesù. In questo consiste l’essere creatura nuova. «Il vanto è seguirti – dice san Paolo – essere con te nell’opera che il Padre ti ha affidato». Santa Veronica è come se dicesse: «Voglio essere amore come Te, Gesù. Appoggio la mia scaletta alla croce, a Te che sei sulla croce, metto la mia guancia sulla tua guancia, il mio cuore sul tuo cuore e guardo il mondo come lo vedi Tu». Come lo vede il Signore il mondo? Lo ha chiamato all’unità; vede l’umanità fatta di legami di fraternità, solidale e interdipendente. Allora Gesù affida alla sua sposa, se vuole, di essere con lui a servizio della Redenzione. E lei dice: «Io sarò le membra della redenzione. Completo nella mia carne ciò che manca dei tuoi patimenti in me, Signore». I patimenti di Gesù sono completi, è in noi che si devono completare.
Vi confido una battuta. In Cattedrale, alla Messa del Giovedì Santo, ho detto ai miei sacerdoti che sulla croce c’è posto per due e stavo per girare la croce dell’altare per far vedere che da un lato c’è Gesù, mentre dietro è vuota, senonché nella croce della Cattedrale c’è Gesù davanti e dietro… Per fortuna mi sono fermato in tempo. Ma il concetto che volevo esprimere era che sulla croce c’è posto per Gesù e per ciascuno di noi.
Come possiamo noi che siamo così imperfetti vivere una spiritualità tanto sublime? Il mio maestro spirituale diceva di non andare in cerca di penitenze, piuttosto di prendere quelle che la vita riserva; imparare a vedere Lui nelle sofferenze quotidiane, a non fermarsi alla piaga che fa male, ma ad andare oltre e farne un incontro con Lui. Penso ai momenti di delusione. Non dico di amare la delusione; la delusione fa male, a volte è cocente, ma si può amare in essa Gesù che è rimasto deluso tante volte. A volte viviamo la derisione; allora pensare a Gesù come “il deriso”. Altre volte sentiamo la persecuzione (quando parlano male di noi), allora pensare che anche Gesù è stato perseguitato. A volte ci sentiamo lasciati soli, abbandonati; possiamo dire: «Sei tu, Gesù, l’Abbandonato». Non si ama il dolore per il dolore, perché non è il dolore che salva, ma l’amore.

3.

La pagina evangelica che abbiamo sentito proclamare ci riporta alla cultura contadina, con l’immagine dell’innesto. Mio papà aveva un ciliegio selvatico. L’ha tagliato e gli ha messo dentro un ramoscello di ciliegio buono. Dopo quell’operazione l’albero ha finito per fare ciliege squisite. Col Battesimo siamo stati innestati in Gesù. Quello che ha vissuto Veronica lo viviamo anche noi; anche noi siamo una cosa sola con Gesù, anche a noi Gesù dice: «Io ti sposo. Non guardarti, guarda me. Ricomincia sempre».
Davanti a noi l’umanità di oggi… Ci sarebbe molto da dire sulla situazione sociale. Abbiamo delle responsabilità. La mia città, il mio paese, la mia nazione mi appartengono. Mi appartiene l’umanità. Sono miei i profughi; sono miei fratelli quanti sono in ricerca o sono delusi e soli… Mi ha fatto piacere sapere che le monache Clarisse Cappuccine di Mercatello sul Metauro hanno aperto un monastero nel Benin. Che bello questo squarcio… L’ha detto Gesù: «Se rimanete uniti a me, porterete molti frutti» (cfr. Gv 15,15). Così sia.

La pietra di consacrazione del 1244 del convento di Sant’Igne

Un documento straordinario per la storia del Montefeltro

pietra S.IgneLa pietra di consacrazione del 1244 della chiesa francescana di Sant’Igne è un’opera davvero interessante. L’epigrafe, in bei caratteri gotici e dall’elegante ductus, venne scolpita su un blocco di arenaria in origine murato all’interno dell’edificio di culto, che sorge vicino alla città di San Leo. La pietra misura 26,5 cm in altezza, 19,5 cm in larghezza, e 8,5 in profondità; l’iscrizione è la seguente:
ANNO D(omini) M/
CC XL IIII/
T(empore) INNOCE[N]/
TII P(a)P(e) ET/
UGOLINI/
EPISCOP(i)/
FERETRI/

(L’anno del Signore 1244 al tempo di Papa Innocenzo e di Ugolino Vescovo Feretrano).
La pietra è in buono stato di conservazione, non mostra segni di usura da parte degli agenti atmosferici ma al contrario una lunga frattura sul lato destro, che venne causata con ogni probabilità, al momento in cui fu rimossa dai muri del transetto o del presbiterio. Per almeno ottanta anni fu conservata nel municipio della città di San Leo, poi passò alla parrocchia che ancora la custodisce.
La pietra di Sant’Igne rappresenta una testimonianza fondamentale per la storia del Montefeltro, ma non solo, se si considera la visita a San Leo di San Francesco di Assisi l’8 maggio del 1213.
Francesco era in viaggio per la Romagna, insieme a frate Leone, quando la sera del 7 maggio giunse alle porte dell’antica Montefeltro, oggi San Leo. Trovando chiusa la cosiddetta “Porta di sotto” o di “Settentrione”, oggi non più esistente, cercò riparo altrove. Secondo la tradizione un fuoco acceso non molto lontano, lo condusse in mezzo ad una radura dov’era un rifugi di pastori: in quel luogo trenta anni più tardi sorsero la chiesa e il convento francescano di Sant’Igne, da ignis, fuoco. (Nel caso specifico la tradizione cristiana, su cui si fonda anche il significato etimologico del toponimo Sant’Igne, ha certamente basi di fondatezza, se si considerano le vicende storiche e geologiche del territorio leontino, e che ancor oggi interessano il masso su cui sorge la città). All’indomani Fratesco e frate Leone salirono a San Leo. Era la festa di San Miche Arcangelo, e in quel giorno il vescovo feretrano Alberto, esponente della famiglia Feltria (o Montefeltro) premiava Montefeltrano II e il fratello Taddeo (della stessa famiglia), del titolo imperiale di “…cavalieri valorosi e di gran seguito e d’origine parzialissima all’Impero…”; l’onorificenza era stata riconosciuta dall’imperatore Federico II di Svevia a Montefeltrano II, in particolare, per essersi distinto nella presa di Capua, nel corso delle battaglie condotte nel Regno di Sicilia; quale ricompensa per la fedeltà all’imperatore Montefeltrano II e Taddeo ricevettero in dono il feudo di Urbino con l’intero contado. Conclusa la solenne cerimonia Francesco, raccontano i Fioretti, salì su un muricciolo, all’ombra di un olmo, nella piazza di San Leo, e alla presenza dei cavalieri accorsi per l’occasione dalla Toscana, dall’Umbria, dalla Romagna e dalle Marche, e alla folla riunita, tenne una celebre predica )l’olmo secolare cadde a terra l’11 dicembre del 1662, la base del tronco è ancora conservata all’interno della chiesa francescana di Sant’Igne). Prendendo spunto da una nota canzone dei Trovadori, una sorta di brano in prosa ritmato e cantato, ‘Tanto è il bene che m’aspetto, Ch’ogni pena m’e diletto’, parlò, o per meglio dire cantò, delle pene d’amore (l’amore del signore per la donna amata, ma certamente anche di ben altro Signore e della sua sposa, ossia la Chiesa). Non un semplice discorso, ma con ogni probabilità una vera e propria predica penitenziale, sotto forma di poesia. Fra i presenti vi era il conte Orlando, signore di Chiusi di La Verna. Questi volle incontrare Francesco in casa Severini, vicino al luogo della celebre predica, e in quella circostanza il conte Orlando fece dono a Francesco del monte della Verna, dove una decina d’anni più tardi il santo ebbe la visione del Serafino crocifisso e ricevette le Stimmate della Passione di Cristo.
La pietra di consacrazione del 1244 del convento di Sant’Igne, in buona sostanza, ricorda la data di consacrazione di un edificio di culto, il papa dell’epoca (papa Innocenzo IV, con il quale la Chiesa di Roma conobbe un importante periodo di espansione politica e territoriale nell’Italia centrale, mentre infuriava la rivalità con gli imperatori svevi), e ricorda il vescovo Ugolino della famiglia Feltria, da cui discendono i Montefeltro, signori di San Leo e più tardi duchi di Urbino. Ma l’epigrafe, anche se il suo nome non compare sulla pietra, non può non ricordare un’altra data, l’8 maggio del 1213, e la visita a San Leo di San Francesco d’Assisi.

Luca Giorgini

L’arte ritrovata

Un inedito dipinto di Bartolomeo Coda a Mercatino Conca

bartolomeo codaNelle Vite di Giorgio Vasari, fonte imprescindibile per la storia dell’arte, Benedetto Coda da Ferrara è annoverato fra gli allievi di Giovanni Bellini; trasferitosi a Rimini lavorò a lungo e con profitto, e alla morte la bottega passò al figlio Bartolomeo. Questi fu il maggiore di quattro fratelli: Francesco, Innocenzo, e Raffaele, tutti attivi nella bottega del padre. Al 1541 risale l’unica opera autografa: l’Annunciazione della chiesa di santa Maria del Monte a Cesena, eseguita negli anni del Polittico di Valdragone della chiesa dei Servi di Maria a San Marino, unica opera attribuita a Bartolomeo Coda nella nostra diocesi, almeno finora.
All’interno della chiesa di San Silvestro in Montegrimano, infatti, per almeno venti anni è stato custodito un dipinto di dimensioni ragguardevoli, raffigurante la Madonna in trono con Bambino e i santi Apollinare e Antonio da Padova; il dipinto proviene dalla chiesa di sant’Apollinare, un tempo a pochi chilometri di distanza dal centro storico. L’opera è stata oggetto di un recente restauro, che ne ha restituito una parziale leggibilità, al termine del quale è stata trasferita nella chiesa parrocchiale di Mercatino Conta, dov’è tuttora esposta. La grande pala misura 246 centimetri in altezza, e 146,5 centimetri in larghezza; la cornice lignea è alta 263 centimetri, ed ha alla base una larghezza massima di 198,5 centimetri. Prima del restauro la pellicola pittorica si presentava alquanto depauperata, per l’umidità, le cadute di colore, e numerose ridipinture ad olio. Anche la cornice era in pessimo stato; il restauro ha riportato alla luce l’intaglio a doppia treccia e porzioni di doratura originaria. La vicenda storica e conservativa del dipinto sono premessa necessaria per la corretta lettura dell’opera, comunque problematica. Gli incarnati della Madonna e del Bambino, ad esempio, appaiono disomogenei e dai contorni irregolari nonostante l’intervento conservativo; la veste della Madonna, al contrario meglio conservata, mostra interessanti effetti chiaroscurali, con velature a colpi di pennello paralleli, lungo le pieghe dell’abito rosso, stretto in vita. Nel dipinto di Mercatino Conca la composizione è perfettamente bilanciata. Al centro della scena è la Madonna col Bambino, in posizione rialzata e dall’aspetto monumentale, simile ad una elegante terracotta policroma: sul basamento è dipinta la data in chiare lettere romane M D L I (1551). A destra è il giovane sant’Antonio da Padova, a sinistra, invece, sant’Apollinare vescovo e martire. In alto, infine, campeggia la figura dell’Eterno, che appare da una cortina di nubi, stagliandosi su un fondo d’orato. Nel dipinto si riscontra una rigidezza dei corpi e un movimento meccanico dei gesti lontani dall’eleganza pittorica di Benedetto Coda. La figura di sant’Antonio da Padova, in particolare, è resa in maniera ingenua e affrettata; l’ovale del volto è deformato, mentre il saio piomba a terra come il fusto di una statua lignea. L’immagine di sant’Apollinare, al contrario, rivela una diversa abilità esecutiva. Il volto è descritto con sottili pennellate di colore, e colpi di luce bianchi sulla fronte e sul naso affilato. Alle spalle del santo si scorge un paesaggio turrito tipicamente feretrano, immerso in colori caldi. Anche il gruppo della Madonna col Bambino rivela una certa maestria, per le proporzioni armoniose e il nudo del Bambino. Il Padre Eterno, a sua volta, rivela significativi addentellati con la stessa figura dipinta nel Battesimo di Cristo della Cattedrale di Traù, eseguito da Bartolomeo Coda fra il 1533 e il 1537 alla morte del padre, quando alla guida della bottega era in grado di esportare opere in Dalmazia e al di là dell’Adriatico. Nel dipinto su tavola raffigurante la Madonna col Bambino fra i santi Domenico e Paolo e i misteri del Rosario nel museo della Rocca di Gradara, ritroviamo l’immagine della Madonna col Bambino del dipinto di Mercatino Conca. La pose delle figure e la veste sono le stesse, semplicemente invertite come in un gioco allo specchio. Perfettamente coincidenti sono l’inclinazione del capo della Madonna e la posa plastica del Bambino; sorprende il particolare morelliano delle mani della madre che trattengono il figlio; nella tavola ritroviamo la stessa meccanica dei gesti e il modo di trattare le vesti, ma al momento è difficile chiarire la successione temporanea fra i due dipinti.
La tela di Mercatino Conca, dunque, va ad ampliare il corpus delle opere di Bartolomeo Coda, pittore prevedibile e forse ripetitivo ma certamente interessante, e quindi ad arricchire il nucleo delle opere d’arte più significative della nostra diocesi.

Luca Giorgini

L’affresco sul precipizio

Un’immagine votiva cinquecentesca nella chiesa di San Giovanni Battista a Monte Tassi

Affresco sul precipizioCi sono luoghi dove il tempo sembra fermarsi, dove lo spazio appare infinito e la vista arriva lontano, lontanissimo. Il silenzio, la solitudine, qui tutto è fermo, tutto è buono. Un lento, lentissimo camminare a piedi, un girovagare intorno ai muri di un’antica chiesa, senza meta, senza tempo. Il passato si unisce al presente, e il pensiero al futuro diventa riflessione. Poi la mente ad un tratto si ferma, e la memoria riaffiora per ripiombare al contingente.
A questo punto ci dirigiamo dall’anziano custode (uno dei tanti ‘angeli custodi’ che ancora oggi presidiano i luoghi sacri del nostro territorio, spesso, purtroppo, semideserti) ed entriamo in chiesa.

Siamo nella chiesa di San Giovanni Battista a Monte Tassi nel comune di Montegrimano, già parrocchiale ma ora oratorio pressoché abbandonato. Monte Tassi, un tempo popolata e ricchissima, fu dominio della famiglia Gandolfini che qui possedeva una rocca di cui rimangono significative rovine. La località è molto suggestiva: un piccolo abitato su una dorsale rocciosa, raggiungibile da una strada impervia, a pochi chilometri dalla statale che collega i paesi di Montecerignone e Mercatino Conca. Da qui si domina tutta la valle del fiume Conca, dal Carpegna all’Adriatico: un panorama che si perde all’orizzonte, un susseguirsi di monti e alture boscose, e di colline che degradano a valle in un’atmosfera bucolica.
All’interno dell’edificio si conserva un affresco cinquecentesco in discreto stato di conservazione: una pittura murale a ‘vero fresco’, in una nicchia voltata, alta tre metri e larga due, nel muro della controfacciata. E’ l’unico affresco nel territorio diocesano della Val Conca ancora superstite, assai interessante sul piano stilistico. L’affresco gravita su un precipizio profondo quattrocento metri: un enorme baratro nel quale rischia di crollare insieme alla chiesa, già danneggiata da una frana nel 1966. Nell’affresco, di natura prettamente devozionale, sono raffigurati i santi Nicola da Tolentino, Sebastiano e Rocco, secondo l’iconografia più tradizionale e uno stile esemplificato su modelli alla Giovanni Santi (il padre di Raffaello). Ad un primo sguardo è l’immagine di san Sebastiano a catturare l’attenzione: al centro della scena, seminudo e trafitto dalle frecce (simbolo del supplizio cui fu sottoposto il martire cristiano, centurione dell’esercito di Diocleziano, da parte dei suoi compagni arcieri). Il volto di apollinea bellezza non mostra dolore, e lo sguardo dolcissimo sembra rapito; colpi di pennello color rosso, lunghi e liquidissimi, sottolineano i tratti somatici e la capigliatura fluente. A destra è san Rocco, meno giovane del glabro Sebastiano, ma dalla posa aggraziata. Il santo, nato a Montpellier nel 1350, indossa gli abiti di un pellegrino del cinquecento, con mantella rossa lunga sulle ginocchia, una camicia color senape stretta in vita, e una calzamaglia color bianco latte, infilata in stivali dal lembo ricurvo. Con la mano destra impugna il bastone del pellegrino, con la sinistra, invece, solleva la camicia, mostrando la ferita sanguinante sull’inguine (la piaga che si procurò nel pellegrinaggio a Roma, dopo essersi fermato ad Acquapendente ed aver assistito i malati di peste). A sinistra di san Sebastiano è la figura di San Nicola da Tolentino. Un’immagine infrequente nel nostro territorio; rare, infatti, sono le raffigurazioni del monaco agostiniano morto nel 1305, protettore dei bambini e delle gestanti contro le febbri alte. Il santo, con indosso un saio chiaro e la tonsura sul capo, tiene nella destra un sole dal volto umano: in realtà una stella, la stessa che guidò i genitori a Bari, per implorare il patrono Nicola, e chiedere la grazia di un figlio. Dietro ai tre astanti una luce calda inonda un cielo bellissimo, con colori che sfumano all’orizzonte, intervallato da bianchi cirri realizzati a secco: un cielo tipicamente ‘feretrano’.
L’affresco di Monte Tassi, l’unico della Val Conca come già detto, è interessante anche da un punto di vista prettamente storico. Intorno alla rocca dei Gandolfini, infatti, dal possente torrione bipartito e l’abitato cinto da mura, si espandeva un ampio contado per decine di chilometri. Sappiamo che la gente di Monte Tassi era piuttosto abbiente, e per questo invidiata dagli abitanti della vicina Montegrimano. La ricchezza veniva dalla terra, dal lavoro faticoso dei contadini, in particolare dal grano, ma anche dall’allevamento dei cavalli sui prati ai confini con la Repubblica di San Marino, ancor oggi raggiunti dalla brezza marina. Una civiltà umile e contadina, eppure florida. Ma come in ogni epoca, o in ogni civiltà più o meno passata, alla ricchezza e alla calma apparente, si accompagnavano molti pericoli, e fra questi una tremenda sciagura: la peste. Un flagello, paragonabile al terrore di una guerra, capace di sterminare intere famiglie in pochissimo tempo, o intere popolazioni. La peste, malattia infettiva acuta e contagiosa, è causata da un cocco-bacillo, un batterio trasmesso direttamente all’uomo dalla puntura delle pulci che vivono in preferenza sui ratti, oppure attraverso lesioni cutanee e il contatto con tessuti o fluidi corporei di un animale infetto. Le condizioni igieniche e le temperature elevate erano fattori determinanti per il propagarsi di un’epidemia (non dimentichiamo la rapidità con cui i ratti si riproducono proprio nei depositi di provviste o nei granai, e che gli stessi sono assidui frequentatori di sorgenti e corsi d’acqua). La malattia poteva manifestarsi in forme diverse: una forma cutanea, la peste bubbonica di manzoniana memoria, con febbre improvvisa, brividi, e malessere generale seguiti da bubboni sparsi sul corpo e dolori nelle sedi linfonodali (in particolare l’inguine), in questo caso la morte avveniva entro quattro giorni dall’esordio dei sintomi; oppure una forma setticemica o polmonare, altamente contagiosa tramite trasmissione aerogena, che si manifestava con tosse e dolore toracico, e una mortalità tre volte maggiore della precedente. In rare occasioni l’epidemia poteva mutuare in pandemia, con la scomparsa dell’intera popolazione.
L’affresco votivo di Monte Tassi a questo proposito è assai eloquente. La presenza di San Sebastiano e di San Rocco, noti protettori contro la peste, certamente testimonia il verificarsi di uno o più episodi di peste, così come documentato in altri luoghi della diocesi attraverso altre opere d’arte (è il caso delle tele seicentesche di Guido Cagnacci conservate nel Museo Diocesano di Pennabilli). Ma è l’immagine di san Nicola da Tolentino a colpire la nostra attenzione. Anche lui infatti appartiene alla categoria dei protettori contro la peste, proprio contro le febbri alte che colpivano i bambini e le madri. La presenza dell’agostiniano potrebbe alludere ad un episodio di peste di ampie proporzioni, a conclusione del quale venne eseguito l’affresco votivo.
La beata solitudine che oggi si respira visitando la chiesa di Monte Tassi ha poco a che vedere con la sofferenza, il terrore o il silenzio della morte di chi abitò quei luoghi cinquecento anni fa. Ma l’affresco sul precipizio è lì, a ricordarci la precarietà della vita, il senso della sofferenza, e a interrogarci sul passato, sul presente, sul futuro. La nostra diocesi è ricca di luoghi come questi, privilegio per chi è disposto a fermarsi e a riflettere.

Luca Giorgini