Omelia per la Festa di San Francesco Saverio

Omelia S.E. Mons. Andrea Turazzi

Santuario S.Guido Maria Conforti (Parma), 3 dicembre 2014

Siamo felicissimi di trascorrere qualche ora con tutti voi, nella vostra casa, nel santuario dedicato a S. Guido M. Conforti.
Care Sorelle saveriane, mi rivolgo anzitutto a voi: nelle nostre comunità ha avuto una forte risonanza la testimonianza delle sorelle che, appena qualche mese fa hanno concluso col sangue la loro missione, la missione di Gesù: suor Bernardetta, suor Lucia, suor Olga.
Siamo qui per onorarle, per pregare per loro con voi. “Nessuno può rubare loro ciò che hanno già dato”.
Cari Padri, a più riprese e in diversi incontri con la mia gente, impegnata nella meditazione della Esortazione apostolica Evangelii Gaudium, ho raccolto la proposta di metterci alla vostra scuola, alla scuola di voi missionari, per rendere effettiva e sapiente quella conversione pastorale in uscita di cui ci parla papa Francesco: “Dare impulso alla Chiesa in un’audace uscita fuori da sé per evangelizzare” (EG 261). Lo vorremmo fare tenendo contatti con le vostre persone. Prima di tutto coi Padri che hanno tanto faticato per il Vangelo. “Il vero missionario – scrive papa Francesco – non smette mai di essere discepolo, sa che Gesù cammina con lui, parla con lui, respira con lui, lavora con lui” (EG 266).
Vorremmo poi tenere contatti con i Padri che in terre lontane e tra noi, col carisma saveriano, portano il Vangelo con parole e opere e, prima di tutto, col proposito di “essere Gesù”. Perché affascinati da lui i missionari “si inseriscono a fondo nella società, condividono la vita con tutti, ascoltano le preoccupazioni, collaborano materialmente e spiritualmente nelle necessità dei fratelli”. Permettetemi di proseguire la citazione dall’Evangelii Gaudium: “A volte sentiamo la tentazione di essere cristiani mantenendo una prudente distanza dalle piaghe del Signore. Ma Gesù vuole che tocchiamo la miseria umana, che tocchiamo la carne sofferente degli altri” (EG 270).
Grazie perché ci mettete a parte della scintilla ispiratrice del vostro carisma, non la conservate gelosamente per voi: è un segreto condiviso. La scintilla ispiratrice è scaturita dall’incontro personale con l’amore di Gesù che salva. Invito gli amici presenti (soprattutto chi è nuovo in questa casa) a sostare in silenzio, dopo la Messa, davanti al Crocifisso davanti al quale il fondatore Guido Maria Conforti sostava e del quale diceva: “Mi pareva che mi dicesse tante cose”. La contemplazione è anima della missione, ma c’è una contemplazione del Signore verso colui che ha chiamato. Così scrive papa Francesco: “Posti dinanzi a Lui con il cuore aperto, lasciando che Lui ci contempli, riconosciamo questo sguardo d’amore che scoprì Natanaele il giorno in cui Gesù si fece presente e gli disse: «Io ti ho visto quando eri sotto l’albero di fichi» (Gv 1,48). Che dolce è stare davanti a un crocifisso, o in ginocchio davanti al Santissimo, e semplicemente essere davanti ai suoi occhi! Quanto bene ci fa lasciare che Egli torni a toccare la nostra esistenza e ci lanci a comunicare la sua nuova vita! (EG 264).
L’invito di papa Francesco è l’esegesi attuale dell’esortazione di San Paolo ai Corinti: “Mi son fatto debole per i deboli per guadagnare i deboli, mi son fatto tutto per tutti per salvare ad ogni costo qualcuno” (1Cor 9,22). Ognuno di noi ricordi: “Annunciare il Vangelo è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!” (1Cor 9,16). È dal Battesimo che scaturisce la responsabilità dell’annuncio del Vangelo. Lo si annuncia con parole e opere e, prima ancora, con l’offerta di una testimonianza che, pur silenziosa, suscita in chi sta accanto “domande irresistibili” (Evangelii Nuntiandi 21). Non per proselitismo ma per condivisione e per attrazione (cfr. EG): “Andate in tutto il mondo e proclamate il vangelo ad ogni creatura”. Senza timore di trovarsi a corto di parole, senza paura di veleni, di serpenti e di demoni . Perché il Signore agisce insieme al missionario e conferma la Parola coi segni che l’accompagnano (cfr. Mc 16, 15-ss).
Una proposta: aiutiamoci a percorrere i luoghi dell’Avvento, sono altrettante periferie da raggiungere.
Affiancarsi alla carovana dei Magi. Sono i cercatori di verità che scrutano il cielo, le antiche Scritture e le parole dei saggi. Una ricerca a volte drammatica e inquieta. Si mettono in cammino. Cercatori di verità, in fondo cercatori di Dio.
Sostare nel campo dei pastori. Sono i poveri del tempo di Gesù, figura dei “marginali” e degli emarginati di tutti i tempi, alle prese con la fatica di sbarcare il lunario.
Scendere al fiume Giordano. Sulle rive del Giordano si è raccolta la folla dei peccatori, di chi ha sbagliato, di chi è inseguito dai rimorsi, di chi è oggetto delle critiche e persino del disprezzo della gente.
Entrare nel silenzio della “casetta di Nazaret”. A Nazaret, un piccolo villaggio in un territorio di confine, annidato fra i monti, vive una fanciulla nella forma di vita più semplice e comune, trepidante di fronte ad un compito smisurato.
San Francesco Saverio, che festeggiamo insieme in questo giorno, è sicuramente felice della nuova luce che spinge la Chiesa a vedere i semi che lo Spirito continua a suscitare tra i popoli e nelle varie culture. Sarà felice per la strada che oggi la Chiesa sta percorrendo.

Omelia per la Veglia di apertura dell’anno della vita consacrata

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Monastero di Santa Chiara in Valdragone, 30 novembre 2014
 
Care sorelle, cari fratelli,
stiamo inaugurando “l’anno della vita consacrata” col cuore pieno di stupore e di gratitudine per il dono di tanti carismi e per la generosa corrispondenza di tante anime.
Ma permettetemi ancora una volta di esprimere la mia riconoscenza e quella della diocesi: afferrati da Cristo, voi lo servite con donazione totale. Noi – Chiesa particolare – godiamo pastoralmente dei frutti della vostra corrispondenza alla sua chiamata. Il mio – come ho già avuto modo di dirvi – è un grazie non solo per quello che fate, ma per quello che siete: siete il segno della meta a cui tutti dobbiamo tendere qui in terra, segno e anticipo del mondo futuro. La vostra, nella contemplazione e nell’azione, è partecipazione piena alla missione della Chiesa nella evangelizzazione e dimostrazione della varietà e bellezza della Chiesa. La vita religiosa – parafrasando il Concilio Vaticano II – è segno e strumento dell’universale vocazione alla santità nella sua perfezione.
La Chiesa dedica questo anno alla vita consacrata, uno stimolo per voi, ma soprattutto per le nostra comunità: la vita religiosa è un dono per tutti. Da parte del clero e dei laici ci si impegnerà a conoscere meglio la posizione della vita religiosa in diocesi e le sue esigenze, per annunciarla poi nella predicazione, nella catechesi, nella direzione spirituale, curando con diligenza le vocazioni.
Da parte vostra non manchi l’impegno ad approfondire la conoscenza di questa nostra Chiesa particolare per inserirvi sempre più in essa e per rispondere con giovinezza di spirito alle sue necessità.
Le mutue relazioni, conformi alla disciplina della Chiesa, e la collaborazione tra carismi e ministeri, con lo scambio di esperienze, di energie e di forze, in sincerità e fraternità, costituiscono una grande testimonianza: “uniti perché il mondo creda” (Gv 17, 21).
Ho rinnovato l’invito ad una equipe di religiose e religiosi a fare da coordinatrice fra le diverse comunità e per le iniziative che prenderemo.
Alcune iniziative sono già nei nostri programmi:

  • Verrà celebrata in Cattedrale, con la presenza delle religiose e dei religiosi, la festa della Presentazione al tempio del Signore lunedì 2 febbraio alle ore 16,00: momento forte di lode al Signore per la testimonianza di tanti consacrati della nostra diocesi e momento di implorazione di nuove vocazioni.
  • La Giornata diocesana della gioventù – sabato 16 maggio – sarà preceduta da un “rimpatrio” festoso e di testimonianza dei consacrati giovani (o dei giovani che si preparano alla vita religiosa) della nostra diocesi.
  • Sono previsti: l’allestimento di una mostra presso il Museo diocesano (Pennabilli) con esposizione delle opere pittoriche di Padre Agostino Venanzio Reali (celebre artista cappuccino) e la pubblicazione di una raccolta di notizie e testimonianze sulla vita consacrata in diocesi.

Il mondo di oggi ha bisogno della particolare presenza della vita consacrata; una presenza luminosa, efficace e gioiosa nello splendore dei carismi che rendono visibili il volto e la grazia di Cristo all’umanità del nostro tempo.

Omelia Solennità di Cristo Re

Omelia di S.E.Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di Pennabilli, 22 novembre 2014
Candidatura al diaconato permanente di Massimo Cervellini

1. Quando ero ragazzo, la solennità di Cristo Re mi entusiasmava. Veniva celebrata, nel mio piccolo paese, con grande festa; mi sentivo fiero di essere al servizio del Re. “Cristo regni” – era il saluto in AC col quale si iniziavano i raduni – “Ora e sempre!”, la risposta.
Ricordo una delle dieci regole che avevamo nell’associazione: “L’aspirante è primo in tutto per l’onore di Cristo Re”. Onore a Gesù, fierezza d’appartenergli, entusiasmo di schierarsi con lui.
2. Spesso, nel Vangelo, i contemporanei avrebbero voluto farlo re ma, ogni volta, Gesù si è sottratto. Allora, qual è il significato, in questo giorno, dell’affermazione della Chiesa: “Il Cristo è re dell’universo”?
Ciò che definisce la funzione regale è la responsabilità del re di unire ciascuno dei membri del suo popolo e creare tra tutti un’armonia nella quale ognuno trovi il suo posto. Proclamare il Cristo re è affermare con solennità che in lui si compone l’unità fra Dio e gli uomini e degli uomini fra loro, pur nelle differenze. Dire di Gesù che è “re” è riconoscerlo come colui che restituisce ognuno alla sua vocazione di figlio di Dio, e colui che fa nuova la società, una società accogliente che fa posto anche agli ultimi e ai piccoli. Un re siffatto non lo raffiguriamo paludato, ma in tenuta da lavoro, con l’asciugamano cinto ai fianchi per servire e consolare il suo popolo, mentre consegna il regno a Dio Padre, perché Dio sia tutto in tutti (cfr. 1Cor 15, 23.28).
3. Cari amici, è molto bello quanto sta per accadere questa sera nella nostra Cattedrale. Stiamo per accogliere e benedire il desiderio di Massimo di essere diacono permanente, cioè servo nella Chiesa di Gesù. Suo desiderio è corrispondere affermativamente a quella che sembra un’intima chiamata del Signore: «Vuoi regnare con me, cioè servire?». Massimo è accompagnato dalla buona testimonianza del suo parroco e della sua comunità, incoraggiato da tanti amici e dal favore della sua famiglia e della sua sposa. Torno a sottolineare come sia provvidenziale che questa candidatura si celebri proprio oggi, solennità di Cristo Re. Ecco la regalità del pastore premuroso di cui ci parla la prima lettura: con dodici verbi viene precisata la sua servizievole (diaconale) cura verso le pecorelle: cerca, cura, passa in rassegna, raduna, ritira, riconduce, fa pascolare, conduce, fa riposare, fascia, giudica. Un programma minuzioso per chi, al seguito del Re, si mette a servizio. Per sempre!
4.Caro Massimo, ti assicuriamo la nostra preghiera, ti auguriamo un ricco cammino di preparazione col collegio dei diaconi e con la guida di Mons. Ciccioni, ti aspettiamo come collaboratore del Vescovo e dei presbiteri. Già da stasera pronuncia dal profondo del cuore questa parola al tuo Signore: “Io sono tuo”! (cfr. Sal 118, 94), a lui il “Re di cuori”. Ricorda come, nel Vangelo che abbiamo proclamato, Gesù non dice: «Guarda, hanno fame; guarda, hanno sete…», ma: «Io ho fame; io ho sete…». La fame, la sete, la nudità, l’emarginazione che patiscono i poveri, lo riguardano personalmente. Anzi, essi sono lui!
A te che presenti la tua disponibilità e a tutti noi che ti siamo vicini Cristo Re domanda: «Che cosa fai per il tuo fratello?».

Omelia S.Messa di chiusura Esercizi Spirituali del Clero

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Ginestreto (PU), 21 novembre 2014

La presentazione al tempio di Maria è una memoria devozionale legata al ricordo della dedicazione di una chiesa in Gerusalemme. Tale festa ci dà occasione di considerare l’ambiente spirituale degli “anawim”, i poveri di Jahvè, così non per condizione sociale, ma per una qualifica interiore. Sono quei “piccoli” che tutto si aspettano da Dio, poveri perché non hanno nessun altro appoggio, sicurezza, risorsa su cui confidare. Non godono di nessun vantaggio se non il fatto che Dio li guarda e di loro si prende cura. Sono gli anonimi protagonisti dei salmi, che pregano così: «Solo in Dio riposa l’anima mia». «Come un bimbo svezzato è l’anima mia». «Come una cerva anela…». «Tu mi scruti e mi conosci». Maria dirà: «Ha guardato la piccolezza della sua serva» (Lc 1,48). Gli “anawim” stanno sulla soglia fra Antico e Nuovo Testamento. Il Nuovo Testamento ricorda Zaccaria, Elisabetta, Simeone, Anna… Altri ci sono ricordati dalla tradizione non biblica come Gioacchino e Anna. Ma al centro è Maria, la fanciulla di Nazaret, piena di grazia, tutta di Dio, ma non per questo meno “incarnata”: promessa sposa con tutte le emozioni – immaginiamo – di una fidanzata; mamma in una situazione rocambolesca; profuga con una famiglia sulle spalle; alle prese con un figlio dodicenne che pronuncia parole cariche di mistero; vicina alla gente del villaggio (le nozze di Cana), in cammino sulla via di Gesù. La ritroveremo al Calvario e col gruppo dei Dodici, la nuova famiglia di Gesù. Ci viene descritta così, nella peregrinazione della fede: anche per lei la fede è stata un cammino con i suoi misteri.
Nella festa della presentazione di Maria viene evocata l’offerta che Maria fa di sé per i disegni della Redenzione. Potremmo quasi insinuare che, in realtà, viene presentata e dedicata al tempio che è Gesù stesso: “Figlia del suo Figlio” (Dante Alighieri, Divina Commedia, Paradiso, Canto XXXIII). Basta pensare alla teologia del tempio nel Vangelo di Giovanni (2, 14-21).
Il Vangelo ci riferisce una domanda singolare di Gesù: «Chi è mia madre?». Come interpretarla? Gesù sapeva bene chi era sua madre. La conosce per la conoscenza che gli viene dal Padre. Lungi dal respingere colei che gli ha dato la vita, l’onora proponendola come modello di fede. In effetti chi più di lei ha fatto la volontà del Padre ogni giorno della sua vita? Si è madre, fratello, sorella del Signore facendo la volontà di Dio (cfr. Mc 3,35).
Così Gesù apre a noi la via di una parentela spirituale e, per il legame con Gesù, Maria diventa nostra madre, nostra sorella e ci guida con sicurezza nel cammino della santità.
Il messaggio è chiaro: mettersi in ascolto e saper vedere negli avvenimenti la volontà di Dio per diventare, nella fede e nella confidenza, come Maria, madri, fratelli e sorelle del Signore.
Nel prefazio sentiremo cantare la bellezza di Maria:
bella nella immacolata concezione,
bella nella maternità col suo bimbo che nutre al seno,
bella nella sua pellegrinazione al seguito di Gesù,
bella ai piedi della croce: agnella imporporata dal sangue dell’Agnello,
bella nella gloria della risurrezione.

Chiudiamo questi giorni di Esercizi spirituali con l’affidamento di noi stessi a lei. A lei affidiamo le nostre comunità, i nostri confratelli. A lei affidiamo il proposito di fare nostro il programma di riforma in chiave missionaria che ci propone il Papa.
La carica missionaria trae la sua sorgente nella relazione feconda con il Signore. Una relazione da custodire premurosamente, da difendere quando è necessario dagli attacchi dello spirito del mondo.
È necessario, utile e bello che diventiamo “esperti” delle cose dello spirito. Per noi e per quanti ci sono affidati e aspettano da noi una guida sicura, non “libresca” ma “provata”.
Raccomando a tutti la ripresa della direzione spirituale e la pratica quotidiana della lectio divina.
Concludo con le parole di papa Francesco:
«Senza momenti prolungati di adorazione, di incontro orante con la Parola, di dialogo sincero con il Signore, facilmente i compiti si svuotano di significato, ci indeboliamo per la stanchezza e le difficoltà, e il fervore si spegne» (EG 262).

Omelia della XXXIII Domenica del Tempo ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Scavolino, 16 novembre 2014

Mt 25,14-30

Cari amici, ecco il motivo del nostro riunirci festoso in questa domenica d’autunno: dire grazie al Signore per i frutti della terra. E dire “grazie” anche a chi continua ad avere fiducia nella terra. Imparino i più giovani, e gli adulti raccontino la bellezza del vivere in sintonia con la natura. Il sudore della fronte e la fatica sono – secondo Genesi 2 – eredità del peccato, ma dopo la redenzione diventano una benedizione feconda. Così preghiamo ogni domenica: «Benedetto sei tu Signore, Dio dell’universo, dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane frutto della terra e del lavoro dell’uomo…».
Il Regno di Dio, che cominciamo a gustare qui e ora, non è solo splendore e tenerezza, ma anche responsabilità. Nel Regno di Dio si lavora!
Il lavoro rende, in qualche modo, simili a Dio che ha fatto il mondo e lo regge con la sua Provvidenza. Nella Genesi viene fotografato con le abili mani del vasaio: prende la creta dalla terra e con essa plasma l’uomo; è immaginato come levatrice che soffia nelle narici del neonato che così comincia a respirare, o come chirurgo che dal torace di Adamo espianta la costola da cui viene creata la donna. Dio è raffigurato anche come un sarto che prepara il vestito per Eva e Adamo. Metafore dell’amorevole “lavoro” divino, svolto in totale gratuità. Opposta alla laboriosità è l’accidia: il vizio (grave!) di chi non sa assumersi responsabilità. L’accidia ha due forme: quella della pigrizia (indolenza, svogliatezza, ozio, inerzia, inoperosità) e quella dell’attivismo (lavoro come stordimento e alibi per il disimpegno dai doveri principali o dalla cura dei rapporti). Propongo tre sottolineature. Tutti i lavori sono importanti e “sacri”, compresi quelli domestici, umili e nascosti, compreso il servizio gratuito al vicino di casa, in parrocchia, nel volontariato. Il lavoro è la via normale per il proprio sostentamento, per mettere insieme uno stipendio e per realizzarsi, ma, in fondo, si lavora sempre per gli altri. Mai dimenticarlo! C’è un lavoro fra tutti il più trascurato: è la cura dell’anima. Non bastano le promesse da marinaio; ci vuole la pratica della vigilanza, l’ascolto del cuore, la preghiera! La parabola dei talenti ci insegna che Dio ha stima di noi e conosce le nostre possibilità; non pretende che siamo perfetti, ma chiede di non sprecare la vita e di non sottrarci alle responsabilità, anche minime, ma sempre preziose ai suoi occhi. La mentalità corrente, al contrario, pretende molto, troppo, salvo poi creare ansie e alimentare pesanti frustrazioni (burn-out). Allargando la considerazione ai grandi temi dell’attualità, domandiamoci se non vi sia nell’ingiustificato rinvio del matrimonio (secondo i dati Istat, per la prima volta, l’ anno scorso, il numero dei matrimoni è sceso sotto quota 200mila; e sono 53mila le nozze in meno negli ultimi cinque anni), o nella paura a mettere al mondo figli, o nella latitanza nell’educazione (genitori sempre più assenti), anche una mancanza di fiducia e di confidenza in Dio. Il servo che sotterra il talento – per stare alla parabola – è un pauroso. Lascia a riposo la creazione, mentre gli è affidata per farne esplodere le potenzialità. Egli può guarire solo recuperando un rapporto di fiducia. Questo il messaggio che vogliamo raccogliere da questa giornata del ringraziamento.

 

Omelia XXXII Domenica del Tempo ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Piacenza, 9 novembre 2014
Convegno Regionale delle Presidenze AC

Gv 2,13-22

Celebriamo la festa della Dedicazione della prima cattedrale di Roma: San Giovanni in Laterano. Una splendida occasione per riconsiderare la Chiesa di pietre vive a partire dal luogo dove essa si riunisce; una ulteriore opportunità per sentirci membra vive di un unico corpo; un rinnovato invito a stringerci attorno al Papa e alla Chiesa di Roma che presiede alla carità (cfr. Ignazio d’Antiochia Lettera ai Romani 1,1).
Lasciamo la lettura continuata del Vangelo di Matteo per metterci in ascolto di questa stupenda pagina di Giovanni.
L’evangelista racconta la prima delle tre Pasque che Gesù ha vissuto a Gerusalemme. In occasione di quella solennità compie uno dei gesti più significativi in ordine alla Rivelazione: il segno del Tempio. Gesù si manifesta come il vero ed unico “luogo” della manifestazione di Dio e della sua presenza salvifica con gli uomini.
Ma che cosa rappresentava il tempio per la fede e per la vita del popolo d’Israele? Il tempio era unico in tutto Israele, centro e simbolo dell’unità religiosa e politica; in esso risplendeva la gloria del Signore, la sua presenza. La sua distruzione costituirà per Israele un terribile choc.
Così cantavano i pellegrini che salivano al tempio: «Meglio un giorno solo nei tuoi atri che mille altrove» (Sal 83, 11). Gesù ha grande considerazione e rispetto per il tempio. Come ogni pio israelita, Gesù sale al tempio cantando i salmi delle ascensioni, col cuore colmo di emozione e stupefatto per tanta bellezza e splendore. Gesù prega e insegna nel tempio. Che cosa trova anche? Al tempio confluivano folle enormi di pellegrini per la Pasqua, ed era necessario aprire negli atrii un mercato di pecore, buoi e colombe per le offerte sacrificali, dal momento che non potevano portarli con sé dai luoghi di provenienza. Inoltre, i fedeli venivano dalle regioni più lontane ed erano perciò necessari anche cambiavalute.
Gesù compie nei confronti dei “mercanti” un’azione simbolica profetica: prende alcune funicelle, che servivano per condurre gli animali, e violentemente rovescia bancarelle, soldi e cesti di animali e sbatte fuori tutti. Il mercato del tempio aveva già acceso d’ira il profeta Zaccaria (cfr. Zac 14,21), ma la motivazione era ben diversa. Gesù non se la prende con i venditori o con i loro eventuali affari illeciti. Di per sé non si propone di riformare il culto, ridando decoro al tempio e facendo sì che torni ad essere un luogo dove si possa pregare dignitosamente. Non si tratta tanto di una purificazione del tempio, come nei racconti analoghi dei sinottici, ma Gesù si sostituisce all’istituzione stessa del tempio. Esso ha finito il suo compito; non solo i venditori, ma il tempio stesso sta per terminare la sua funzione. Ciò è perfettamente in linea con quanto Gesù dirà alla Samaritana: «Non più su questo monte o a Gerusalemme… ma viene un’ora, ed è questa, in cui i veri adoratori adoreranno Dio in spirito e verità» (Gv 4,21-24). Nella nuova comunità non c’è più un tempio, perché Cristo è il suo tempio (cfr. Ap 21, 22). È dunque un gesto messianico decisivo quello compiuto da Gesù, non semplicemente un richiamo morale o liturgico: «Egli infatti parlava del santuario del suo corpo» (Gv 2,21). Solo a Pasqua i discepoli, illuminati dallo Spirito, capiranno che il Risorto è il Tempio di Dio, distrutto da chi l’ha ucciso e riedificato dopo tre giorni.
È Gesù, Verbo incarnato, il luogo della dimora definitiva di Dio fra gli uomini. Una volta era il tempio, ma poi, per la malvagità del suo popolo, la gloria ha abbandonato il tempio (cfr. Ezechiele 10,18ss) per tornarvi nei tempi messianici (cfr. Ezechiele 40-43). È solo in Gesù che Dio manifesta tutta la sua gloria.
È solo in Gesù che l’uomo incontra Dio, che è la vita, perché Gesù è quel tempio da cui scaturisce l’acqua viva che sana ciò che è morto.
In profonda unione a Cristo la comunità cristiana rende il vero culto gradito a Dio che autentica anche il culto liturgico al tempio (cfr. Efesini 1,13). Un tempio fatto con pietre vive (prima lettera di Pietro 2,5).

Omelia Commemorazione dei fedeli defunti

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Gattara, 2 novembre 2014

Lc 12,35-40

«Anche voi tenetevi pronti, perché il Figlio dell’uomo verrà nell’ora che non pensate». Si parla troppo poco dei Novissimi. Anzi, s’è perduto il significato stesso della parola; parola che indica “le ultime cose” della storia di ognuno e di tutti. Un tempo venivano elencate così: morte, giudizio, inferno, paradiso. Che i Novissimi siano importanti per la vita era ben espresso dall’ammonizione – pezzo forte dei predicatori – memorare novissima tua et non peccabis (traduzione libera: il ricordo dei Novissimi ti terrà lontano dal peccato). Noi preferiamo dire che il discorso sulla fine è in realtà il discorso sul fine che diamo alla vita.

Tutto finisce. E, allora, perché comincia ad esistere? La zanzara come l’aquila, il cespuglio come il cedro del Libano, la capanna come il grattacielo, le cose banali come le sublimi… Il Vangelo racconta dello stupore degli apostoli davanti alla bellezza del tempio di Gerusalemme (cfr Lc 21,3-7). Era una meraviglia: chi veniva dalla provincia non poteva trattenere l’ammirazione. Del resto anche Gesù era assai sensibile alla bellezza (ricordate le sue parole sul monte: Guardate i gigli del campo? cfr. Mt 6,28). Eppure tutto passerà, ribadisce Gesù. Perfino del tempio non resterà pietra su pietra (Lc 21,6). «Tenetevi pronti» (Lc 12,40).

Morte. E ci saranno altri crolli. Crolli cosmici e crolli personali. Siamo fatti di materiali deperibili, a breve o a lunga scadenza che siano. Val la pena pensarci: su che cosa fondo la mia vita? Ho trovato un solido ancoraggio per la barchetta della mia esistenza? Domanda totale: per chi vivo?

Giudizio. Tutto apparirà più chiaro alla fine: sarà un giudizio inequivocabile, ma non dovrò temere se Dio sarà il mio tutto. Egli non lascia nulla d’intentato per unirmi a sé. Persino gli avvenimenti che fan soffrire sono un invito a cercare quello che vale, a procurare amici, a mettere da parte tesori che la ruggine non consuma.

Inferno. Un cuore che non si apre sarà incapace di Dio, come un radar in avaria, sordo ad ogni segnale e opaco persino allo splendore del sole. L’inferno non è altro che la definitiva, ostinata e terribile chiusura all’amore di Dio.

Paradiso. Il paradiso, al contrario, è inesauribile emozione e pienezza: vedremo, ameremo, canteremo. Desiderio colmato, amore senza fine, pienezza che non ha più bisogno di parole: cuore dov’è il nostro tesoro (cfr. Lc 12,34). Questo Vangelo – morte, giudizio, inferno, paradiso – ci fa camminare sul crinale della storia: da un lato il versante oscuro della fine; dall’altro il versante della tenerezza che salva: neppure un capello andrà perduto (cfr Mt 10,30). Questa la missione di Gesù: «che io non perda nulla di quanto il Padre mi ha dato» (Gv 6,39). Missione compiuta (cfr. Gv 17,12; 18,9)!

 

Omelia Solennità di Tutti i Santi

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Cattedrale di Pennabilli, 1 novembre 2014

 
La solennità di Ognissanti e l’annuale commemorazione dei defunti sono una tappa importante nell’anno liturgico e ricorrenze molto sentite dai cristiani.
Siamo invitati dalla liturgia ad una straordinaria esperienza di comunione spirituale: la Chiesa militante (noi in cammino sulla terra), la Chiesa purgante che si prepara con la purificazione all’incontro “faccia a faccia” col Signore, la Chiesa trionfante che gode già della visione beatificante. Non tre Chiese, ma un’unica Chiesa. Un unico corpo, saldissima unità, reciproco scambio. In questi giorni la liturgia non ha pianti, perché ciò di cui fa memoria non è la morte ma la resurrezione; la liturgia non ha lacrime se non asciugate dalla mano di Dio. La Chiesa infatti non pronuncia parole sulla fine, ma sulla vita…
Come si riconosce un santo? Dalla gioia, anzitutto. Il santo è una persona non necessariamente straordinaria, ma straordinariamente centrata sul tesoro che rende la sua vita felice, cioè tutta “unità” e “armonia”: un santo triste è un triste santo!
Ecco le beatitudini! Poveri, miti, puri, affamati, perseguitati… che Gesù chiama “beati”!
Provo a dire qualcosa del mio rapporto coi santi. Da ragazzo ammiravo padre Damiano De Veuster, missionario tra i lebbrosi. In lui, come in altri santi missionari, ammiravo l’aspetto eroico, avventuroso e romantico. Il mio proposito di adolescente era: anch’io voglio essere santo. Ma è pura illusione pensare che la santità sia frutto dei nostri sforzi!
Da giovane mi ha soccorso l’incontro con Teresa di Lisieux, “la mia ragazza” (così la chiamavo). L’ho incontrata nei giorni della disillusione: non riuscivo ad essere santo nonostante gli sforzi sinceri. La santità – concludevo – non è per me. Teresa mi ha insegnato la “piccola via” e le sei “esse”: “Sarò santa se sarò santa subito” – diceva Teresa. Una scoperta: la santità dono da accogliere, dono di Dio seminato in ciascuno di noi.
Molti fra i santi sono giovani. Forse il Signore li porta presto con sé perché hanno raggiunto la maturità? Forse vengono preservati da questo mondo? La cosa finisce per inibire la presentazione dei santi giovani, perché spesso ricordati per la loro sofferenza e la morte prematura, prima che abbiano “gustato la vita”, l’amicizia, l’amore… Ci si spaventa pensando: “Dio mi prende in parola, appena riesco a dirgli che voglio essere suo”. Pregiudizi, luoghi comuni, paure: pensieri da superare.
La santità è per i giovani. Ma è per tutti: la santità rende giovani, perché porta a vivere gli aspetti più belli e caratteristici della giovinezza. Queste le qualità dei giovani: la generosità come assenza di calcolo; la totalitarietà: tutto o niente!; l’audacia dei grandi progetti: sono leggeri, senza troppe sovrastrutture e si incamminano più facilmente verso “i sogni” (nota sul sogno: una certa scuola di pensiero afferma che il sogno fa emergere il passato che è stato rimosso, passato che l’assenza di censure fa affiorare; secondo un’altra scuola il sogno è una risorsa aperta al futuro, è immaginazione verso una realtà nuova, è il principio della speranza).
Nella mia esperienza di postulatore ho notato lo stupore dei contemporanei e dei vicini scettici sulla santità dei candidati (troppo normali!); la scia di persone accanto ai santi: c’è un fascino che attrae e coinvolge (la santità è un fatto comune); la santità è Gesù tra noi: nella Chiesa, nella Parola, nei sacramenti, nel servizio amorevole.
Ho conosciuto dei santi “vivi”: quanti! Non sono proclamati tali perché ancora in cammino. Santi col Vangelo nel cuore, gente che scopre che “c’è più gioia a dare che a ricevere”, che nonostante la loro piccolezza sono “sale e luce”…

Omelia Esequie di suor Maria Caterina

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Sant’Agata Feltria, 28 ottobre 2014

Ap 21, 1-7
Mt 11, 25-30

Cara Suor Caterina, ecco, ora: “una nuova terra e un nuovo cielo… Il mare non c’è più…”! (cfr. Ap 21, 1). È finito il viaggio fra i pericoli, le burrasche, i travagli… Sei arrivata in porto. Il mare, nelle Scritture, è l’elemento oscuro, inquietante; luogo di pericolose tempeste scatenate da forze brutali e implacabili; racchiude abissi abitati da mostri. Ma ora sono annientati. È il momento della nuova creazione. Siamo rapiti nella meraviglia della visione profetica, nel punto culminante dell’Apocalisse. Ecco incedere una sposa adorna per il suo sposo. Se ci sono lacrime, sono di gioia e di commozione, perché le cose di prima, come la morte, il lutto, l’affanno, il lamento, non ci sono più. «Ecco, io faccio nuove tutte le cose»: dice colui che siede sul trono. Sono le prime note della sinfonia del nuovo mondo. Una sposa assetata – con una sete durata per più di 85 anni – finalmente, come la cerva cantata dal Salmo, può saziarsi alla fonte: «A colui che ha sete darò gratuitamente acqua della fonte della vita» (Ap 21, 6). Il Signore giura che sarà lui in persona a colmare pienamente ogni suo desiderio fino a darsi come suo tutto (“sarò il tuo Dio”) e lei sarà figlia, il tutto per il Padre!
Che cosa può ottenere di più una creatura?
Vedrà cieli nuovi e terra nuova. Vedrà dischiudersi ciò che da sempre è avvolto nel mistero. Vedrà quel volto da tanto cercato e implorato.
Amerà senza alcun imbarazzo o inibizione e in totale libertà; amerà a tal punto che il suo amante potrà finalmente donarsi a lei con la totalità del suo essere; e amerà senza fine, perché è proprio dell’amore non essere mai sazio.
Canterà per la pienezza della gioia; canterà perché è proprio di chi ama oltrepassare la strettoia delle parole e lasciarsi andare alla melodia del cuore.
Sì, carissime sorelle, carissimi amici, vedremo, ameremo, canteremo. È il nostro destino. Dovremmo aiutarci di più a fissare lo sguardo verso la meta, a “cercare le cose di lassù” (cfr. Col 3,1).
Voi, care sorelle, ci aiutate, ci indicate – con la vostra vita – la consistenza del Regno di Dio. Con la scelta audace di una vita povera, casta, obbediente, ci dite che il Signore è il tesoro, la pienezza del cuore, la totale libertà. Danza!
Il giorno della vostra professione religiosa avete indossato il velo, segno di consacrazione e della vostra esclusiva appartenenza al Signore. “Posuisti Domine signum in faciem meam…”, perché il Signore non ammette altro sposo fuorché lui.
Qualche tempo fa sono stato accompagnato per una visita a suor Caterina. Si era aggravata. Distesa sul suo lettino non indossava il velo per ovvi motivi. Ma questa circostanza mi ha indotto a riflettere sul significato della “velatio virginis”. Lasciate che dedichi qualche parola a questo simbolo, il velo.
Il significato del velo è evidente. S. Gertrude si preparava a ricevere il velo con queste parole: “O mio diletto, fammi riposare all’ombra della tua carità… Lì riceverò dalle tue mani il velo della purezza che, grazie alla tua guida, porterò senza ombra di macchia davanti al tribunale della tua gloria…” (Esercizi spirituali, III). Sublime vocazione. La consacrata nella verginità, per essere esclusivamente sposa di Cristo, si sottrae allo sguardo di altri possibili pretendenti e amanti. Vive ritirata dal mondo, nel chiostro per essere sempre sotto lo sguardo di Dio e a lui solo piacere per l’intensità dell’amore. Il velo è, quindi, una specie di clausura nella clausura. Il velo non ha nulla di opprimente, anzi è molto amato dalla monaca e da lei devotamente portato; lo bacia ogni volta che lo mette e lo toglie. Il velo, distogliendola dal divagare con gli occhi, l’aiuta a tenere lo sguardo del cuore più direttamente rivolto a Dio, nella contemplazione del suo volto sempre desiderato e cercato.
Il velo è anche il segno del pudore che la nasconde, in un certo senso, al suo stesso sposo. In questa luce i Padri hanno letto il Cantico dei Cantici: «Quanto sei bella, amata mia, quanto sei bella! Gli occhi tuoi sono colombe, dietro il tuo velo… Giardino chiuso tu sei, sorella mia, mia sposa, sorgente chiusa, fontana sigillata» (Cant 4, 1.12). Versetti splendidi! Esprimono ammirazione e commosso stupore dello sposo divino davanti alla promessa sposa tutta raccolta e rivestita di un umile e delicato riserbo. Alla mentalità e alla sensibilità del nostro tempo riesce difficile comprendere questa consuetudine monastica. Appare subito come segno di sottomissione, troppo frainteso nel suo significato originario o troppo strumentalizzato. La monaca vive in modo sublime il mistero nuziale e materno sul piano soprannaturale. Il forte simbolismo del velo indica proprio la generosità e l’intensità con cui la claustrale fa dono di sé a Dio per tutti, rimanendo nascosta per essere di tutti. È come se il Cielo si curvasse su di lei per avvolgerla nell’intimità del cuore di Cristo, a somiglianza della Vergine Maria: «Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra» (Lc 1,35).
Nella Chiesa antica nel momento in cui il vescovo imponeva alla consacrata il velo sulla testa tutto il popolo che gremiva la chiesa gridava: Amen, amen! Vedeva la propria destinazione nella vocazione della vergine. Il velo può essere visto anche come segno di martirio, perché segno di una vita interamente donata ma, nel contempo, come segno regale perché la vergine è sposa del Re e da lui è coronata, avvolta nel suo manto. Nella tradizione la vergine madre, Maria, è sempre raffigurata col velo, spesso è un velo che scende lungo la sua persona e avvolge il Figlio Gesù e tutti noi suoi figli.
Cara suor Caterina, sei vissuta sulla terra nascosta al mondo ma per essere nel cuore del mondo e portare tutti gli uomini nel cuore di Cristo, unico sposo della Chiesa, dell’umanità redenta a prezzo del suo sangue. Entra nella gioia del tuo Signore. Sarai il motivo del suo incanto e del suo canto: «Ti lodo Padre, signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11,25).
 
 

Omelia del funerale di suor Michelina Calisti

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Monastero di Pennabilli, 24 ottobre 2014

Comunichiamo che la nostra amata Suor Michela Calisti, al secolo Angela, è spirata questa mattina alle 10.00 all’età di 100 anni e sei mesi di cui 77 di vita religiosa. Michela, originaria di Maciano (frazione di Pennabilli) è stata un vero dono per tutte noi. La sua presenza, che negli ultimi due anni è stata silenziosa e sorridente, ci ha fatto sperimentare da vicino il senso e la preziosità dell’affidamento, della docilità, dell’amore grato che sorride ad ogni gesto di affetto e di cura. È stata per ciascuna uno spazio di accoglienza mai ritirato, nemmeno in quest’ultimo tratto di strada ove, negli istanti di coscienza, non ha cessato di sorridere, accarezzare, baciare ognuna. È spirata serena, naturalmente, come una lampada che ha dato tutto, fino all’ultima goccia di olio. Eravamo tutte con lei.
La Comunità delle Monache Agostiniane di Pennabilli

Mt 11, 25-30

Cent’anni e sei mesi di vita: quanta sete! Ora ha trovato il suo ristoro.
Stiamo vivendo e partecipando ad un momento di incanto di Gesù; il suo incanto davanti ai piccoli, davanti a suor Michelina: «Ti rendo lode, Padre, perché hai svelato queste cose ai piccoli». Sono i piccoli di cui è pieno il vangelo: gli anawìm, cioè coloro che hanno posto nel Signore ogni loro fiducia, coloro che si aspettano tutto dal Signore. Hanno detto il loro “sì” al Regno di Dio con semplicità. Sconosciuti al mondo, eppure così amati dal Padre e posti ad essere radici nella pianta della Chiesa. A loro è dato di conoscere i misteri del Regno. Il Padre rivela loro cose belle, segrete e inaudite. Dischiude per loro un “sapere” precluso alla superba presunzione di chi si crede sapiente, un sapere di cui sono assetati i saggi di tutti i tempi, “cose nelle quali gli angeli desiderano fissare lo sguardo” (cfr. 1Pt 1,12). La scienza del Padre non è frutto di una ricerca intellettualistica. Sboccia dentro la relazione stessa che Gesù ha con il Padre ed alla quale questi piccoli partecipano. Chi accetta di diventare bambino, cioè figlio, troverà e gusterà il sapore di quel sapere.
Dona, Signore, il tuo riposo. Quando l’amore di Dio può manifestarsi a qualcuno, questi cambia e trasforma la sua vita. Chi si lascia amare da Gesù non è dispensato dal vivere la condizione umana con tutto ciò che essa comporta: pesi, difficoltà, interrogativi, e perfino dispiacere per le imperfezioni nell’amore… Ma quell’anima viene ingaggiata da Cristo per migliorare il mondo. Chi getta in lui la sua àncora scopre che il Signore l’aiuta nella fatica di esistere. Per settantasette anni suor Michelina ha vissuto tra le mura sante del monastero su questa rupe. Ora sente la voce dello Sposo che la chiama alla vita, alla pace, al riposo. Cristo, il buon Pastore, la conduce a verdi pascoli e la fa riposare (cfr. Sal 22), la introduce nel grande Sabato, al compimento della speranza che ha reso bella la sua vita quotidiana. Non è questo uno degli aspetti più stupefacenti della rivelazione? Non è un buon motivo di lode? Ti lodo Signore perché sei mio riposo.